Parliamo di sesso. I tempi in cui l'atto sessuale è ostentato ma dire “maschio” o “femmina” è tabù
Una delle ragioni della fortuna della nozione di “gender”, forse la più frivola, è il puritanesimo americano, che l’ha adottata come una forma beneducata per dire “sex”
Sono così impressionabile che non riesco a fissare troppo a lungo la “Lezione di anatomia” di Rembrandt; figuriamoci se posso condividere la passione per la scienza forense, specie per i film e le fiction che mostrano estenuanti e dettagliatissime autopsie (a un certo punto i tavoli da morgue erano così onnipresenti che gli studiosi del poliziesco cominciarono a scrivere libri sul “forensic turn”). Pur non potendo partecipare al macabro festino, però, tanti anni fa ho avuto per un istante la sensazione di capirlo. E’ stato quando uno di quei programmi pseudoscientifici sui misteri e il paranormale passò “Alien Autopsy”, il documentario-beffa che pretendeva di mostrare l’autopsia di un marziano praticata dopo l’incidente di Roswell. Ecco, mi dissi, forse il piacere di guardare cadaveri dissezionati si spiega così: è un modo di osservare il corpo umano come se appartenesse a un’altra specie, perfino a un’altra galassia. Ma cosa ci dice, questo, del nostro rapporto con il corpo e con la morte? All’epoca avevo appena letto un saggio dell’antropologo-psicoanalista inglese Geoffrey Gorer, “The Pornography of Death” (1955). Diceva che il Novecento ha sostituito il tabù vittoriano del sesso con quello della morte, che è diventata scandalosa e impronunciabile; e siccome i tabù sono come un miele che attira le mosche dell’immaginazione pornografica, ne è derivata una pornografia della morte. Ecco perché le autopsie nella fiction. Mi sembrava di avere risolto l’enigma, e sono passato oltre.
Qualche giorno fa, però, un libro appena pubblicato mi ha costretto a sottoporre a revisione il mio vecchio processo mentale passato in giudicato. Lo ha scritto un professore di Filosofia dell’Mit, Alex Byrne, e si chiama “The Trouble with Gender” (Polity Press). Una delle ragioni della fortuna della nozione di “gender”, forse la più frivola, è il puritanesimo americano, che l’ha adottata come una forma beneducata per dire “sex” – parola che ha l’inconveniente di rimandare non solo all’anatomia ma anche all’atto sessuale. Ebbene, nelle prime pagine Byrne – che propone di sbarazzarsi di una nozione foriera di infiniti equivoci concettuali – sembra completare o aggiornare, settant’anni dopo, la tesi di Gorer: “Il momento attuale è caratterizzato da una curiosa inversione degli atteggiamenti ottocenteschi verso il sesso. I vittoriani erano decisamente a loro agio con il sesso nel senso di maschile e femminile, ma schizzinosi in pubblico rispetto al sesso nel senso di rapporto sessuale. Ora è il contrario: il tema del rapporto sessuale è quasi impossibile da evitare, ma per parlare di femmine e di maschi si ricorre spesso a circonlocuzioni: ‘assegnata femmina alla nascita’ è la frase raccomandata, e suggerisce che il neonato è stato arbitrariamente arruolato nella squadra rosa anziché nella squadra azzurra”. Lo stesso vale per quelle formule grottesche come “persone con utero”, “portatori di cervice” o “mestruatori”. Dunque il tabù rispetto a un atto, il rapporto sessuale, si è trasformato nel tabù verso una condizione, un pudore ontologico che ci ha resi schivi e vergognosi nei confronti del corpo sessuato. Di qui a quella che Günther Anders chiamava vergogna prometeica – il senso di inferiorità dell’uomo rispetto ai prodotti incorruttibili della sua stessa tecnologia – il passo è breve. Quelle perifrasi che suonano – a ragione – misogine, riveleranno allora una radice più profonda, l’antico e mai sopito antisomatismo, l’insofferenza per il corpo materiale; né la cosa deve stupirci, in quanto eredi di una tradizione che ha legato così strettamente la donna alla carne, come ha mostrato Sylviane Agacinski nella ricognizione teologico-filosofica di “Métaphysique des sexes” (Seuil). Il discorso ci porterebbe lontano. Lasciamolo perciò inchiodato al tavolo autoptico, dove organi, fluidi, arti, nervi e ossa compongono quel geroglifico ormai indecifrabile che un tempo chiamavamo uomo.