La carica dei cento e uno, film d'animazione del 1961 prodotto da Walt Disney e basato sul romanzo di Dodie Smith 

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L'umano cane: storia di un legame millenario

Mattia Manoni

Quattro zampe che assomigliano ai padroni? Forse non è solo una suggestione, c’entra l’evoluzione

I cani vivono accanto agli esseri umani da decine di migliaia di anni. E certamente non ci affiancano in maniera fortuita o superficiale dato che sono stati creati, plasmati per difendere e proteggere noi stessi, i nostri cari e le nostre proprietà, in guerra come in pace; per aiutarci nella caccia e nella pastorizia, per venirci a cercare quando siamo travolti e sommersi da valanghe o frane, inghiottiti dalle acque o scomparsi sotto le macerie di edifici crollati. Inoltre, come se non bastasse, hanno iniziato a rivestire persino dei ruoli in ambito sanitario, venendo coinvolti nei processi di cura tanto da essere considerati veri e propri co-terapeuti. Quale altro animale riuscirebbe a fare tutto questo adattandosi così bene a una tale varietà di compiti e situazioni? E perché proprio il cane è in grado di farlo? Per tentare di rispondere a queste domande è necessario partire dalle origini, da quando cani e persone si sono incontrati. Più precisamente da quando i nostri antenati – quasi certamente i sapiens – si sono incontrati con i loro, vale a dire con i lupi ancestrali.  

Fino a non molti anni fa, che i cani discendessero dai lupi non era un’evidenza tanto quanto lo è oggigiorno. Per lungo tempo, infatti, importanti scienziati come Konrad Lorenz – noto al grande pubblico per aver individuato la fase di imprinting, la finestra temporale in cui i cuccioli di tutti i vertebrati sono particolarmente sensibili ad alcune forme fondamentali di apprendimento – hanno ipotizzato che i progenitori dei cani potessero essere gli sciacalli. Questo tipo di ipotesi venivano formulate partendo principalmente dalle analisi morfologiche dei resti ossei di canidi dell’età della pietra trovati in concomitanza a quelli umani. Ma considerando che ancora oggi cani, coyote, lupi e sciacalli possono incrociarsi fra loro e generare prole fertile, si può immaginare la difficoltà di interpretazione di questo tipo di reperti.

È grazie a un articolo apparso nel 1997 su Science, intitolato Multiple and Ancient Origins of the Domestic Dog (“Origini multiple e ancestrali del cane domestico”) che il dibattito su chi sia il progenitore del cane ha vissuto un momento di svolta. In questo lavoro, infatti, sono state eseguite delle analisi genetiche sul dna mitocondriale (dna che nella stragrande maggioranza dei casi si eredita esclusivamente dalla madre) di 167 lupi e 140 cani domestici, giungendo alla conclusione che questi ultimi discendono dai lupi, non da altri tipi di canidi. E anche che questa discendenza si è verificata a partire da più popolazioni di lupi in diverse parti del mondo, quindi non da un progenitore o un gruppo unico e geograficamente localizzabile.

Un altro aspetto interessante e inaspettato suggerito dagli autori di questo studio è che l’inizio del processo di separazione genetica tra lupi e cani sia cominciato 135 mila anni fa, una data che si colloca molto indietro nel tempo rispetto a quella su cui, a oggi, c’è un generale accordo, cioè circa 40 mila anni fa.  

Del resto, Juliet Clutton-Brock – una scienziata considerata un pilastro degli studi archeozoologici – nel libro Storia naturale della domesticazione dei mammiferi (Bollati Boringhieri, 2017), sostiene che una stretta associazione dei lupi con gli ominidi è concepibile forse fin da prima dell’evoluzione di questi ultimi in sapiens. Inoltre, continua, il fatto che i primi reperti di canidi simili a quelli degli attuali cani domestici vengano fatti risalire a 10-15 mila anni fa potrebbe essere dovuto al fatto che in quel periodo le persone passarono da uno stile di vita nomade in quanto cacciatori-raccoglitori, a uno sedentario da agricoltori. L’ipotesi è che fu proprio questo passaggio, un cambiamento così radicale – seppure non repentino –, a modellare i corpi e i comportamenti dei cani fino a renderli simili a quelli odierni. Ciò che si ipotizza è che i cani di allora, a causa della continua e costante vicinanza agli esseri umani, avrebbero sperimentato quella che viene definita sindrome di domesticazione”.

Per parlare di questo concetto è necessario tirare in ballo Dmitry Belyaev, un genetista russo che nei primi anni Cinquanta del Novecento diede avvio a uno studio geniale che continua tutt’ora, basato sull’idea che le caratteristiche fisiche dei cani siano la conseguenza di una selezione eseguita dall’uomo sui tratti comportamentali piuttosto che su quelli anatomici. Questo significa che se i cani odierni hanno tutti delle caratteristiche fisiche comuni – come del resto anche altri animali domestici – è perché gli esseri umani hanno selezionato quelli che si comportavano in un modo piuttosto che in un altro. E per dimostrare questa ipotesi Belyaev iniziò il più lungo esperimento di genetica comportamentale che sia mai stato fatto. Fece arrivare alcune volpi da pelliccia da allevamenti vicini all’istituto di citologia e genetica in cui lavorava e, assieme alla sua assistente Lyudmila Trut, permise di riprodursi solo a quelle che si dimostravano amichevoli nei confronti delle persone. Nel giro di alcune generazioni i ricercatori notarono che le volpi nate secondo questo criterio di selezione scodinzolavano agli esseri umani e ne cercavano il contatto fisico. Quelle delle generazioni successive nascevano con la coda arricciata e il pelo chiazzato di bianco, con le orecchie pendule e i musi più corti. Ecco, dunque, come la selezione eseguita su caratteristiche comportamentali si manifestava in caratteristiche fisiche. Sorprendente, no?     

  

 Antonio Ritta, un cane e il suo padrone - Foto Wikipedia

 

È per questo che un cane con il pelo pezzato di bianco e con le orecchie pendule ci appare più docile di uno tutto nero con le orecchie erette. Basti pensare a quello che proviamo guardando un cocker spaniel o un pastore belga per renderci conto quanto le diversità fisiche di una cane ci rendano più o meno vigili. Come riporta Paola Valsecchi – professoressa presso il dipartimento di Scienze chimiche, della Vita e della Sostenibilità ambientale dell’università di Parma – nel suo libro Attenti ai cani (Il Mulino, 2020), caratteristiche quali la non aggressività e la capacità di tollerare la vicinanza umana sono mediate da geni che controllano anche caratteristiche anatomiche come, ad esempio, un muso corto e arrotondato.  

Clutton-Brock sottolinea come l’accorciamento della regione facciale, la presenza di grandi occhi, di un cranio spazioso e di gambe più corte siano tutti aspetti che nel lupo adulto vengono perduti o prima della nascita o comunque entro la fine del periodo di crescita. In sostanza, nell’individuo di cane adulto vengono mantenute caratteristiche infantili o addirittura fetali. Ecco perché molte persone si rivolgono ai cani utilizzando gli stessi vocalizzi che si usano con i bambini molto piccoli, perché spesso è così che ci appaiono. Inoltre, continua la scienziata, l’abbaiare, dato che è un comportamento quasi assente negli altri canidi, potrebbe essere uno sforzo per tentare di comunicare con gli umani, se non addirittura un tentativo di imitarne la voce.  

Oltre a comunicare vocalmente, la loro evoluzione – a cui come si sarà capito abbiamo ampiamente partecipato – li ha portati non solo a interpretare e comprendere le espressioni facciali umane, ma persino a riprodurle. Come quando il nostro amico a quattro zampe, correndoci incontro o godendosi le carezze, ci sembra che sorrida. Probabilmente è quello che sta facendo perché, come riporta sempre Clutton-Brock: “Se un cucciolo viene allevato in una famiglia in cui tutti sorridono molto, da adulto finirà per imitare quest’espressione di soddisfazione, atteggiando le labbra e la muscolatura intorno alla bocca a una sorta di sorriso obliquo”.  

Forse è per questo che a volte sembra esserci una somiglianza tra il cane e la persona che se ne occupa. Come accade nel celebre cartone animato La carica dei cento e uno, in cui Pongo (il cane) scrutando dalla finestra la via sottostante alla ricerca di una compagna per Rudy (l’uomo), vede passare diverse donne i cui rispettivi cani ne sono la copia quasi perfetta. La storia degli esseri umani è talmente intrecciata a quella dei cani che, in particolari condizioni, come quelle derivanti dall’isolamento geografico della Sardegna, i genomi umani e canini possono condividere informazioni simili. E’ ciò che è emerso da uno studio pubblicato nel 2016 sulla rivista Genetics che ha indagato le origini di un cane sardo conosciuto come “cane del fonnese”. I risultati di questo lavoro hanno fatto emergere come sia la popolazione umana sarda che quella dei cani del fonnese avrebbero antenati provenienti dal Nordafrica, dal medio oriente e dall’Ungheria.

Arrivati a questo punto, è inevitabile chiedersi come sia possibile raggiungere un grado di reciprocità tanto elevato tra animali che tutto sommato appartengono a famiglie molto diverse tra loro, come quelle dei canidi e degli ominidi. Al di là del ruolo che i nostri antenati hanno avuto nel modellare il corpo e il comportamento dei lupi, ciò che accomuna queste due specie (i sapiens e i lupi) è che, in qualche modo, per entrambe, la vita all’interno del proprio gruppo sociale riveste un ruolo fondamentale, sia per la crescita del cucciolo che per la sopravvivenza e lo sviluppo dell’individuo adulto. In entrambe le specie, infatti, esistono complesse forme di comunicazione che servono a segnalare e sottolineare gerarchie ben definite, ruoli che è necessario saper riconoscere e ai quali è necessario adattarsi. Una vita sociale che, ad esempio, animali come il gatto, il furetto o lo stesso sciacallo non possiedono in maniera tanto articolata. Si ipotizza, dunque, che sia stata questa capacità nel leggere i segnali sociali, questa comunanza nelle capacità comunicative innate, ad avvicinare le due specie ma soprattutto a mantenere questo legame per migliaia di anni.  

Un’ulteriore testimonianza di quanto questo rapporto sia intenso è data dall’incremento dei guadagni generato dalla vendita dei prodotti per animali. Infatti, secondo il Rapporto Assalco - Zoomark 2022, lo sviluppo del mercato del pet food ha registrato una crescita continua e costante negli ultimi 15 anni, con un tasso di crescita medio annuo del +5,7 per cento. Passando da 1.163 a 2.533 milioni di euro nel periodo che va dal 2007 al 2021. 

Il fatto che negli ultimi 200 anni si sia standardizzato il concetto di razza canina fino a raggiungerne l’incredibile numero di circa 400, dà l’idea di quanto ci sia piaciuto – e ci piaccia tutt’ora – creare dei cani il più possibile vicini ai nostri desideri. Sebbene non sia facile stabilire quali siano le migliori motivazioni per creare, mantenere, o affinare una razza, rimane necessario chiedersi se, almeno di qualcuna, non se ne poteva fare a meno. Soprattutto di quelle che, per rispettare dei canoni estetici umani del tutto arbitrari, si ritrovano a vivere una vita, per usare un eufemismo, corta e piena di fatiche.

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