senza futuro
Il patrimonio di anni-vita del nostro paese si va erodendo. Serve una reazione
In Italia stiamo consumando la vera ricchezza di un popolo: il suo futuro. L’inverno demografico avanza inesorabilmente e se non lo affrontiamo adeguatamente rischiamo di trovarci irrimediabilmente congelati
Anche questa volta il messaggio dei dati arriva puntuale e impietoso alla vigilia di Natale. Scorrendo le righe del resoconto Istat del 18 dicembre bastano pochi numeri per mettere in luce i sintomi di un inverno demografico che, anno dopo anno, va progressivamente avanzando in questa nostra Italia. Dal 2014 abbiamo perso 1,3 milioni di abitanti: vale a dire poco più di quanti vivono in un’intera regione come l’Abruzzo, il Friuli-Venezia Giulia, o il Trentino Alto Adige. Nel 2022, in sintonia con quanto regolarmente osservato negli otto anni precedenti, il bilancio demografico del totale dei residenti si è chiuso – per la nona volta – in rosso (33 mila in meno). Un rosso alimentato da una differenza negativa tra nati e morti – ormai è una costante dal lontano 1993 – che è arrivata a superare, per il terzo anno consecutivo, le 300 mila unità (meno 322 mila). Questo perché il continuo assottigliarsi del flusso annuo di nuovi nati – sviluppatosi dal 2008 con una intensità che ci ha portato ad avere in un quindicennio il 32 per cento di nascite in meno – non è stato in grado di contrastare un numero di decessi tendenzialmente in crescita e che, anche prescindendo dagli effetti di esperienze drammatiche come quella del Covid, siamo comunque destinati a vivere e a mettere in conto per gli anni a venire.
D’altra parte, il terzo sintomo di questo inverno che avanza consiste nel cambiamento, in atto e ulteriormente prevedibile, della struttura per età della popolazione, dando vita a quel fenomeno dell’invecchiamento demografico che va espandendosi sul continente europeo (e non solo) e che vede l’Italia come uno dei principali protagonisti nel panorama mondiale. Non a caso, il ridimensionamento numerico della nostra popolazione, avviato dal 2014, ha portato con sé un aumento della corrispondente età media, da 44 a 46,4 anni, e un parallelo aumento della percentuale di ultrasessantacinquenni dal 21,5 per cento al 24 per cento. Nel freddo dell’inverno si accresce dunque il peso della componente con più esperienza di vita, mentre si riduce quello delle nuove generazioni, coloro che avrebbero un pieno di vitalità calato in un’ampia prospettiva di futuro.
Ma quanto futuro ha verosimilmente davanti a sé l’immagine di popolazione che i dati del Censimento 2022 consegnano alla nostra riflessione? E in che misura si può pensare che essa sia in condizione di conservare, o auspicabilmente di accrescere, il suo “patrimonio demografico” di futuro? La risposta va ancora una volta ricercata nel messaggio trasmesso dai numeri. Tenuto conto degli attuali livelli di sopravvivenza (anni di vita mediamente attesi a ciascuna età) e della composizione per sesso ed età dei circa 59 milioni di residenti censiti a fine 2022 il complesso della popolazione si può calcolare abbia davanti a sé un “patrimonio demografico”, misurato in anni da spendere in futuro, pari a 2 miliardi e 268 milioni (di anni-vita); vale a dire: 38,4 pro capite. Ma se torniamo indietro di dieci anni scopriamo che il patrimonio di futuro, misurato con i dati del 2013 (alle pur meno favorevoli aspettative di vita di allora), era di 2 miliardi e 441 milioni di anni-vita e il valore pro capite era di circa due anni superiore all’attuale (40,5 anni).
Stiamo dunque un po’ alla volta erodendo quella che è la vera ricchezza di un popolo: il suo futuro. E lo stiamo facendo, anno dopo anno, accettando che possa rallentare quello che è il contributo più naturale alla costruzione del futuro di una popolazione: il flusso di anni-vita che la venuta al mondo di ogni bambino porta con sé (alle condizioni attuali 81 anni se maschio e 85 se femmina). Proviamo a reagire. Ad esempio, quando le aride statistiche ci documentano 184 mila nati in meno tra il 2008 e il 2022 proviamo a leggere quel dato in termini di perdita dei (corrispondenti) 15 milioni di anni-vita che sarebbero stati immessi annualmente nel patrimonio di futuro del nostro paese, della sua economia, del suo welfare, della vita culturale e di relazioni. Questo forse ci aiuterebbe ad accettare di buon grado le azioni e gli inevitabili costi necessari per arginare il gelo dell’inverno demografico attraverso un piano di interventi tempestivi ed efficaci nel contrasto alla denatalità. Quanto ce ne sia bisogno è ormai sempre più cosa nota. Gli ultimi dati mensili sui nati – che Istat ha aggiornato e diffuso contestualmente alla presentazione delle risultanze censuarie – parlano di 313 mila nascite fra gennaio e ottobre del 2023, a fronte di 325 mila nello stesso periodo dello scorso anno (per altro anno dell’ennesimo record di minimo). L’inverno avanza inesorabilmente, se non lo affrontiamo in fretta con un’adeguata pelliccia (ovviamente sintetica) rischiamo di trovarci irrimediabilmente congelati.
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