I ritratti
Scene da un patriarcato. Com'è varia la galassia maschile
Oltre ai bulli, sono molti i personaggi in cerca d’autore. O, più spesso, d’autrice
Con la fine del patriarcato, quel che resta del maschio è presto detto. È il gattomorto. Seguito dal vinto, il risentito, il ribelle, il pupone… Perché il patriarcato è finito – almeno in occidente – lasciando spazio all’anarchia fra i sessi. Che a sua volta genera mostri, più o meno nuovi. Ed ecco, questa volta parliamo di uomini. O meglio, di maschi bianchi eterosessuali. Non di tutti, certo. Ma magari di una buona parte che, se vista da vicino, ci racconta un’altra commedia. È la crisi del maschio in sei scene.
Il gattomorto
Sta sempre dalla parte giusta. E cioè a sinistra, ma con lievi cedimenti a destra (vedi ministro Tajani che per l’assassinio d’una ragazza si scusa, lui, d’essere maschio etero).
Felino di razza umana, il gattomorto punta l’emergenza mediatica come un gattovivo punta le lucciole. Ché a dirsi anti patriarcale, ha capito, ci si guadagna il pane: ovvero le rubriche in prima pagina o i varietà su Canale Nove (anche Roma, dopo Parigi, ha il suo Salon des Refusés). Il gattomorto fa cucù dalle redazioni, dai palazzi, dai tappeti rossi. Quanto al grande schermo, prendete per esempio Valerio Mastandrea. L’attore che sul tappeto rosso si pronuncia nella lingua madre della banalità, il romanesco à la Diego Bianchi, e dice: “Le donne c’hanno più consapevolezza, oggi, mentre nell’uomo non vedo differenza”. Ma prendete pure la musica pop. E per la precisione l’indie-rock ovvero il rock vivace quanto il punto croce. Colapesce e Dimartino cantano in questi giorni Ragazzo di destra: un ritratto bianco-etero all’uncinetto. Il ragazzo di destra, dicono i Simon & Garfunkel della Trinacria, è quello che vuole “un figlio naturale la notte di Natale”. Naturale, Natale… Oltraggio. O magari brivido felino… Dipende. Fatto sta che abbiamo individuato una prima regola: dal galateo gattamortesco è bandita la procreazione.
Il gattomorto – gatto di razza – è o si finge castrato. E comunque di figli naturali non parla. Non ci pensa. Se lo facesse, offenderebbe e confonderebbe la gatta con la giovenca. Perciò il gattomorto ai figli naturali – la natura è machista – non accenna. E asseconda così il ceto medio femminile nell’assenza di fantasia. Nei tic residui anni Settanta. Dalla lotta al maternismo forzato (che con le pillole sembrava finito) alla parità che sotto sotto gli conviene. Provate a uscirci e vedrete. Di solito i gattimorti son quelli che a fine serata ti guardano dritto negli occhi – e qui sì, un brivido felino ti percorre la schiena. Guardano fisso e incutono quel fatidico terrore. Quella domanda che certo non è: “Vieni su da me?”, ma è: “Allora, dividiamo?”. Provateci, poi ne riparliamo. Perché il gattomorto è così: flemmatico, come un persiano, ma pure di caro prezzo. Noi lo testammo quando ancora non s’usava il lettore pos sotto i dieci euro. Al che il felino c’indusse a prelevarne cinque per dividere il conto (strano, incredibile, ma vero). Perché il gattomorto, si diceva, sta sempre dalla parte giusta: e cioè la sua. A ben vedere, il femminismo è miracoloso quasi più per lui che per noi. Più per lui che risparmia che per noi che – alla faccia della parità – gli risparmiamo il maschicidio per pietà.
Il bambolo
Erede del toy-boy, il bambolo è più toy che boy. Per intenderci: non è l’Ashton Kutcher del film Spread. Il mantenuto dalla quarantenne losangelina che, quatto quatto, porta a casa le ventenni taglia trentotto (e non solo perché col patriarcato è finito pure il dongiovannismo, ma pure perché in Italia le finanze sono scarne, i conti corrente e i risparmi son pochi, e la donna non mantiene un uomo facilmente). Non è l’american gigolò, ma neppure il dandy italico stile Paolo Canevari, l’artista che entra nelle gallerie di New York in forza del matrimonio giusto (e di gusto): quello con la più importante artista al mondo, Marina Abramovic. Niente dandismi. Il bambolo è più modello Harry Styles: tatuato, unghie laccate, pescetariano-karmico, tutina Swarovski (Grammy Awards 2023) e donne più adulte che poi si suicidano (Caroline Flack). Il bambolo è il maschio che s’è tolto la cravatta e s’è messo il jumpsuit: il pagliaccetto dei bambini piccoli. Ed è sì l’uomo sposato bene, che magari ha una carriera, ma è soprattutto quello che, sveglio al mattino, come un bambino non sa che fare. E così capita si pitti le unghie, s’imbratti le mani, indossi le gonnelle, posti video Instagram e TikTok. E non in quota queer o cos’altro, ma perché, banalmente, il bambolo s’annoia. Eppure, sempre come un bambino, sa attirare l’attenzione. In un mondo al femminile, il bambolo è più femmina della femmina. Sua caratteristica non è tanto il mantenimento in senso stretto quanto la soggezione morale alla donna.
Pupo fra i pupi, di questa soggezione egli ha fatto mestiere: unghie, gonnelle, reels… Altri indizi? Se volete un esempio nostrano, eccolo. È lui. Sempre lui. Quello che col tramonto del calciatore romano diventa ufficialmente il nuovo Pupone d’Italia: Federico Lucia in arte Fedez, che a differenza del furbissimo gattomorto non è né furbo né fesso ma tutte e due le cose insieme. Perché il bambolo è furbo e fesso insieme. In altre parole, non si sa se le sue unghie laccate siano queer o servano a conclamare l’infantilismo (e dunque la subordinazione alla femmina). Non si sa se le marachelle che combina alla moglie (battute e baci omoerotici) siano appunto inciampi o ruttini fatti apposta per chiederle scusa. Per farsi graziare e sopravvivere in forza del perdono. In ogni caso, se il patriarcato è morto – e il gattomorto è vivo – il bambolo è più di là che di qua. Ma nel frattempo ha capito bene come scampare e tirare a campare. Facendosi bambino per non sembrare macho. Ovvero facendosi furbo fesso e fluido all’occasione.
Il bullo (detto anche “il gallo”)
Il bullo, detto anche “il gallo”, è colui che la spara grossa. Il suo è un canto (stonato) del cigno. Il bullo è solito raccontare bollori, amori, sue ex cose di letto. Se il bambolo è tutto tutina e tatuaggini, corpicino spesso bigoressico (cioè pauroso dei muscoli) che fa dieta da salone da tè, il bullo è la sua versione adolescente-scemo: muscoli e tatuaggi da carcerato. O magari ha tatuato Maurizio Costanzo in testa, come ha fatto Fabrizio Corona: bullo, lui, per cui la figa è un mantra. Ed eccoci al punto. A furia di dire macho pussa via, eccoci all’effetto paradosso. Ovvero all’ex re dei paparazzi – omologo italiano di Kanye West – o a un qualsiasi trapper che canta di “pompini e taglierini”.
A furia di dire che il maschio è tossico, ecco che l’uomo diventa ridicolo. Col bullo siamo infatti dalle parti del “gallismo” di Vitaliano Brancati: dell’esibizionismo per reazione alla compressione. Il bullo è gallo perché si dimena e canta fra le rovine. Il patriarcato è morto? Viva il patriarcato. Così sembra dire questo cantore (stonato) della mona. Che reagisce all’eden perduto (la mona, appunto) con primitive involuzioni ed espressioni tribali. Cantando e raccontando i fatti propri. Forte di tatuaggi, bongo in mano e una sola parola: figa-figa-figa. Tipo mantra o invocazione: a che piova giù dal cielo.
Il fighisterico
Dalla figa al fighisterico. L’analista della porta accanto lo chiama “narcisista”. In realtà è molto peggio. Nel suo caso tocca fare i conti con quanto abbiamo perduto. Perché la fine del patriarcato ci ha sì risparmiato il bel ami (e cioè il seduttore gattomortista), ma s’è portato via il dongiovanni. S’è portato via l’amante senza pesi, senza pretese (il figlio sano del patriarcato, lui sì): quello che quasi sempre l’una vale una e che quindi un “no” non vale niente, non ha importanza. Quell’uomo che con tutti i suoi difetti ha comunque un impareggiabile pregio: se lo rifiuti non si offende perché, in fondo – com’è giusto, com’è sano – non gliene importa niente. Ed ecco. Il fighisterico è l’esatto opposto: per lui tutto ha un peso. Il fighisterico è serio, troppo serio. A tratti filosofo… Di scuola neoplatonica. Giacché l’una per lui non vale una. L’una vale tutte, vale tutto: l’una è l’Una, è il tutto. L’Una è Dio. E se l’Una gli dice di no?
Un anno fa veniva pubblicato uno studio di Richard Reeves, consigliere di stato britannico, che metteva in fila una serie di dati sulle separazioni amorose. Tre quarti dei suicidi statunitensi, scriveva Reeves, sono a opera di maschi. I quali maschi faticano assai più delle femmine dopo separazioni e divorzi. Il no li distrugge. Letteralmente. Più di quanto non distrugga le donne. Il fighisterico è dunque il maschio competitivo che, non sapendo perdere, è ipso facto perdente – o quantomeno ridicolo. Isterico, appunto, perché anche lui è femmina più della femmina. Alla quale dà troppo peso, troppa importanza. Senza la quale non sa stare. Fintanto che per lei, e cioè per la femmina, l’uno – e cioè il maschio – comincia a valere uno. Talvolta zero. È il fighisterico – e non il patriarca – quello che perde la testa e ammazza. Anche se adesso c’è un nuovo film Netflix, Fair Play, che spiega l’andazzo in controluce. Qui una coppia di colleghi newyorkesi è messa a dura prova dall’avanzamento di carriera della donna. L’uomo resta indietro, soffre come un cane, zoppo e insolente, che tra sfiga e risentimento le porta via la vita (in questo caso metaforicamente). Fino a che lei – per esasperazione – decide di portare i pantaloni. Lei fa il maschio e lo manda via. Ma prima lo picchia. Addirittura, l’accoltella.
L’incel (celibe involontario)
C’è chi lotta per la restaurazione patriarcale, chi non si rassegna. Ma c’è poi tutto un ciclo di vinti. L’acronimo incel sta per involuntary celibate, celibe involontario: son quelli che ammettono la sconfitta. Fenomeno d’importazione, è difficile trovargli un correlativo in società. L’incel non è al cinema né sul palcoscenico o alla tivù. Forse neppure sui social mainstream. Per un motivo finanche scontato: l’incel è brutto, sfigato, lo sa. Non si mostra facilmente e non ammette filtri che appianino brufoli. C’è da immaginare che nella vita non usi lenitivi per rossori o creme per punti neri. E’ brutto e ci vuole restare. Il suo è un mondo di subcultura digitale. Di bassifondi. Appiccicato allo schermo, il celibe involontario si trascina di chat in chat. Non con donne, bensì con altri celibi: gli incel volano a stormi. Spesso vergini, talvolta mai baciati da una fanciulla, credono sia giusto prendere atto della propria bruttezza. Poiché non una donna li amerà mai, tutte le donne sono nemiche. Essere o raccontarsi brutti, in fondo, li consola. O se non altro dà l’occasione per piantare la faticosa arte venatoria (e amatoria) e incolpare della sua sfiga la donna e la società (perciò il celibato sarebbe involontario).
La donna, sostiene l’incel, sceglie l’uomo non per amore ma per prestigio. In questa convinzione il celibe si crogiola, ispirandosi, pare, ai libri di Pavese, Schopenhauer e acciaccati vari – e fin qui. È solo che certe volte, racconta l’esperta Valeria Montebello, gli incel prendono la tangente e sparano in scuole o università della California, dell’Oregon, della Florida, per poi suicidarsi. Verrebbe voglia di fargli una carezza, all’incel. E di spiegargli che la società – e la donna – non sono cose ovvie, predeterminate, non malleabili. Che la donna, in particolare, se lo deve un po’ raccontare perché un uomo le piace. E che pure un diversamente bello può essere amato: basta che ci creda molto anche lui. Niente da fare. Per l’incel è sempre colpa di donne e società. Società che ammette il sesso solo se hai soldi e successo (le famose tre “s”: vecchi gloriosi adagi veri solo nei sogni, ormai, ché nella realtà è più facile pagare la cena a un gattomorto).
L’insicuro (detto anche “Calimero”)
Sarà che – come riportava l’ultimo numero di Repubblica Salute: L’insostenibile fragilità del maschio – negli ultimi quarant’anni la qualità del liquido seminale è diminuita e che i semini son calati (con più casi di sterilità in occidente). Sarà che, trascinato dalla donna al sinogiapponese, e dunque costretto a mangiare miso, tofu, edamame, spaghetti di soia e sushi intinto, il maschio s’è svigorito (il sito testosteronelibero.it indica la soia quale alimento potentemente estrogenico, in grado cioè di simulare il funzionamento degli ormoni femminili). E sarà infine che l’insicuro è figlio delle commedie romantiche anni Novanta. Quale che sia la sua origine, l’insicuro spopola. Nel senso che somiglia a molti dei nostri amici. Perlomeno a quelli che hanno optato per la zona grigia. Quelli che quando li incontri vorrebbero darti un bacio ma si sentono Calimero. Vorrebbero provarci – si vede – ma non ci riescono. E tu li devi rassicurare.
Fra i casi irrecuperabili – gli irrecuperabili hanno sempre un acronimo – ci sono gli sneet: né single né fidanzati né in caccia né in flirt. Amy Winehouse li cantava già vent’anni fa nel suo album d’esordio: “You should be stronger than me… Feel like a lady and you my lady boy”. Io sono una signora e tu, ragazzo, tu sei una signorina. Pensavate fossero i gattimorti o gli incel i peggiori? Sbagliato. Perché quelli, con tutti i loro stigmi e i loro tic, li sgami presto. L’insicuro invece orbita e si nasconde. La sua confusione confonde. Un dubbio lo tormenta: maschio o non maschio? Risposta: Maschio. Ma non riesco.
generazione ansiosa