Magazine
L'incanto perduto di Taormina
La perla dello Ionio rischia l’invasione dei brand come Portofino. I limiti della chiusura invernale e il turismo di massa
Salvo nuove proteste dei professori d’orchestra sulla sua competenza e l’esiguità del suo curriculum, per ora troncate e sopite, forse si dovrebbe consigliare al maestro Beatrice Venezi di stringere i tempi sulla conquista della direzione musicale del Teatro Massimo di Palermo, perché appare sempre più evidente che nello scontro fra regione Sicilia e comune di Taormina attorno alla Fondazione Taormina Arte, di cui l’ambiziosissima signora venne nominata direttore artistico due estati fa, il governo di Renato Schifani che la impose stia perdendo terreno contro l’incalzare del nuovo, il pirotecnico Cateno De Luca, intenzionato a cancellarne l’attività e perfino la presenza dalle mappe. Quando ci sentiamo al telefono – più volte nell’arco di un paio di giorni perché prima ha il consiglio comunale, poi quelle sue dirette Instagram molto sanguigne che alternano invettive e annunci alla campagna di tesseramento della sua coalizione “Sud chiama nord” – elenca puntigliosamente tutti i beni di cui in sei mesi ha tolto il godimento a TaoArte, a cui aveva peraltro già fatto mancare il supporto all’epoca della gestione del comune di Messina.
Arrivato lo scorso giugno a Palazzo dei Giurati, quel gioiello medievale che si affaccia sul corso del passeggio serale con l’Etna in bellissima vista, il nuovo primo cittadino aveva chiesto una modifica dello statuto che riequilibrasse oneri e onori rispetto alla longa manus di Palermo. Incassato il diniego, è partito all’attacco, e nel giro di poche settimane TaoArte, locataria morosa da anni nell’acquiescenza generale, si è vista sfrattata perfino da un magazzino di attrezzeria dalle parti del cimitero acattolico. Poi, è toccato alla società di gestione del Teatro Antico e di buona parte dei siti archeologici della Sicilia orientale, la piemontese Aditus, a cui è stata tolta la concessione del Palacongressi con approvazione “plurimotivata” del Tar. Nella gestione e nel rinnovato successo turistico e culturale di Taormina, comune di fama internazionale sul quale gravava un dissesto da 40 milioni oggettivamente incomprensibile per un luogo di tale bellezza e attrattività turistica a meno di non dare per pacifico che quasi nessuno pagasse i servizi e lo sfruttamento delle risorse, De Luca si gioca una possibile partita nazionale, e infatti è andato a recuperare Tari e Tasi e Imu non pagate in pratica casa per casa, armato di un paio di cesoie “comprate su Amazon”. E’ fatto così, “scateno” come l’hanno ribattezzato: le telecamere gli piacciono e in mancanza delle stesse usa lo smartphone; però la voragine nei conti, ereditata con un raccapriccio pari solo alla baldanza, pare in effetti essere stata colmata quasi interamente, e già adesso sembra tornato il momento degli investimenti.
Sulla stampa nazionale, forse l’avrete notato, iniziano a comparire sempre più spesso articoli carezzevoli sul “fascino di Taormina d’inverno” e su quella locale informazioni circostanziate sugli accordi che l’assessore al turismo, un ragazzone che risponde al nome molto cinematografico di Jonathan Sferra, starebbe stringendo con tour operator asiatici, indiani in particolare e in triangolazione con l’Inghilterra che per Taormina ha avuto un debole fin dai tempi in cui Lady Trevelyan, esiliata dalla corte della Regina Vittoria per le troppe simpatie che il figlio Edward nutriva nei suoi confronti, decise di stabilirvi la propria residenza e a spese della corona si mise a piantarvi fiori ed essenze rare. L’obiettivo, evidente e di certo condiviso da altri comuni, è di rafforzare l’attività cittadina nei sei mesi buoni durante i quali, fino a oggi, hotel ed esercenti chiudevano le imposte e mettevano il personale in cassa integrazione, forti di un sostegno pubblico che permette di calibrare le aperture nei mesi di maggiore afflusso turistico e di scaricare sulla comunità le spese degli altri mesi, nella perfetta e rotondissima logica della cornutaggine mazziata. Paghi in generale per servizi specifici di cui non puoi usufruire neanche pagandoli.
Da anni, e in misura ancora maggiore dalla pandemia, da Stresa a Portofino a Capri fino appunto a Taormina, le maggiori località turistiche della penisola entrano in fase città mineraria abbandonata del Klondike a fine ottobre e ne riemergono a Pasqua con una pittata di fresco alle pareti e un ampliamento della piscina, giusto perché l’albergatore possa dire di non essere stato con le mani in mano o, meglio, a svernare alle Seychelles e alle Maldive dove è tradizione che si ritrovino un po’ tutti, controllandosi a vicenda gli ordinativi di spumante e le borsette nuove al braccio delle mogli. “La città del Minotauro”, come viene orgogliosamente chiamata dai locali anche se forse si trattava di un più banale centauro, la denominazione non è mai stata chiarita, non sfuggiva alla pratica fino a quando, nel 2020, il Four Seasons decise di acquistare il san Domenico Palace, per tutti gli Anni Ottanta ai vertici delle classifiche internazionali albergo più bello del mondo, e Bernard Arnault si trovò fra le proprietà del colosso Belmond appena acquisito Villa sant’Andrea nella baia di Mazzarò e il favoloso Albergo Timeo. Primo rifugio turistico costruito a Taormina alla metà dell’Ottocento su un antico agrumeto ai piedi del teatro antico, l’originaria locanda vista vulcano era diventata in breve tempo il ritrovo di aristocratici europei, sfaccendati eleganti e artisti di fama, fra i quali Otto Geleng e il fotografo Wilhelm Von Gloeden, detto anche “il barone Guglielmo”, gran ritrattista di bellezze maschie impuberi e sfacciate, che a cent’anni dalla scomparsa è tornato al centro di uno dei pettegolezzi più gustosi di queste manovre di valorizzazione di Taormina da parte dei suoi sindaci, nel caso specifico del predecessore di De Luca.
Si dice infatti che nemmeno a Mario Bolognari piacesse granché il fenomeno della serranda invernale selvaggia, causa prima della chiusura degli alberghi, e che per incentivare gli uni e gli altri a non fare della città la waste land di Eliot almeno durante le settimane del Natale, lo scorso anno avesse chiesto supporto a Dior, recente arrivo su corso Umberto con un paio di vetrine: ne era seguita una serie di schermaglie e di qui pro quo, ovviamente la griffe non aveva intenzione di comportarsi in Sicilia diversamente da come fa nelle altre città di vacanza europee, e aveva cercato di risolvere l’impasse con un’“erogazione liberale avente per oggetto opere fotografiche ed alcuni cimeli storici del fotografo Wilhelm Von Gloeden”: l’amministrazione internazionale e molto inclusiva della griffe non sapeva però che la cittadinanza avrebbe fatto volentieri a meno di rivedere i suoi trisavoli imberbi ritratti dal “baruni” in pose plastiche con i pampini in testa. Il web reca ancora traccia delle invettive e della domanda che è serpeggiata fra le mura bianche dei palazzi di corso Umberto per un pezzo: ma non si poteva chiederci se avremmo preferito magari qualche altro autore?
Oltre ai contadinelli discinti di cui adesso il comune è legittimo e imbarazzato proprietario, resta però la questione molto prosaica delle saracinesche abbassate, le claire come diciamo a Milano e, anche su questo punto, De Luca non ha intenzione di farsi imporre regole e soprattutto orari dalle famiglie dei negozianti locali e soprattutto dalle griffe internazionali che, da quando la famiglia Parisi ha ceduto lo scettro e il controllo della grande maggioranza delle attività commerciali compreso lo storico ristorante del corso, la Baronessa, da un anno trasformato nel caffè e boutique Vuitton al termine di una trattativa chiusa in ventiquattr’ore con l’aristocratico che ne possiede le mura e che non poteva credere alla propria fortuna (la farmacia sottostante ha venduto subito a sua volta e si è trasferita a un centinaio di metri), stanno occupando ogni singolo metro quadrato disponibile. Loro Piana avrebbe appena identificato gli spazi adatti sul corso, così come Zegna nell’ex ristorante Circe. In questa competizione che si ripete più o meno identica ovunque, il colpo grosso spetta però ai Dolce&Gabbana e qui siamo in grado di darvi una primizia: Alfonso Dolce, il fratello di Domenico che guida le sorti del piccolo impero, ha infatti appena rilevato le attività del Mocambo, il caffè pasticceria con l’affaccio più bello del mondo, un solo sguardo e abbracci piazza IX aprile, la chiesa, il mare e l’Etna, mentre sul muro di fondo, oltre il bancone, un affresco di Christian Bernard ispirato al “Caffè Greco” di Renato Guttuso ritrae la vita vera ma soprattutto di fantasia dei soggiornanti illustri del luogo, affiancando Sigmund Freud ad Albert Einstein a personaggi locali come Dino Papale e peccato non vi sia Truman Capote che invece vi trascorreva ore infinite, perché in questi mesi, con il serial sui “cigni” e a dispetto della sua banalità, avrebbe fatto comodo.
Il locale, ancora di proprietà degli eredi del fondatore, Carmelino Fichera, era stato gestito per anni dai camerieri, grazie a un’ interessante quanto fallimentare operazione di management buy out. Sui social avevano iniziato ad accumularsi le recensioni negative, mentre le brioche apparivano sempre meno fresche e le granite acquose soprattutto se paragonate a quelle eccezionali del Bam Bam bar di Saretto Bambara nella strada sotto, ore di fila per assicurarsi un tavolino perché si consuma solo seduti, e insomma la scorsa estate il Mocambo era rimasto chiuso. Uno smacco per tutti. I Dolce riprodurranno su scala ridotta il modello milanese del DG Martini, con boutique al piano superiore, e la giunta va dunque preparandosi a una nuova stagione di attività e di rinnovamento che vuole governare e non subire, cioè evitando accuratamente di replicare il modello negativo di Portofino o di Capri. Vuoi per la mancanza di un albergo adeguato a una clientela internazionale, vuoi per il controllo locale sulle attività, leggi Franco Parisi, fino ad oggi Taormina era rimasta fuori dalla logica spartitoria dei brand del lusso che va trasformando i borghi più belli del mondo nella replica di un mall commerciale, producendo una gentrificazione inevitabilmente un po’ sopra le righe per il genere di clientela ostentatrice che attrae e per la tipologia dei residenti e dei commercianti che costringe invece ad andarsene, finendo suo malgrado per togliere alle mura e alle strade che in apparenza recupera e restaura la stessa autenticità che ufficialmente persegue. Il mondo di chi sa, vede, viaggia e conosce inizia ad averne abbastanza di spiagge brandizzate, tazzine da caffè col logo impresso e di quella costante e spaesante sensazione di trovarsi sempre nello stesso luogo ad acquistare, sostanzialmente e ad eccezione dell’occasionale sacca “esclusiva per questa boutique”, le stesse cose.
Non è un caso che il primo dei grandi imprenditori del settore che abbiano rilevato gli spazi molto desiderabili dei Parisi, il palermitano Mario Dell’Oglio, ex presidente della Camera dei Buyer e autore di un saggio molto divertente sull’anarchia intrinseca e possibile dell’eleganza maschile, stia lavorando a una selezione di artigianato e tessile locale per la boutique che aprirà a Pasqua: racconta che il progetto di ripristino delle opere murarie e degli spazi originari del palazzo, incarico affidato allo studio Andrew Trotter di Barcellona (“gli stranieri riescono ad essere innovativi ma rispettosi”) la sovrintendenza gli abbia concesso i permessi in due giorni. “Non me l’aspettavo”. Ma De Luca ha fretta: lo scorso Natale aveva organizzato una lunga serie di eventi e si è trovato con il corso affollato e i negozi chiusi. Non essendoci i tempi per intervenire, è stato costretto ad abbozzare. Ma, visto che “non tutto è successo”, titolo della sua autobiografia, prefata dalla musa letteraria dell’isola Catena Fiorello che è anche un manifesto programmatico, da ora in poi non intende accettare nuovamente “questa cattiva abitudine”. Come sempre, agisce sul convincimento spontaneo altrui, nel caso sulla revoca della concessione del suolo pubblico per chi deciderà di chiudere durante il periodo invernale. Che siano brand del lusso o il venditore di souvenir, non fa alcuna differenza. Dice.