dall'antichità ai giorni nostri
Noi e la sbronza. Come l'alcol accompagna da sempre la civiltà
Anche le scimmie nostre antenate si davano alla frutta fermentata per ubriacarsi. Perché ci piace tanto consumare alcolici
Non è di certo un mistero che gli esseri umani amino da sempre bere bevande alcoliche. Tant’è che esiste un’infinità di proverbi per celebrarle, che attraversano tempi e culture differenti e che ci parlano del modo in cui le viviamo; mitizzandone la nascita, descrivendo gli effetti che hanno sulle nostre vite e ipotizzando la maniera migliore per utilizzarle. Ciò che le accomuna, sia che si tratti di vino, sakè, birra, gin o grappa è il fatto che tutte esistono grazie al lavoro dei lieviti: organismi unicellulari che mangiando lo zucchero espellono anidride carbonica ed etanolo, processo noto appunto come fermentazione. Ma perché ci piace tanto consumare alcol? La risposta potrebbe essere semplice e non richiedere chissà quale approfondimento; in fondo le principali conseguenze psicofisiologiche dell’alcol sono quelle sedative ed eccitanti. In sostanza, bevendo, si sperimentano sensazioni ansiolitiche, cioè di diminuzione dell’ansia, ed euforizzanti, energizzanti. What else? direbbe qualcuno.
Non a caso, infatti, in un passaggio del libro di Emilio Lussu “Un anno sull’Altipiano” (Einaudi, 1954), l’autore narra che l’attacco alle trincee nemiche era deducibile già da qualche giorno prima, perché veniva anticipato dall’arrivo di camion carichi di cognac. Nel 2012, Science pubblica uno studio che ha fatto molto parlare di sé, intitolato “Sexual Deprivation Increases Ethanol Intake in Drosophila” (“La deprivazione sessuale aumenta l’assunzione di etanolo nella drosophila”, cioè nel moscerino della frutta). Ciò che questi ricercatori hanno scoperto è che i maschi di moscerino che non riescono ad accoppiarsi, a differenza di quelli che invece riescono a farlo, aumentano notevolmente il consumo di etanolo. In sostanza, detto per inciso, la stessa cosa che capita di fare a noi umani di fronte ad un amore non corrisposto. Lo studio mostra che questo comportamento avviene perché nei maschi di moscerino che riescono ad accoppiarsi aumenta la presenza di un neuropeptide – cioè di una sostanza chimica prodotta dalle cellule cerebrali – e in quelli che invece non ci riescono, la quantità di questo neuropeptide diminuisce.
L’ipotesi è che con l’aumentare del neuropeptide diminuisca il consumo di etanolo, cioè, per così dire, la voglia di ubriacarsi, perché la sua presenza nel cervello è di per sé gratificante. Mentre coloro che non riescono a fare sesso, avendone una concentrazione minore, sono costretti ad andare a cercare gratificazione e piacere da qualche altra parte, nell’etanolo prodotto dalla frutta in fermentazione, appunto. Incredibile come questa cosa suoni familiare. La passione che nutriamo per le bevande alcoliche affonderebbe nelle nostre origini, e risalirebbe a quando abbiamo smesso di essere scimmie arboree, che vivevano sugli alberi, per diventare scimmie che si muovevano sul suolo della foresta. Questa, infatti, è l’ipotesi di uno studio pubblicato su Pnas dalla University School of Medicine di Indianapolis in cui i ricercatori hanno ricostruito la storia evolutiva del gene che permette di metabolizzare l’alcol, analizzando i geni di 28 mammiferi tra cui 17 primati. Questo cambiamento, questa nuova capacità, si sarebbe sviluppata circa 10 milioni di anni fa, quando i nostri antenati, adattandosi alla vita terrestre, hanno iniziato a mangiare i frutti caduti dagli alberi, frutti che, grazie al lavoro dei lieviti, andavano e vanno tuttora incontro al processo di fermentazione. Si potrebbe dire che abbiamo iniziato ad ubriacarci appena abbiamo iniziato a camminare; strano a dirsi perché solitamente è piuttosto difficile riuscire a fare le due cose insieme. Il nome di questa ipotesi scientifica è proprio quella di “drunken monkey hypothesis” (ipotesi della scimmia ubriaca), e negli ultimi due decenni ha preso tanto piede da far rivalutare il ruolo dell’etanolo nella nutrizione, almeno in quella di ambito zoologico.
Ora, per non perdere il senso della misura è importante ricordare che l’alcol contenuto nei frutti che fermentano naturalmente è decisamente inferiore rispetto a quello presente nelle bevande prodotte dagli esseri umani. Inoltre, il grado di dipendenza che causa è decisamente elevato e il suo consumo – benché sia abbastanza difficile stabilire in quale misura – aumenta l’incidenza di patologie come il cancro all’intestino e la cirrosi epatica. Nulla di buono in sostanza. Ciononostante, seppure il consumo di alcol sia ritenuto, in maniera piuttosto condivisa, dannoso, esistono degli aspetti ai quali chi ne fosse un venditore, o uno scellerato bevitore, potrebbe aggrapparsi. Ingiustificatamente, si intende. Ed ecco, probabilmente, il motivo per cui l’ipotesi di apporre delle etichette sulle bottiglie che informano i compratori riguardo ai rischi sanitari legati all’assunzione di bevande alcoliche abbia fatto tanto dibattere. Se l’assunzione di alcol è presente fin da prima che diventassimo umani, diventa difficile additarlo come una sostanza totalmente estranea o nociva per il nostro organismo. Inoltre, il danno di immagine che alcuni prodotti subirebbero probabilmente rimodulerebbe negativamente l’economia di interi territori. Non che gli aspetti economici possano prevalere di fronte a quelli sanitari, ma è ovvio che l’idea di apporre delle etichette informative riguardo il suo utilizzo sia stata criticata anche in questa prospettiva. Comunque, tornando ai motivi ai quali aggrapparsi per giustificare qualche bicchiere in più, il primo potrebbe essere quello legato al cosiddetto “paradosso francese”. Questa ipotesi è stata proposta nei primi anni Novanta del secolo scorso da Serge Renaud, ricercatore dell’università di Bordeaux, e l’idea che ci sta dietro è che, sebbene le evidenze scientifiche siano controverse, il consumo di vino rosso sarebbe un fattore protettivo nei confronti delle malattie cardiovascolari poiché, comparando lo stile di vita dei francesi con quello di altri popoli aventi abitudini alimentari simili – come l’uso di cibi ricchi di acidi grassi saturi quali i formaggi – i primi risultano meno affetti da malattie a carico delle coronarie. E questa protezione sarebbe da imputare proprio all’alcol, in quanto sostanza protettiva nei confronti delle malattie cardiovascolari. Chiaramente questa ipotesi è stata, ed è tuttora, sovrasfruttata dai produttori, quando invece, ad esempio, la correlazione tra eccessivo consumo di alcol e cancro al fegato, cirrosi epatica o sindrome metabolica è decisamente più condivisa dalla comunità scientifica.
Tuttavia, la consolazione che può tornare utile il giorno dopo una sbornia è che, se un eccessivo consumo di alcol è certamente dannoso, un consumo basso-moderato può essere benefico, almeno per quanto riguarda le patologie cardiovascolari; in breve, l’alcol sarebbe un fattore protettivo nei confronti dell’occlusione dei vasi sanguigni, condizione gravissima perché causa una pericolosa mancanza di ossigeno sia al cuore che al cervello. Effettivamente, quella che vede l’alcol come un fattore protettivo è la conclusione a cui giunge anche uno studio molto importante pubblicato su Lancet dal Global Burden of Disease (Gbd) nel 2022, nel quale i dati analizzati, relativi al 2020, prendono in considerazione 204 paesi suddivisi in 21 macroregioni. Questo lavoro sottolinea però come l’effetto protettivo si avrebbe solo per le persone sopra i 40 anni, non a caso più esposte a patologie cardiovascolari. Mentre per i più giovani scomparirebbe, sia perché raramente esposti a questo tipo di patologie sia per la drammaticità delle morti negli incidenti stradali a cui un’eccessiva assunzione può condurre. Un altro aspetto interessante da notare riguarda il fatto che i maggiori consumatori sono i paesi industrializzati, gli stessi che, tuttavia, mostrano i minori livelli di problemi legati all’alcol; a differenza di quanto avviene in quelli dell’Europa orientale in cui gli alti livelli di consumo sono associati anche ad alti tassi di mortalità.
Dal punto di vista antropologico, la prospettiva che vede le bevande alcoliche semplicemente come un bene di consumo, come se si trattasse di formaggio o pane, si sta modificando, insieme a quella che considera l’alcol come un prodotto desiderato semplicemente per i suoi effetti sul nostro sistema nervoso. Ciò che ricercatori come Patrick McGovern – archeologo biomolecolare della University of Pennsylvania – hanno fatto emergere è che la produzione di alcol da parte degli esseri umani si colloca molto indietro nel tempo, tanto da far credere che siamo diventati sedentari non tanto per dedicarci all’agricoltura per coltivare e raccogliere i frutti della terra, quanto per farli fermentare. Questa teoria, per quanto possa apparire azzardata, prende le mosse da una incredibile scoperta archeologica avvenuta in Turchia sudorientale nel 1963. Qui, infatti, è stato riportato alla luce un complesso sito di enormi costruzioni in pietra, con diametri di 20 metri e pilastri riccamente decorati alti fino 5 metri e mezzo; il tutto datato intorno ai 12 mila anni fa e conosciuto come Göbekli Tepe. La peculiarità di questo luogo risiede nel fatto che la sua datazione è antecedente al momento storico in cui le persone hanno smesso di essere cacciatori raccoglitori nomadi per diventare agricoltori sedentari. Come è spiegabile allora la presenza di un luogo come questo, costituito da enormi e quanto mai sedentarie e pesantissime pietre, che richiedono una enorme forza lavoro per essere spostate e impiegate nella costruzione di edifici? L’idea avanzata dagli addetti ai lavori è che si trattasse di un luogo adibito allo svolgimento di cerimonie religiose in cui si riunivano periodicamente, e forse in momenti prestabiliti, tutti coloro che abitavano quei territori. Un luogo che molto probabilmente è stato usato per secoli.
Oltre ai grandi recinti circolari in pietra collocati centralmente, ne sono stati individuati di più piccoli e rettangolari tutt’intorno. È soprattutto grazie a questi ultimi che l’ipotesi di una bevanda alcolica – probabilmente una specie di birra – come “lubrificante” della rivoluzione neolitica, cioè del processo che ci ha portato ad essere sedentari, ha preso piede. In queste costruzioni rettangolari più piccole, infatti, sono stati individuati contenitori in pietra, il più grande dei quali avente una capacità di 40 litri, con residui di ossalato, cioè di una sostanza chimica lasciata quando l’acqua e il grano si mescolano. Inoltre, sono stati ritrovati migliaia di strumenti in pietra utilizzati per macinare il grano, assieme a un’impressionante quantità di ossa di gazzelle, di uro (l’antenato degli attuali bovini) e di asino selvatico. Ma la cosa più importante è che non sono state rinvenute strutture in cui conservare questa enorme quantità di cibo e bevande. E il motivo sembra essere semplice: veniva consumato tutto nel giro di pochissimo tempo. Perché ciò che si teneva a Göbekli Tepe, verosimilmente per secoli, era un enorme ritrovo durante il quale festeggiare con birra e carne grigliata, mentre si erigevano monumenti e si celebravano le divinità. Non sarebbe dunque l’agricoltura che ha permesso e promosso la nascita delle religioni, perché questa, a quanto pare, era un’esigenza che i nostri antenati neolitici avevano già. L’idea è che ci saremmo stanziati per celebrare con più regolarità, e in questo processo le bevande fermentate, stando a quello che emerge da Göbekli Tepe, hanno giocato un ruolo centrale.
Questa teoria, per quanto possa sembrarci azzardata, ci aiuta a mettere in luce l’enorme potere culturale che le bevande alcoliche hanno assunto e che assumono a tutt’oggi. Probabilmente non è un caso, non è nemmeno frutto di una eccessiva esposizione alle pubblicità o a film che si è guardati da giovanissimi, che quando sentiamo la necessità di confrontarci o di ringraziare un amico o un’amica pensiamo di incontrarci per bere una birra, uno spritz, un bicchiere di vino o, nei momenti peggiori, uno shottino di rum o vodka. Anzi, stando a quanto apprendiamo dagli studi che sono stati portati avanti in questi anni a Göbekli Tepe, si tratterebbe di un modo che possediamo da almeno 12 mila anni di vivere il nostro rapporto con gli altri, di sottolinearne la rilevanza, per di più in una prospettiva comunitaria; potrebbe essere per questo che bere da soli a volte viene considerato un campanello d’allarme. Tutto questo non significa però che le chiavi di lettura antropologiche o archeologiche debbano essere utilizzate per giustificare o comprendere violente bizzarrie come quella di versarsi superalcolici negli occhi per sballarsi velocemente e intensamente, o più semplicemente per legittimare l’alcolismo. L’alcol è una sostanza psicotropa, questo significa che ha un effetto sul sistema nervoso umano che determina una modificazione dello stato di coscienza e, seppure di questi tempi un suo avanzamento (dello stato di coscienza) parrebbe augurabile a buona parte dell’umanità, probabilmente l’alcol non è lo strumento adatto per fare sì che ciò avvenga.