un libro
Nulla sarà mai uguale alla Shoah
La civile Europa non rifiutò affatto il genocidio. Anzi. Spesso le popolazioni vi parteciparono attivamente
"Fra tutti i miei libri, questo è forse quello che mi è costato di più sul piano emotivo. (…) Non è una ricerca storica originale né una teorizzazione innovativa (…) Molto più modestamente, si tratta di una guida didattica". In verità non c’è nulla di modesto, in questa completa, circostanziata e ben documentata ricostruzione di Ugo Volli, "La Shoà e le sue radici" (Marcianum Press, 226 pp., 23 euro). Tutt’altro. Dal confronto con altri genocidi riconosciuti, come quello armeno, emergono subito numerose differenze specifiche: la Shoah è stata un genocidio del tutto fine a se stesso, volto a eliminare qualsiasi individuo anche solo di lontana origine ebraica, comprese le donne e i bambini, per estirpare la “razza ebraica”, cioè una presunta caratteristica biologica; ancora, la Shoah non ha riguardato un popolo straniero, ma concittadini integrati da secoli nelle società europee; infine ha avuto, al suo culmine, una modalità “industriale”.
Nel 1937 Hitler è ancora prudente: “Non voglio costringere subito un nemico a combattere, ma dico: ‘Voglio distruggervi!’ Con la mia astuzia vi sto stringendo in un angolo in modo tale che non riusciate a sparare un solo colpo; ed è allora che arriverà la coltellata al cuore”. A quell’epoca, spiega Volli, l’obiettivo immediato del regime nazista non era ancora lo sterminio totale, bensì l’espulsione dal Reich del maggior numero possibile di ebrei. Per quanto colpiti da una serie di divieti insopportabili, e nonostante tutte le pressioni, una parte consistente non volle o non riuscì a fuggire. La conferenza di Evian e il blocco dell’immigrazione in Palestina da parte dell’Impero britannico, chiusero agli ebrei europei ogni possibile via di fuga.
Nel corso della conferenza di Wansee, che implementa i campi di sterminio con l’utilizzo del gas, è l’andamento stesso della riunione a dimostrare che il genocidio non fu affatto la “follia” di un capo isolato, bensì un progetto collettivo, “frutto di un lavoro coordinato, volonteroso, persino entusiasta da parte di persone perfettamente coscienti di cosa stesse accadendo”. Volli nega pertanto la fondatezza delle tesi di Hannah Arendt: sia la lettura della “banalità” dei gerarchi nazisti, che si sarebbero allineati alle disposizioni di Hitler “senza pensare”, sia l’accusa di collaborazionismo mossa ai Consigli ebraici.
Nella civilissima Europa, la Shoah ha incontrato ben poca opposizione, osserva l’autore. Le popolazioni europee non rifiutarono affatto collaborazione con il genocidio, anzi spesso vi parteciparono attivamente. Molte persone agirono per interesse, ideologia, ma soprattutto per odio, rancore, invidia. Tutto questo, per un substrato di pregiudizi ben consolidati, che precedono di quindici o venti secoli l’uso di termini moderni quali “razzismo” o “antisemitismo”.
Per contro, la resistenza ebraica al nazismo, l’insurrezione disperata dei ghetti, e “in particolare le rivolte nei campi della morte di Treblinka, Sobibor, Auschwitz-Birkenau (…) ben dopo la fine della guerra determinarono un cambiamento significativo della percezione che la società europea aveva degli ebrei e insieme, che gli ebrei avevano di se stessi”. La nascita di Israele, pertanto, non rappresenta affatto una compensazione della Shoà. “I carnefici sono riusciti a uccidere molti milioni di ebrei (…) ma non a eliminare il popolo ebraico, che anzi ha reagito alla minaccia mortale proveniente dall’Europa invertendo il percorso della diaspora e riedificando un proprio stato nazionale dopo millenovecento anni di esilio”. Questo “percorso didattico” dovrebbe essere adottato in tutte le università italiane, ma purtroppo non accadrà.
Politicamente corretto e panettone