Sarà pur vero che l'ozio non genera mostri, ma qualche problema lo crea
L’angoscia che si prova per la troppa libertà. La questione lavoro/non lavoro è roba vecchia, almeno secolare, e ce lo ricorda “Confessione di mezzanotte”, libro di George Duhamel che uscì nel 1920 in Francia ora tradotto in italiano
L’ossessione per il lavoro, e per il non lavoro, sembra un tema così contemporaneo. “Il neoliberismo ha fallito, i robot ci rubano il lavoro, e il mondo si è fatto sempre più complesso e astratto”, dice un libro recente, diventato un po’ manifesto dell’intellettualizzazione del reddito di cittadinanza, “Inventare il futuro”, di Nick Srnicek e Alex Williams (Not). E poi “Le grandi dimissioni”, libro di Francesca Coin (Einaudi), che dice: “Ci hanno sempre ripetuto che il lavoro è ciò che ci definisce, il fondamento della nostra dignità di esseri umani. E allora perché, in tutto il mondo, sempre più persone si dimettono?”. E si arriva fino a quei meme nati nei profili neomarxisti (Dream job? I don’t dream of labor) che in traduzione sono passati nella categoria buongiornissimo con un minion che dice: “Qual è il lavoro dei tuoi sogni?”, e l’altro minion che risponde: “Nei miei sogni non lavoro”. Ecco, sempre questa pretesa vanitosa che le cose siano tipiche della nostra epoca, che ci fa sentire al centro della Storia. Ma la questione lavoro/non lavoro è roba vecchia, almeno secolare, e ce lo ricorda un libro di George Duhamel che uscì nel 1920 in Francia e che arriva con un po’ di ritardo in Italia, “Confessione di mezzanotte” (pubblicato da Ago, nuova casa editrice indipendente che si concentra sul Novecento, traduzione di C. Miracle Bragantini).
Duhamel è stato dimenticato, come capita ad alcuni autori per un motivo o per l’altro, almeno fuori dalla Francia. Medico, volontario nella Prima guerra, vinse il Goncourt nel 1918 e nel ’35 fu eletto membro dell’Académie, di cui diventa poi secrétaire perpétuel negli anni dell’occupazione nazista, difendendo l’istituzione da attacchi e influenze, tanto che de Gaulle lo considererà nelle sue memorie “illustre e coraggioso”. Autore prolifico, alcuni vedono nelle sue opere un’influenza sull’esistenzialismo dei café. In “Confessione di mezzanotte” il protagonista e voce narrante, il trentenne Louis Salavin, paragona il grande ufficio dove fa lo scribacchino “colombario del Père-Lachaise”. Vive con la madre, che vive di una modesta pensione, nel quartiere latino. Poi, per un gesto insulso, innocente e impulsivo – “atto idiota eppure necessario” – perde il suo posto da un momento all’altro nella ditta dove è impiegato da cinque anni. Lo assale immediatamente il terrore che “la povertà si sarebbe probabilmente trasformata in miseria”.
Dopo aver vagato per una Parigi “tenebrosa e arida”, non è però la povertà a distruggerlo, ma un insieme di sensazioni ancora più dolorose causate dall’assenza di una routine, di orari e di mansioni. La vita del nullafacente, scopre il protagonista, diventa ancora più faticosa, perché non avendo obiettivi, la noia si trasforma in dolore. “Me ne andavo quindi per le strade rimuginando sulla mia vita e constatando, quasi a ogni istante, che il mondo mi sfuggiva, che ero un derelitto, un poveraccio, un miserabile”. Salavin rimanda la vita. Gira senza meta, ma senza la tranquilla curiosità del flâneur. “Le mie passeggiate non avevano altro scopo che me stesso”. E anche le attività mentali seppur violente, non portano a nulla. “Posso dire che pensavo? Posso attribuirmi questo merito?”, si chiede. No, “ero visitato, attraversato, brutalizzato, violato da innumerevoli pensieri che subivo senza provocarli in alcun modo”. Cerca lavori, ma ormai è inebriato, seppur addolorato, da questa immobilità causata dalla nullafacenza. Ogni mattina si sveglia “più miserabile, più odioso, più colpevole che mai”. L’ozio crea mostri. O, come scriveva Proust, “il lavoro è il prezzo della libertà”. Sarebbe da regalarne una copia insieme alla carta RdC.