IL POTERE UMANO FRA SCIENZA ED ETICA
Non ci resta che accettare la provvidenziale indeterminabilità del futuro
Come la conoscenza, intesa come concetto, è cambiata e mutata nel corso nel tempo: dalla concezione di "bene in sé" in epoca antica, fino al suo sfruttamento in epoca moderna e capitalistica. Qualche considerazione su come dovrebbe essere sfruttata oggi
Stiamo per entrare in un’èra in cui il potere umano crescerà a tal punto da far apparire il potere che abbiamo oggi simile a quello dei nostri antenati ominidi. Ma questa è una sfida, non una catastrofe; una sfida che cambia di continuo la sua fisionomia, mostrando implicazioni etico-politiche inaudite in altri tempi, che però non sconfineranno necessariamente nella distopia. Nel mondo classico, ad esempio, la conoscenza era un bene in sé. Ma trattandosi di una conoscenza prevalentemente teorica (filosofica, matematica, geometrica, astronomica), non suscitava le preoccupazioni etiche che suscita l’odierno apparato scientifico tecnologico. L’ambito della techne coincideva allora con l’ambito di un sapere strumentale, peraltro assai poco sviluppato, che serviva semplicemente a soddisfare meglio certi fini, diciamo pure a vivere meglio e più sicuri. Per un greco non aveva senso domandare se era eticamente giusta la costruzione dell’aratro, di una nave o di una spada. Egli non aveva insomma le preoccupazioni etiche che abbiamo oggi circa l’uso dei nostri “strumenti”. Lo stesso si sarebbe potuto dire della “scientia propter potentiam” di Francesco Bacone o dell’esaltazione cartesiana di una sapere capace di renderci “maestri e possessori della natura”. In tutti questi casi esisteva una sorta di ragionevole fiducia che più conoscenza, più tecnologia e quindi più potere sulla natura avrebbero significato migliori condizione di vita per gli uomini sulla terra.
Lo sviluppo dell’industrializzazione e la prima guerra mondiale incrineranno questa fiducia. All’inizio degli anni Trenta del secolo scorso, gli autori della famosa Scuola di Francoforte enfatizzeranno a tal punto la stretta connessione tra apparato scientifico tecnologico e società capitalistica da auspicare addirittura una scienza e una tecnica nuove. La tecnica sfrutta la natura allo stesso modo in cui l’industria e la società capitalistica sfruttano l’uomo: questa la loro convinzione. Altro che fiducia nel potere emancipante della scienza e della tecnica. Sarà comunque la bomba atomica a mettere radicalmente in crisi questa fiducia. Chi ha visto “Oppenheimer”, il grande film di Christopher Nolan, sa di che cosa sto parlando. Per la prima volta diventa evidentissimo che la fattibilità tecnica di qualcosa, di per sé, non è più una condizione necessaria e sufficiente affinché una cosa venga realizzata. L’etica fa irruzione prepotentemente nella scienza. Poi arrivano i grandi progressi della medicina, le cosiddette tecnologie della vita, nasce la Bioetica e infine, è storia dei nostri giorni, arrivano le tecnologie digitali, i big data, le intelligenze artificiali e la biologia sintetica.
Su questi temi, come sappiamo, gli apocalittici si scatenano. Personalmente non appartengo a questa categoria. Continuo a pensare, forse ingenuamente, che la scienza e la tecnica siano grandiosi strumenti di conoscenza e di emancipazione umana da molteplici forme di schiavitù fisica e sociale. È certo però che più la scienza diventa potente più dovremmo sentire il peso della responsabilità che abbiamo nei suoi confronti e nei confronti dei nostri simili. Non tutto ciò che si può fare tecnicamente è giusto che venga fatto. Diventa sempre più impellente il problema del “contenimento”, onde evitare che strumenti sempre più sofisticati diventino fini in se stessi, ossia qualcosa che si sviluppa per una sorta di dinamica interna come se la libertà e la responsabilità degli uomini non esistessero più. Come ha scritto Mustafa Suleyman in un libro molto bello uscito pochi mesi fa negli Stati Uniti (“The Coming Wave. Technology, Power, and the 21st Century’s Greatest Dilemma”), “per gran parte della storia, la sfida della tecnologia è stata quella di creare e liberare il proprio potere. Ora la situazione è cambiata: la sfida della tecnologia oggi consiste nel contenere il suo potere liberato, garantendo che continui a servire noi e il nostro pianeta. Questa sfida sta per intensificarsi in maniera decisiva”.
Questo è il punto: dobbiamo vigilare con la nostra intelligenza affinché anche gli algoritmi e big data continuino “a servire noi e il nostro pianeta”, diciamo pure a essere strumenti nelle nostre mani, nonostante che la tecnologia di oggi sia tale che, in quanto “intelligenza artificiale” e “biologia sintetica”, tocca e forse intacca due ambiti che, stando almeno al pensiero classico, rappresentano addirittura la differenza specifica dell’umano: l’intelligenza e la vita. Non si tratta dunque di stare semplicemente a guardare ciò che sta succedendo in questi campi. Se contenimento deve esserci rispetto a certe frontiere verso le quali tende il nostro apparato scientifico tecnologico, questo non può essere demandato alle grandi multinazionali che ci investono miliardi, né agli scienziati, agli eticisti (l’algoretica di cui ha parlato per primo Paolo Benanti) o al potere politico singolarmente presi, ma può scaturire soltanto dalla collaborazione di tutti costoro, inclusa la cosiddetta opinione pubblica, cioè noi. La paura o il cieco entusiasmo sono cattivi consiglieri al pari della pretesa di determinare in anticipo il percorso da seguire. Bisogna accettare l’incertezza del futuro e la sua provvidenziale indeterminabilità, tenendo fermo un principio tanto semplice quanto fondamentale: la tecnologia è soltanto un mezzo per raggiungere un fine, non il fine stesso. Il resto affidiamolo alla umana creatività.