Riflessioni
Il grande atout della cultura umanistica per tecnici, politici e policy maker
Enrico Giovannini, nel suo recente "I ministri tecnici non esistono" (Laterza), pone qualche questione legata alla macchina politica a cui fa eco Sabino Cassese, attraverso un libro intervista con Alessandra Sardoni
Sabino Cassese non ama il termine “tecnici”, lui preferirebbe definirli “persone che provengono da un mondo diverso da quello delle forze politiche”. La questione centrale però l’ha posta Enrico Giovannini in un suo recente libro intitolato I ministri tecnici non esistono (Laterza). “Li chiamiamo tecnici ma se governi sei un politico”, gli fa eco Cassese nelle pagine del suo libro intervista con Alessandra Sardoni, anch’esso pubblicato da Laterza (Le strutture del potere, ne ha già scritto su queste pagine Maurizio Crippa). “Anche se fai il direttore generale del Tesoro, fai politica – aggiunge provocatoriamente – nel senso che prendi decisioni che riguardano milioni di persone”.
Cassese è in disaccordo con chi sostiene che i tecnici rappresentino un’alternativa ai politici: un’idea, questa, che definisce “gravissima”. Anzi, il rimprovero maggiore che rivolge a Mario Draghi e al suo entourage è proprio quello di essere stati troppo “impolitici”, di aver coltivato poco i rapporti con le forze parlamentari. Tuttavia, chi si trova a collaborare con la politica non essendo egli stesso un politico di professione deve tenere conto dell’opinione dei politici, avere la sensibilità di comprendere chi sono i suoi interlocutori, quali le loro inclinazioni e aspirazioni, cogliere in altre parole il contesto politico nel quale si va a inserire la sua azione. A chi lo accusa di collaborazionismo con il governo Meloni, Cassese risponde che “i governi si aiutano nell’interesse del Paese. Si lavora anche per il diavolo perché, in ultima istanza, si lavora per lo Stato, non per questa o quella forza politica”. Soprattutto, sostiene Cassese, solo in questo modo, solo tenendo conto del proprio interlocutore e delle sue istanze, il tecnico può trasformarsi in un bravo policy maker, in qualcuno cioè che abbia la capacità di influenzare il potere, obiettivo cui Cassese crede e tiene sopra ogni altro. Nel corso della sua lunga carriera, questo potere di influenza lo ha esercitato a lungo e in profondità. Tramite i giornali, con cui ha sempre collaborato. Tramite l’insegnamento universitario (nel libro si definisce un “formatore di formatori”) mettendo energie intellettuali e passione umana al servizio della formazione e delle carriere di decine e decine di allievi, anche a costo di attirare l’invidia di chi polemizza sul fatto che la grande maggioranza dei capi di gabinetto, consiglieri di stato, capi uffici legislativi dei ministeri lo riconosca come maestro. Lo ha fatto infine nel suo ruolo di consigliere del principe come si definisce lui stesso e di policy maker, per l’appunto. C’è da chiedersi se oggi, con il declino apparentemente inesorabile della carta stampata, la chiusura autoreferenziale dell’università italiana e la trasformazione dei consiglieri del principe in consulenti d’immagine, l’esercizio di questo potere di influenza non sia diventato molto più difficile di prima. Ragione non sufficiente per abbandonare la partita, risponde Cassese.
C’è un punto però che emerge molto chiaramente dalla lettura di questo libro-intervista. Questa difficile impresa diventerebbe impossibile se si rompesse definitivamente quel legame tra politica, competenza tecnica e cultura umanistica di cui Cassese e la sua generazione sono la migliore espressione. Ci riferiamo a quelli che negli anni Sessanta del Novecento Altiero Spinelli definiva intellettuali politici, uomini di cultura che non hanno paura di collaborare con il potere per portare avanti i propri valori e, non condividendo con i politici l’ossessione del potere, cioè il consenso elettorale, si potevano e si possono concedere il lusso di dedicarsi appunto alla realizzazione delle proprie idee.
Il percorso biografico di Cassese è fondato su questa prossimità, verrebbe da dire intimità, con la cultura umanistica e le pagine più autobiografiche del libro-intervista lo riflettono bene. C’è naturalmente la scuola dell’Eni di Enrico Mattei (e Giorgio Ruffolo), ma anche l’assidua frequentazione di giovani storici, filosofi, filologi negli anni della sua formazione presso la Scuola Normale di Pisa (“ho imparato più dai miei colleghi che dai miei professori”), la partecipazione appassionata all’“Accademia” fondata dal linguista Tullio De Mauro, come fu scherzosamente definita, un gruppo di giovani intellettuali riunitosi a scadenza quindicinale tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio anni Sessanta, animata da vivaci discussioni sui temi più disparati della cultura sociologica, storica, linguistica, giuridica italiana e internazionale novecentesca: una piccola société savante, così come l’altra, menzionata da Cassese, chiamata “Stato moderno” e promossa dal giurista Paolo Ungari. Sono solo piccoli episodi della sua formazione che danno però l’imprinting a un percorso di vita in cui la cultura umanistica è rimasta sempre protagonista, così come lo è stata per tutta una generazione che emerge da queste pagine, da Ruffolo a Giuliano Amato, da Antonio Giolitti a Antonio Maccanico, da Stefano Rodotà a Luigi Spaventa, una generazione che non fatica a riconoscersi in una delle ultime testimonianze di Carlo Azeglio Ciampi il quale tre mesi prima di morire scrisse una lettera al direttore della Scuola Normale di Pisa rivendicando con orgoglio la sua formazione storico-filologica, sottolineando di aver sempre utilizzato nel corso della sua vita professionale “un metodo nella sostanza non diverso da quello applicato a un frammento nei memorabili seminari di Giorgio Pasquali”.
Ecco, senza la profondità di sguardo e di analisi che viene dalla prossimità con la cultura umanistica non può esserci capacità di influenzare il potere politico ma non può neppure esistere una classe dirigente all’altezza delle sfide che ci aspettano.