La persistenza della memoria di Salvador Dalì - foto Flikr

Visioni

La frattura tra reale e razionale non è così tragica

Sergio Belardinelli

Il presupposto di una concezione aperta del mondo e della vita spinge a vivere con leggerezza ciò che ci circonda, abbracciandone le diverse complessità. La perfezione utopica, alla fine, non esiste

L’idea di una realtà irriducibile alla ragione, la frattura tra reale e razionale sono i principali presupposti di una concezione tragica, secondo la quale la realtà non si lascia ricondurre in toto ai nostri desideri o alla nostra volontà di tenerla sotto controllo. Ciò che conta di più nella nostra vita raramente dipende da noi. Veniamo al mondo in un contesto e da genitori che nessuno può dire di essersi scelto; lo stesso vale per la nostra salute: fa una grande differenza nascere sani o nascere con qualche disabilità fisica o mentale; la perdita di un genitore in tenera età può essere un trauma destinato a segnare per sempre la vita di un individuo; per non dire delle guerre, delle vittime innocenti, specialmente quando si tratta di bambini, delle ingiustizie più insopportabili e via discorrendo. Tutti elementi, questi, che ben lungi dall’indurre a pensare che il reale sia razionale, segnano invece in modo indelebile la sua tragicità e, per alcuni, la sua assoluta assurdità. Ma fortunatamente c’è anche dell’altro

La frattura tra reale e razionale è anche il presupposto di una concezione non ideologica, aperta, disincantata, realistica e persino leggera del mondo e della vita. Che è come dire: a differenza delle celebrazioni idealistiche o marxiste della storia, il massimo che possiamo fare, e non è poco, è mitigare il più possibile ciò che appare irrazionale e assurdo, consapevoli che tale irrazionalità costituisce il limite per molti versi invalicabile della condizione umana nonché una sorta di condizione dell’umana libertà. La storia non è affatto storia del compimento della ragione o delle forze produttive, né un processo del quale gli uomini hanno il pieno controllo; quanto allo storicismo, esso è soltanto una forma mascherata di opportunismo, un modo di assecondare gli interessi dominanti. Bisogna accettare dunque la via crucis dell’esistenza, vero banco di prova di ogni filosofia e luogo nel quale il rifiuto della presunta razionalità della storia può diventare un segno di nobiltà spirituale.

Paradossalmente la realtà va anzitutto accettata per quello che è. Soltanto questa accettazione preliminare può consentire che se ne combattano le storture senza rassegnarsi all’idea che le cose debbano restare per sempre come sono, ma senza nemmeno assecondare fanatismi di sorta. Questo è realismo. Per usare le parole di un grande filosofo politico del secolo scorso, Michael Oakeshott, ciò di cui abbiamo bisogno è una sorta di realismo della “mescolanza”, che proprio per questo ci consenta di tenere insieme sia la consapevolezza della frattura tra reale e razionale sia la volontà di cambiare la realtà, sia la fiducia nell’umana ragione, nonostante i suoi limiti, sia una sottile vena di scetticismo. In una parola, dobbiamo tenere ben fermi i piedi nel mondo in cui siamo, convivere con la pluralità e le molte voci che in esso si levano piuttosto che pretendere, magari in nome della ragione, di imporre una voce sola. Meglio prendere le cose con leggerezza che affannarsi a voler cambiare ciò che non dipende da noi. Immaginare un nuovo ordine sociale costruito a tavolino grazie al potere di chicchessia, trasformare il razionalismo in uno strumento al servizio di questo o quell’ideale estremo sono tutti segnali sacralizzanti di un tempo, la nostra modernità, che, per giunta dopo averlo ucciso, cerca ancora disgraziatamente di realizzare su questa terra la perfezione di Dio.

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