Nell'era woke
La resistenza dei femminielli che non vogliono finire nel calderone Lgbtq+
La tradizionale juta in onore della Madonna nera di cui sono figli diletti è diventata un pride di mezz’inverno. Ma c’è chi non ci sta
Ogni anno a Candelora i femminielli fanno la loro juta al Santuario di Mamma Schiavona o Montevergine sul Monte Partenio (Avellino) dopo una settimana preparatoria di preghiere e tammurriate in onore di quella Madonna Nera che li ha sempre guardati come figli bisognosi e diletti. Nel tempo la juta è diventata sempre più politica, un pride di mezz’inverno. Ma ci sono femminielli che non prendono bene l’inclusione lgbtq+ e tengono duro in associazioni di resistenza tipo Afan (Associazione femminelle antiche napoletane).
La Tarantina è la femminella più anziana: “La parola femmenella è così dolce che non fa né scalpore né disgusto alla gente, invece oggi tutte chesti parole gay, arcigay, transessuale mi pare che danno più fastidio che piacere. Invece la dolcezza, quando dici ‘uè femmenè’ (…) com’è bello! Ti senti avvolto di questo calore umano e non di distacco”. Il genderism ha cambiato drasticamente questo statuto simbolico e sociale. Il più dei femminielli oggi rivendica diritti, sostiene il transattivismo, ricorre a pratiche tecno-mediche, si identifica come donna o non-binary, mentre il femminiello della tradizione non nega la binarietà sessuale, piuttosto la rafforza. Anche se si veste e si comporta come una donna non si identifica come donna, collocandosi in una sessualità terza.
Figure simili – sia pure con notevoli differenze – si trovano nel mondo Inuit, i sipinq, in India – le hijra e le sadhin –, nei Balcani – le virgjinéshe.
Si è femminielli per nascita. Se sei femminiello stai con le donne, vivi con loro e come loro, in un’alleanza tra donne e “non-uomini”. La madre è tutto, e il femminiello resta nei suoi pressi chiedendo di essere ammesso nella cerchia e nella genealogia femminile. La tradizione dei femminielli rappresenta il tentativo di dare ordine alla rottura degli stereotipi di genere senza violare l’integrità dei corpi. Proprio per questa sua prerogativa di “terzietà” il femminiello è sempre stato tenuto come creatura sacra, preposta all’amministrazione di molti riti: quando nasce un bambino glielo si mette in braccio per buon augurio – il femminiello è la controparte dello jettatore –, ci si affida a lui come “celebrante” in divertimenti di gruppo che conservano caratteristiche rituali come la Tombolata del Femminiello da cui gli uomini sono esclusi perché i loro pantaloni “portano jella”. Statuine di femminielli venivano spesso inserite nel presepe. Nella tradizionale “Cantata dei Pastori”, celebrazione prenatalizia napoletana, non di rado il ruolo della Madonna è stato affidato a un uomo.
La “Figliata del femminiello” è probabilmente il rito dal carico simbolico più forte: la creatura terza “partorisce” una bambola nel letto circondato dai/dalle suoi simili. Così la racconta Curzio Malaparte in La Pelle: “Era un uomo, senza dubbio, un giovane di non più di vent’anni. Si lamentava cantando a bocca aperta, e dondolava la testa qua e là sul guanciale, agitava fuor dei lenzuoli le braccia muscolose strette nelle maniche di una camicia femminile da notte, come se non potesse più sostenere il morso di qualche sua crudele doglia, e ogni tanto si toccava con ambe le mani, cantando: ‘ohi! ohhi miserami!’”. Anche Ferzan Özpetek ha rappresentato una Figliata in “Napoli velata”. Il rito rende onore alla preziosità del femminile fecondo. Come spiega l’antropologa Corinne Fortier (in Genere: femminielli. Esplorazioni antropologiche e psicologiche a cura di Eugenio Zito e Paolo Valerio) i femminielli “affermano che non potranno mai essere all’altezza di una donna, dal momento che manca loro la capacità riproduttiva (…) la femminilità è legata al fatto di procreare e fare bambini”.
Il femminiello discende in linea diretta dai Coribanti, eunuchi consacrati a Cibele, la Grande Madre. Maschi che in unione estatica con la Dea vestivano abiti femminili e arrivavano ad autoevirarsi nel Dies Sanguinis: il santuario di Mamma Schiavona, meta della juta, sorgerebbe proprio sulle rovine di un tempio di Cibele. La tradizione dei femminielli si iscrive dunque nel culto della madre, è un omaggio a lei, si colloca pienamente nel suo ordine simbolico. Come scrive Simonetta Grilli -introduzione a Maria Carolina Vesce “Altri transiti, Corpi, pratiche, rappresentazioni di femminielli e transessuali” – i femminielli “non vogliono cambiare sesso, ma vivere la loro vita da donne, sapendo di poter impersonare il genere femminile”. Si tratta a tutti gli effetti di una performance di genere sia interiore – condivisione dei sentimenti femminili, della propensione alle relazioni e alla cura –che esteriore: abiti, movenze, comportamenti. Ma in genere i femminielli parlano di se stessi al maschile.
Scena della performance è la casa, il vicolo, la vita domestica. Il femminiello, scrive Maria Carolina Vesce “si dedica alle attività femminili, quindi il cucire, per esempio, andare a fare la spesa, i servizi di casa, fare i capelli”. E’ un’“apprendista donna” per la quale il prendersi cura degli altri è l’attività decisiva. Nelle case dei femminielli non manca mai il ritratto della Madonna: i femminielli sono pazzi per la Madonna, sono ‘figliə a essa’”. La performance non può fare a meno del tessuto fitto delle relazioni: non può esistere un “individuo” femminiello slegato dalle reti familiari o di vicinato, dalla trama dei sentimenti e degli affetti. Ancora Vesce: “Le relazioni di parentela, in questo senso, sono certamente quelle che meglio esprimono l’importanza di questa posizionalità relazionale (…) è essere trattata come figlia, cognata, moglie, sorella a fare la differenza (…) è nella dimensione della relazione che ci si definisce”. Racconta il femminiello Gina riguardo all’atteggiamento delle famiglie nei confronti delle femminelle: “Accettavano perché rice vabbuò, chist’ tene ’e sentiment ’e femmena, ma così mi può fare anche da badante…”. Però “oggi sono proprio le mamme ’e ja, fatt’ ll’ormoni’, le portano dai medici, le portano a fa’ i test psicologici, ’e portan’ a fa’ o cambio sesso…”.
Da sempre estranei al terreno della rivendicazione dei diritti e all’idea del cambio di sesso, i femminielli si vanno via via “normalizzando”. La mutazione prende avvio nel secondo dopoguerra: la città sta cambiando, si allentano i legami del vicolo di cui il femminiello è rappresentante-garante. Il divino coribante conosce per la prima volta l’isolamento e la solitudine, diventa il travestito dedito alla prostituzione e recluso nel suo monolocale, condizione rappresentata da testi teatrali come “Le cinque rose di Jennifer” (1981) di Annibale Ruccello, una “Voix Humaine” en travesti, e “Scannasurece” (1982) di Enzo Moscato. L’iscrizione a pieno titolo nel mondo lgbtq+ di derivazione anglosassone è il passaggio successivo. Sradicati dal loro tessuto, i femminielli perdono ogni tratto di androginia divina.
Intervistato da Vesce, Ciro “Ciretta” Cascina prende brutalmente le distanze dalla militanza lgbtq+: speculare alla femminella, dice, “è la figura della ricchiona (traducibile in queer, ndr) perché sono della stessa specie, della stessa matrice, con posizioni completamente diverse. Perché la mezza-femmina è di cultura orale, l’altra è accademica, ha occupato sempre le posizioni di potere, si è camuffata (…) Una posizione più vicina alla polis, al palazzo, mentre la femminella te la puoi immaginare più vicina al mare, più vicina ai vicoli”. Più vicina al mondo delle donne, tenuto in così grande considerazione, mentre l’altra, la “ricchiona” emancipata, si allontana dalla madre. “Diventando” donne, nominandosi come donne, paradossalmente i tecno-femminielli recidono il loro legame con quel mondo femminile che non è più luogo del loro nutrimento, entrano a fare parte del neutro maschile e si fissano sull’identità rinunciando alla loro sacralità e alla loro radicalità. Mentre al contrario proprio a partire da quelle radici, da quel sentiment ’e femmena, si potrebbero configurare risposte più umane al diffuso bisogno di significare la propria differenza. Osserva l’antropologo Eugenio Zito: “Il femminiello, pur tra mille difficoltà esistenziali, conservando la sua particolarissima fluidità di genere (…) potrebbe rappresentare ancora oggi un modo per risolvere i problemi di ‘confine’ attraverso un riassetto dell’identità personale che si sposta continuamente, sintesi unica di arcaicità e sorprendente post-modernità”.
Un modello di fluidità alternativo alla tassonomia anglosassone che “come l’intera metafisica occidentale può considerarsi come prodotta da una fissazione sull’identità, che ha fatto perdere (…) il senso stesso dell’essere”.