Sposarsi è queer?
Sarebbe bello convolare a nozze nel 2024. Ma il dubbio libertario universale predica la dissoluzione del centro e invita al gioco dei sentimenti. Chissà
Sposarsi nel 2024 sarebbe teoricamente un buon proposito, ma è di quelli che non vengono sistematicamente soddisfatti, in vent’anni le nozze sono diminuite di numero in modo impressionante, mentre aumentano i divorzi, le convivenze, le vite solitarie. Uno può dire chi se ne importa, tanto cambierà il trend prima o poi, e se non cambia, bè, allora vuol dire che si troveranno altri modi per la determinazione di che cosa sia la famiglia, l’unione, la promessa e sacramenti vari, religiosi e laici. Il segno dell’epoca è la fluidità, il dubbio libertario universale fino alla messa in discussione del genere di appartenenza biologica, il matrimonio tra uguali come sfida e provocazione idilliaca, amorosa, tenera, contro l’unione tradizionale, che appare sempre più una bieca sottomissione al conformismo.
Nella microfisica del potere foucaultiano sposarsi è chiaramente un atto di tradizionalismo, una specie di manifesto ideologico della subordinazione, appiattimento su quel che è stato tendenza della maggioranza ed è percepito come compressione dei diritti della minoranza o delle minoranze. C’è del verosimile in questa diagnosi o prognosi, a patto che si riconosca il nocciolo dentro il guscio, il significato vero di una perdita del centro, della stabilità, dell’ansia emotiva o carismatica o santificante di riprodurre non solo bambini ma educazione, convivenza organizzata, coesione, distribuzione dei ruoli, delle responsabilità e dell’autorità condivisa, anche in un moderno diritto di famiglia.
La società può fare a meno del matrimonio, è un’ipotesi in via di sperimentazione, non parliamo del matrimonio cristiano, e il matrimonio non può fare a meno della legittimazione sociale che ormai manca quasi del tutto, rileva dell’abitudine, non della sorpresa e della festa, se non per i suoi aspetti più esteriori e focloristici. Però se balla il sesso della nascita, se balla il cognome, se ballano l’unione e la differenza, qualcosa vorrà dire oltre lo spirito di rivolta anticonformista e la crescente irrilevanza dello spirito religioso.
Il romanzo vittoriano, che si porta almeno a Natale e durante le feste cosiddette consacrate, ha insegnato le sfumature di gioia e di dolore, di orgoglio e di vergogna, di umanità e anche di eroismo che sono nascoste nell’amore codificato davanti al sindaco o al prete. Possibile che vada tutto perduto. Ma senza sostituzione? Un tentativo che è andato per la maggiore nell’anno trascorso è la famiglia queer. Il gioco dei sentimenti distribuiti comunitariamente, alternati in modo occasionale per differenze amicali, segnati da un’idea di amore che ha un fondo adorabilmente narcisistico e prescinde dall’utilità sociale, dalla compattezza per così dire politica dell’istituzione matrimoniale. Non sarebbe un male in sé, tantomeno un male morale, e pazienza per la curva demografica, pazienza per una sorta di infertilità psicologica compensata da una quantità di calore forse irriproducibile oggi nel matrimonio come lo abbiamo conosciuto.
Mancano però il senso della legge, la fissità che si presume definitiva, almeno all’atto del consumo nel tempo di umanità comune, prevale una specie di giocosa e compassionevole anarchia i cui effetti sociali sono indescrivibilmente penetranti, importanti. Curioso è poi che la dissoluzione dei vincoli finora tenuti per sicuri parta dalla messa in comune dell’individualità esistenziale, dalla proiezione delle interiorità e dei bisogni di specie verso il futuro incarnato dal frutto presunto del matrimonio tradizionale. Perché non si parte dalla proprietà, dai titoli di possesso della terra, della casa, della finanza. Lì il mondo moderno e postmoderno si rivela meno fluido di quanto ci si potrebbe aspettare. Chissà perché.
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