Le voci
Autoritratto della Generazione Z
Non più adolescenti, non ancora adulti, intenti a “snodare” la propria vita con l’età. L’incertezza e la consapevolezza, lo studio, il momento delle scelte. Il futuro che incombe e i social che non sono tutto. Dieci piccole storie intorno ai 18 anni: diario di un girotondo romano
"Indosso la vita a testa alta sul collo
la mia collana non ha perle di saggezze
a me hanno dato le perline colorate
per le bimbe incasinate con i traumi
da snodare piano piano con l’età"
("La noia", Angelina Mango-Madame-Dardust, Sanremo 2024).
Snodare piano piano con l’età: le parole de “La noia”, la canzone che Angelina Mango ha cantato a Sanremo (e con cui vincerà), mi rimbombano nella testa da qualche ora, ma non per motivi musicali. E’ il testo. Il testo, autobiografico, parla di Angelina stessa, che ora di anni ne ha ventidue, ma fotografandola a ritroso, nel suo percorso a sbalzi di crescita-palude-avanzamento. “Zero drammi”, dice: “Muoio senza morire / In questi giorni usati / Vivo senza soffrire / Non c’è croce più grande”. E niente, è come se le parole di Angelina fotografassero anche le ragazze e i ragazzi che ho incontrato nell’ultima settimana, senza però andare a ritroso. Loro hanno diciassette e diciotto anni, alcuni quasi diciannove. Pochi meno di lei. E a me sembra di vederli, dopo averci parlato, mentre camminano, dormono, studiano, pensano, amano, si divertono, intenti a “snodare” la propria vita con l’età. L’idea originaria era questa: aprire una piccola finestra su chi ci cammina o ci camminerà presto accanto, persone che ci fanno sperare, gioire, brancolare o disperare (dipende dal giorno e dall’umore); persone che pensavamo di conoscere fino a poco fa, ma di cui a volte dubitiamo persino di aver mai davvero capito il vero pensiero (multiforme? cangiante? sintetico? E non nel senso della droga ma delle poche, lapidarie parole spese per esprimere un concetto). Persone che possono essere figli di età quasi adulta o figli che presto l’avranno, quell’età, anche se stazionano ancora lungo la linea d’ombra della pre-adolescenza. Oppure nipoti, figli degli amici o anche soltanto facce assorte, spensierate, cupe, viste in treno, in aereo, alla fermata dell’autobus, agli incroci, sui monopattini (in due e anche in tre), al bar, per strada. Facce chine sul cellulare come le nostre o facce di ragazzi seduti sul gradino davanti a scuola, con un pezzo di pizza in mano. Gente non più bambina e non ancora cresciuta del tutto. Generazione Z, li chiamano. O anche soltanto “i giovani”. Ma che cosa c’è, chi c’è dietro la didascalia che compare sotto le foto di gruppo o di spalle sormontate dal titolo “occupazione”, “manifestazione”, “esame di maturità”, “no al patriarcato”, “movida”, “malamovida”, “Earth day”, “test per l’ingresso a Medicina”, “sindrome post lockdown”, “dipendenza da internet”, “versatilità delle nuove generazioni”, “nuovi lavori”, “i giovani non leggono più”, “i giovani leggono grazie a TikTok”, “boom dei viaggi d’istruzione all’estero per i teenager”, “teenager cittadini del mondo”, “precarietà”, “revenge porn”, “bullismo”, “fluidità”, “ritorno degli adolescenti all’amore romantico” o, al contrario, “under 20 che vanno oltre il concetto di coppia”?
L’impressione, per chi abbia in casa un esponente della cosiddetta generazione Z, è quella di navigare di notte a fari spenti o al massimo con il faretto da speleologo in testa, con il mare ogni tanto illuminato da un raggio di luce spuntato nel nulla. Forse chi non lo ha in casa, l’esponente della generazione Z, guardandolo a distanza, capisce paradossalmente qualcosa in più, ma non troppo. Soprattutto ci si chiede: chi sono questi ragazzi e ragazze secondo loro, e che cosa vogliono da sé stessi?
Mossi da questa curiosità, e senza pretese di impossibile completezza (abbiamo scelto un campione di dieci ragazze e ragazzi tra i 17 e i 19 anni, in varie zone di Roma), mascherando il nome se richiesto, ci siamo addentrati nella piccola ricognizione di cui segue un diario per quanto più possibile fedele ai fatti e ai pensieri che ci sono stati affidati. Loro, le ragazze, chiedono soltanto un bicchiere d’acqua e parlano una alla volta, chiedendosi scusa a ogni piccola involontaria interruzione (mi sembra di stare sulla luna, pensando alle nostre chiacchiere adulte, affastellate e caotiche).
A me che voglio sapere qualcosa per rompere il ghiaccio – tipo “come vi vedete, voi, adesso?”, Giorgia risponde che la loro “è una generazione difficile”: “Difficile avere una propria visione sul mondo e difficile capire che cosa fare. È tutto un po’ destabilizzante, e questo crea molta incertezza”. E’ un momento di scelte, quindi cominciamo dalla fine, visto che il “che cosa fare dopo il liceo” incombe come scritta rossa cubitale all’orizzonte. “Io farò Psicologia”, dice Giorgia, “non ci sono arrivata subito, ci ho messo un po’. Ho capito da sola, per esclusione e nella confusione, ma piano piano questa idea è diventata la mia idea per il futuro”. Benedetta la sua generazione la vede, sì, “immersa nell’incertezza”, ma la vede anche “molto consapevole”. “E questo a volte è un problema”, dice: “Stiamo molto a pensare a noi stessi. Pensiamo, pensiamo”. Vi distraete, anche, sospettano gli adulti che temono l’effetto straniante dei social network durante i compiti. “Ci distraiamo, è vero. Spesso non riusciamo a concentrarci. Però il social ti lega al mondo, e a volte ti aiuta, a suo modo: io per esempio l’inglese l’ho imparato lì”. Chiedo a Benedetta che cosa intenda per “generazione consapevole”. “Riflettiamo molto sugli errori, su quello che ci è successo”, dice. A volte una sliding door si piazza nel mezzo, sotto forma di scelta che si rivela sbagliata. Nella scuola precedente Benedetta ha sofferto molto. “Mi si era abbassata l’autostima, mi ero convinta di essere stupida, mi sembrava di non saper fare le cose, e mi pareva però anche che alcuni professori lo impedissero, fissandosi: hai preso un sei? Sarà sei per tutta la vita. Questo è in alcune scuole l’atteggiamento fin dal primo anno, quando lo studente è ancora un bambino, tredicenne o quattordicenne. Come si fa a essere così ostili con dei bambini? Poi l’anno scorso, al quarto anno, ho cambiato, e nel nuovo liceo non sento più quel clima di competizione inutile in cui si è influenzati dai pensieri altrui. Sento che studio e imparo perché le cose le capisco, e non vivo tutta quell’umiliazione di prima, come se stessi sbagliando proprio approccio alla vita. La scuola ti deve preparare al mondo”.
Giorgia è d’accordo: “Io anche vengo da un liceo dove i professori ci facevano percepire il loro disegno immobile. Vecchi e frustrati, mi viene da dire, e mi dispiace. Invece ora mi sento a mio agio: posso fare domande, non è tutto legato solo al voto. Sì, magari con i social a volte siamo distratti, questo sì. Ma direi che siamo molto in rapporto con noi stessi, vogliamo tempo da dedicare a noi stessi – forse è questo il grande cambiamento sociale oggi”. Giorgia ha scelto Psicologia, pensando “a come collegare la materia con il lavoro. Anche parlando con mia madre, che aveva dei dubbi e mi diceva ‘magari Psicologia non è del tutto adatta a te’, ho capito che mi interessa il campo della mindfulness”. Benedetta dice di non avere ancora le idee chiare sul futuro: “Ci sto pensando. Dicevo che siamo una generazione consapevole perché non ci spaventa l’idea di dover capire meglio noi stessi per poi poterci meglio mettere in relazione con gli altri. Mi interessa l’individuo. Anche per questo, intanto, voglio studiare. Antropologia. Voglio viaggiare, conoscere persone nuove e capire come le persone e le famiglie sono influenzate dal diverso contesto sociale”.
C’è un luogo da dove partire? “Vorrei studiare ad Amsterdam”, dice Benedetta, con una punta di indecisione. “Anche per questo a marzo andremo qualche giorno in Olanda”, dice Giorgia. Due amiche in viaggio-sopralluogo. L’indecisione, dice Benedetta, “è un po’ anche dovuta al fatto che secondo me i miei genitori sono convinti che io non sia ancora pronta, anche perché sono molto distratta”. E invece tu non hai un po’ di paura a trasferirsi? “No, paura no, o forse mi faceva paura fino a poco tempo fa perché faceva paura a loro. Ma ora penso: quando ti ci trovi, devi sopravvivere, e in qualche modo sopravvivrai”. Giorgia pensa all’eventuale trasferimento “come a un grande cambiamento inevitabile. Io mi sono sempre pensata così: una che a un certo punto prende e va. Se uno deve crescere, lo fa”.
Tra l’oggi e il domani ad Amsterdam si staglia l’esame di maturità. “Ecco, la maturità e anche l’esame per la patente”, dice Benedetta, “sono segnali che ti dicono all’improvviso che sei cresciuto e tutto quello che c’era prima diventa ricordo, come si fosse usciti da un perenne presente”. Giorgia vorrebbe “staccarsi dalla famiglia” per “indipendentizzarsi e migliorare”. “Ho un buon rapporto con mia madre”, dice: “Sono figlia di mamma single, genitore unico per scelta, ma non è mai stato un problema, lei mi ha cresciuta con una mentalità aperta. Ha fatto un gran lavoro, in una famiglia in cui non sono comunque mai mancate le figure maschili di riferimento, pur mancando quella paterna. Io non l’ho mai vissuta male, questa cosa, non ho mai provato senso di abbandono. Oggi capisco che l’influenza di mamma, quando penso al futuro, c’è, ma in modo sottile. Faccio fatica a staccarmi, ma quando poi mi stacco provo un senso di libertà. E ho assimilato una sua idea: prendere tutto quello che hai dalla vita e lavorarci sopra”.
Fare il salto verso quello che pare ancora un indistinto è invece per Benedetta “staccarsi non tanto dalla famiglia, quanto forse dall’idea che la tua famiglia ha del mondo, e allontanarsi da alcuni giudizi che magari i genitori esprimono in buona fede, per poter capire chi siamo e diventare persona migliori di quelle che siamo ora. Lo so, sono distratta e penso sempre che le cose le faccia un altro al posto mio, e un genitore deve dirtelo; a volte ti dice anche che sei viziata, ed è come se si offendesse perché in quel momento fai così, ma ripeto: è tutto detto in buona fede, da parte loro, e forse è normale, forse lo farò anche io un giorno. Allo stesso tempo sento che la mia famiglia mi influenza perché io in realtà li venero, i miei genitori. Non ci posso fare nulla, ed è una cosa che a volte mi dà fastidio, perché vorrei capire chi sono io davvero subito ma poi mi dico: per ora è così, punto”. Un genitore “è facile da capire”, dice Benedetta, sorridendo: “Un genitore vorrebbe che tu fossi migliore, poi a volte magari proietta una sua insicurezza su di te o vorrebbe che tu non fossi com’è stato lui o lei. Dietro al suo sguardo, in quei casi, anche se non vuole, c’è un giudizio. Ma se lo dico a mia madre lei un po’ si offende, a volte è così nel rapporto madre-figlia”.
Giorgia se si pensa tra dieci, quindici, vent’anni si vede “con una famiglia e dei figli: mi piace l’idea di poter crescere qualcuno, e vorrei qualcuno accanto con cui condividere valori morali. So che fare il genitore è difficile, magari non ci si sente mai abbastanza forti, magari si fa fatica ad approvare sé stessi per quello che si fa”. Anche Benedetta si vede “con dei figli in futuro”, ma fino a poco tempo fa era convinta di non volerne. “Non so con chi vorrò una famiglia”, dice, “ma vorrei essere un genitore che è lì, lì e basta. Questo vorrei trasmettere a un figlio: il genitore è lì, tu lo sai, lo ringrazi tanto, non lo giudichi, lui non giudica. C’è.
Con un padre e una madre hai un rapporto diverso da quello che hai con tutto il resto del mondo: non sanno cose di te che altri sanno, ma sanno cose che nessun altro sa. Non si dovrebbe cercare l’amicizia, nel rapporto genitore-figlio”. Si vedono con qualcuno accanto, Benedetta e Giorgia, ma non per forza adesso. “Io non sono mai stata in una relazione”, dice Benedetta, “e oggi è vero che è cambiato il modo di relazionarsi agli altri. Da un lato è più facile, dall’altro più difficile”. Riecco i social. “C’è chi è facilitato dai social e chi no. Chi sui social si spaventa, con tutto quello che si legge sull’amore tossico, sulla violenza anche psicologica”, dice Benedetta. “È cambiato l’approccio alle relazioni”, dice Giorgia, “e a volte ci si scrive e basta, ci si frequenta quasi solo scrivendosi in modo frenetico, non per conoscere a fondo la persona. Poi sì, c’è anche l’incontro in discoteca e poi però di nuovo tutti a scriversi”. “C’è gente che io conosco che non è mai stata sola dai dodici anni in poi”, dice Benedetta, “gente che guarda a quante relazioni ha avuto, gente che si vergogna di stare da sola. Ma ti pare che uno si innamora davvero a dodici anni? Forse uno dovrebbe vivere intanto la propria infanzia”. “Ci sono tante persone in giro con problemi relazionali”, dice Giorgia: “Sembra che molti non vedano bene le cose, presi da giochetti fatti per apparire migliori di quello che sono. Molti ragazzi sono così”.
Il tema “patriarcato” si affaccia con prepotenza sui media. Com’è vissuto da chi ha oggi diciotto anni? “Crescendo si crea divisione dove c’era unione nell’amicizia. Molti ragazzi si sentono in soggezione, si offendono, come se avessero paura di un femminismo violento che li spazzerà via dalla storia”, dice Benedetta: “Il tema del patriarcato crea pressione su molti. E molti si chiudono. Io a volte vorrei empatizzare, ma se uno poi non lavora su sé stesso, come si fa?”. “I ragazzi in un certo senso si sentono esclusi”, dice Giorgia, “e quindi ingigantiscono le proprie idee per sentirsi diversi ed entrano in opposizione a mano a mano che, con l’età, vedono che le ragazze diventano più consapevoli”. “A me pare che non sappiano bene che cosa voglia dire essere uomo. Non vuol dire certo andare a spaccare la legna”, dice Benedetta: “Mi sembra che molti abbiano poca autostima, si sentono attaccati, ma esagerano: per duemila anni le cose sono andate in un modo, ora cominciano ad andare in un altro. State calmi, dico io”. Da che cosa si rileva, se c’è, il famigerato “retaggio del patriarcato”, nella vita di una ragazza di diciotto anni? “Per esempio: anche se siamo a Roma, nel 2024, ci sono ragazzi che non ti prendono in considerazione se non metti il mascara”, dice Benedetta. “E in tv senti sempre dire: moglie di questo, moglie di quello”, dice Giorgia. “Poi quando ti conoscono i ragazzi ti rispettano di più, ma si sente una certa influenza della cultura patriarcale su di loro. Si mostrano femministi per avere vicinanza, ma poi non sono coerenti”. “Gli uomini di oggi non hanno colpe generazionali da espiare, però hanno una responsabilità”, dice Benedetta. “Il mio migliore amico”, racconta, “quando mi sono trovata a essere l’unica femmina in un gruppo di soli maschi, quasi non mi ascoltava, come avesse paura dell’opinione degli amici. E io ho pensato prima ‘che cretino’, e poi ‘a quanto pare i ragazzi si influenzano molto tra loro’”.
Decido a questo punto di fare una specie di gioco: butto lì un tema e chiedo alle ragazze di rispondere con la prima cosa che viene in mente. “Situazione politica internazionale”. “Credevo molto nel progresso, ma ora non sono più così positiva al riguardo”, dice Giorgia. “Ci sono cose che nella storia sono sempre successe e forse troveranno equilibrio nel crescere caotico di idee”, dice Benedetta. Intossicazione da web. “Ne parliamo spesso, dovrebbero regolamentare i social, ma non mi fido molto del governo”, dice Giorgia. “Io penso che alla fine la gente capisca quando è troppo. Una mia amica ha buttato lo smartphone e ha comprato un vecchio Nokia”, dice Benedetta. “Sì, alla fine ci si rende conto che la ricerca momentanea di felicità sui social non è la vera felicità. E su TikTok ultimamente sono comparsi video per la motivazione personale”, dice Giorgia. “L’espansione dei social secondo me si è un po’ fermata; c’è chi comincia a pensare che non è solo online che troverà conforto, anzi”, dice Benedetta. “C’è chi sui social si sente legittimato a dire qualsiasi cosa perché non c’è il nome e il cognome”, dice Giorgia. “Ci sono quelli che pensano di aver capito cose che non hanno capito gli altri, solo perché sono online”, dice Benedetta, “e anche quelli che seguono l’onda: tutti su TikTok prendono in giro gli hippie? E loro anche iniziano a prendere in giro gli hippie”. Altro argomento: film o serie tv? “Per me è più facile vedere le serie tv”, dice Giorgia. “Il problema è che poi io mi attacco ai personaggi delle serie, e sono distrutta quando finiscono. Meglio i film, ma più a casa che al cinema”, dice Benedetta. “Il gesto di andare al cinema per condividere sta tornando, però”, dice Giorgia. Libri? “Da piccola leggevo, oggi meno”, dice Giorgia. “Non quelli consigliati da TikTok, sono bruttissimi”, dice Benedetta. Uscite, discoteche? “Alle medie andavo a molti concerti, con mia madre. Ora non tanto, ma a volte vado a ballare”, dice Giorgia. “Io non esco molto”, dice Benedetta: “Disegno, ascolto musica, gioco con i videogiochi, chiacchiero con gli amici. Ah sì, sono andata al concerto di Patty Smith”. Usciamo, saluto le ragazze al semaforo, le guardo mentre vanno via “con la vita a testa alta sul collo”, come canta Angelina, e improvvisamente mi appare chiaro che cosa intendano per “consapevolezza”.
31 gennaio 2024, Giovanni
Giovanni ha diciotto anni e mezzo, frequenta l’ultimo anno in un liceo scientifico noto in città anche per via di una serie tv ambientata tra le sue mura: stessa età, forse simili situazioni vissute. Giovanni la serie l’ha guardata poco, dice: Un po’ quando ero più piccolo, durante il Covid”. Si è identificato con uno dei personaggi? “No, non molto”, dice guardandosi attorno: “Qui giocavamo da bambini, alcuni amici di prima sono a scuola con me, e qui ci siamo vestiti da mostri di Halloween”. Ora Giovanni si veste con una felpa nera con cappuccio e ha un taglio di capelli che io (incautamente) associo alla foto del gruppo di “maranza” milanesi finita giorni fa sui giornali per un caso di malamovida, ma non lo dico. Chiedo però chi, tra i barbieri di zona, è capace di tagliare i capelli in quel modo. “Non è un barbiere, è un parrucchiere per uomo e donna, ma non è qui vicino. Qui una volta mi hanno fatto un taglio tipo ‘maranza’”. Contenta di non aver parlato dei maranza milanesi, chiedo: tornerai all’estero, l’anno prossimo? Antefatto: i genitori di Giovanni si sono trasferiti negli Stati Uniti per due anni, quando lui ne aveva otto. Poi sono tornati a Roma per fargli fare le medie qui. “Io sarei rimasto in America”, dice lui, ma ora che i suoi stanno pensando di ri-trasferirsi oltreoceano, Giovanni non ne vuole sapere, anche se negli Usa è tornato quasi ogni estate. Non ha fatto neanche l’anno scolastico all’estero. “Non vado bene in alcune materie, troppa fatica recuperare, poi”.
Il suo problema oggi è questo: suo padre per il suo futuro pensa una cosa, sua madre un’altra, lui un’altra ancora, ma nessuno dei tre ha le idee così chiare. Che cosa vorresti fare, tu? “Io voglio fare il tour manager”. Non il musicista? “No, a me piace organizzare”. Il padre, vista questa propensione, sta cercando di indirizzarlo verso un corso universitario economico-manageriale. “Mia madre, invece”, dice Giovanni, “pensa che a me in realtà piaccia suonare, perché suono la chitarra con un gruppo dall’anno scorso, ma a me non piace per lavoro. Io voglio stare dietro al palco, mi piace tutto il resto”. C’è forse una parte di idealizzazione: viaggi, alberghi, feste? “Beh, hai visto i Maneskin?”. Li ho visti con la figlia tredicenne, 40 gradi all’ombra, bellissimo concerto. “Ecco, io voglio organizzare cose così”. Forse Giovanni vuole fare il produttore musicale, più che il tour manager? “Anche”. Alla fine il padre lo ha “quasi convinto”, dice Giovanni, a iscriversi a Economia, indirizzo manageriale, ma mancano ancora alcuni mesi e lui è pieno di dubbi. “Sto chiedendo in giro se mi posso aggregare quest’estate a un tour di qualche gruppo, pure piccolo, eh”.
È un’ora che parliamo e Giovanni non ha mai guardato il cellulare. Che invidia, dico da cellulare-dipendente. “No, ma è solo oggi che non mi va di guardare”. Perché? “Brutta giornata, poi se guardo finisce che scoppia un altro casino”. Spiegazione di Giovanni: “C’è uno a scuola mia che ieri ha fatto una foto a una schermata in cui io commentavo una specie di rissa tra altri due, e adesso uno di quelli mi insulta su tutti i social”. Che cosa avevi scritto? “Il concetto era: che dementi. Ma l’ho scritto peggio, parole brutte. Però solo uno si è incazzato, incazzato nero, se si può dire”. Si può. Ma il motivo della rissa non si è capito. “Una ragazza con cui è stato uno dei due ha messo un like a una foto dell’altro”.
Mi vedo comparire davanti tutto il decalogo, le cose che diciamo alle figlie sperando di salvarle dalla si spera scongiurabile futura relazione tossica e/o violenta: se uno ti chiede di non mettere un like, in nome dell’amore che nutri per lui, deve scattarti un allarme rosso nel cervello. Chiedo a Giovanni se era per questo che aveva commentato. “Ma no!”. Cioè? “No, dicevo solo che è da dementi menarsi così, fuori da scuola”. Ma tu con una ragazza ti arrabbieresti, se mettesse un like a un ex? “Non direi niente, ma rimarrei deluso, credo”. Un like non si mette a chiunque, pure a persone di cui non ti importa nulla?
“Sì, ma che c’entra”. Dalla generazione (la mia) che mette like distrattamente ovunque, anche a Dracula in persona, chiedo: “Hai una ragazza?”. “Sì”. Da quanto? “Ci siamo conosciuti al mare, due anni fa, andiamo nello stesso posto”. È andata così: la ragazza, Sara, aveva allora quindici anni, Giovanni sedici. “L’avevo vista due anni prima al corso di vela, ma io guardavo altre. Poi quell’estate lei a un certo punto ha cominciato a mettere like alle mie foto e ci siamo scritti”. Il like in forma buona ha prodotto la relazione. Come la vedi, questa relazione? “Non so, ora è così”. Pensi a voi nel futuro? “Voglio vederla anche domani, Sara, sì”. Giovanni ride. Prima hai avuto altre relazioni? “Sì, e anche lei. Io avevo già avuto due ragazze, due storie, e altre ragazze ma per pochi giorni. Sara un altro ragazzo”. Tutti e due avevano conosciuto il sesso prima su internet che dal vivo: “Video e foto, alle medie, tra la seconda e la terza”. Il parental control che mettiamo quindi non serve a evitare che ci si formi un immaginario erotico avulso dalla realtà, tramite siti porno? “Dipende, alcune immagini arrivano lo stesso per altri canali”. E questo non rovina il momento in cui poi si passa alla realtà? “Ma si sa che non è la realtà”. Gli adulti, i genitori di teenager più piccoli di te sono preoccupati. Giovanni rassicura: “Lì per lì lo fai per sentirti più importante, guardi i video con gli amici perché sei timido e non vuoi essere timido, ma poi capisci”.
Come ti vedi, Giovanni, tra dieci anni? “E che ne so adesso, magari lo sapessi. Mi vedo in posti diversi, a fare cose diverse”. E tra venti? “Tra venti mi vedo con qualcuno accanto e forse un figlio”. Al momento la giornata di Giovanni prevede, dice, soprattutto lo studio, anche se non studia tanto. Non riesci a concentrarti? “Insomma”. E poi? “Tennis ogni tanto, calcetto, e la sera andiamo davanti a un bar”.
Argomento alcol. “Bere si beve, ma non è che ci si ubriaca tutti i giorni, gli ubriachi qui sono i turisti americani che vedi in giro. Alle feste sì, mi capita di ubriacarmi, a volte voglio farlo per divertirmi”. Di che cosa ti ubriachi? “Vodka”. Nelle scuole medie si fanno conferenze e lezioni preventive anti-dipendenze. Te lo ricordi? “Sì, anche io quando andavo alle medie ci sono andato. Interessante. Ma poi le droghe girano”. Quali? “Canne soprattutto, cocaina, mdma. Ma dipende da come uno sta”. In che senso? “Se non capisci che qualcosa ti fa male, vuol dire che stai già male”.
2 febbraio 2024, Emma e Francesca
“Scusate, sono in ritardo”. Francesca arriva trafelata in motorino. Siamo davanti a uno dei licei romani noti per la questione occupazioni. Ci spostiamo in un bar poco distante. Nelle telefonate preventive, ho chiesto a Francesca di contattare un’amica che non la pensasse come lei, per poter parlare con le due ragazze insieme. Anche Emma ha diciotto anni. Sono amiche dalle medie. Una ha occupato, l’altra no. Una ha rischiato 5 in condotta e sospensione, l’altra no. Nel mezzo, lettere aperte dei docenti finite sui giornali e polemiche sui genitori interventisti. I genitori di Francesca sono intervenuti? “No”. Avresti voluto lo facessero? “Non so, penso sia più una cosa mia”. Al di là dei motivi che hanno portato a occupare, Francesca trova che le sanzioni siano “un esempio di autoritarismo: così la scuola diventa un luogo punitivo e non formativo”. Cosa chiedevate al ministro dell’Istruzione? “Il dialogo, per una scuola libera da ogni dinamica patriarcale e da ogni autoritarismo”. E quindi, tra le altre cose, chiedevano “la storia raccontata a partire dai protagonisti femminili”, i corsi di educazione sessuo-affettiva e lo sportello per consulenze psicologiche. Storia raccontata a partire dai protagonisti femminili. Sapete che cos’è la cancel culture? “Sì, ma nel nostro caso non c’entrava, non vogliamo riscrivere i libri dal punto di vita femminile, solo cambiare prospettiva”, dice Francesca.
“Io penso che non ci fosse bisogno di occupare, e che anzi con i professori che avevano accettato di dialogare si potesse fare un percorso interessante, anche sulle figure femminili, ma con loro”, dice Emma. Francesca non è d’accordo, “e comunque il ministero non ha aperto il dialogo”. “Ogni anno dite così e occupate, con ministri diversi”, dice Emma. Emma guarda i telegiornali e a volte legge i giornali di sua madre nel fine settimana, e legge le notizie sui siti. Si definisce “di sinistra, ma non come Francesca, cioè non vado ai cortei e alle riunioni eccetera”. Francesca legge notizie sui social e siti dei quotidiani (“non tutto, però, solo le notizie principali”). Si definisce “di sinistra e pacifista”. Parliamo della polemica sull’antisemitismo, della guerra in medio oriente e del 7 ottobre. Vi sembra ci sia stata asimmetria nel raccontare i fatti? “No. Gli israeliani rapiti e uccisi, le donne israeliane violentate sono un abominio, ma adesso devono cessare i raid, continuano a morire bambini, donne e uomini innocenti”, dice Francesca. “Io non vedo un problema di antisemitismo, ma è vero che delle donne israeliane rapite e violentate il 7 ottobre non si è parlato tanto, dopo i primi giorni”, dice Emma. Da che cosa dipende, secondo voi? “Non ci avevo mai pensato, in effetti non dovrebbe essere così, ma ripeto: adesso per prima cosa serve il cessate il fuoco”, dice Francesca. “Dipende dal fatto che poi la reazione di Israele è stata sproporzionata, anche se esiste il diritto a difendersi, e forse questo ha un po’ coperto l’orrore per il resto”, dice Emma. Litigate mai per questioni politiche, avete discusso perché una ha occupato e l’altra no? “Mai”, dice Emma. “Io sono un po’ testarda e volevo convincerla, ma no”, ride Francesca. Si conoscono da quando hanno undici anni, le due amiche. Chiedo di definire questa loro età quasi-adulta, rispetto all’adolescenza appena lasciata alle spalle. “Io ho molta ansia, ma mi sento più sicura. Prima facevo quello che facevano gli altri, mi sentivo male a non farlo”, dice Francesca. Che cosa farai dopo? “Giurisprudenza, voglio fare il magistrato”. Qualcuno ti ha ispirato in casa? “No, nessuno a casa mia ha studiato legge”. Emma invece ha capito da poco di voler studiare “marketing applicato ai Beni culturali”.
Andrà a Milano, dove ha gli zii. Per la prima volta da tanti anni le due amiche prenderanno strade diverse, dopo otto inverni e otto estati sempre vicine. “Un’amica resta amica anche da Milano, spero”, dice Francesca. “Mi sentirò un po’ strana, all’inizio”, dice Emma. “Ma, come diciamo sempre, magari conosco gente diversa e la faccio conoscere alle amiche di Roma. Anche ragazzi diversi”. Perché, vi siete stufate di quelli che conoscete? “Io sono stata lasciata un mese fa, dopo due anni, sono triste”, dice Emma. “Io sono uscita due mesi con uno che chattava con tutte, quindi basta. Non sono triste”, dice Francesca. “Non è vero, sei triste ma ti fa rabbia esserlo”, dice l’amica. Si allontanano sullo stesso motorino, sbattendo le teste l’una contro il casco dell’altra, vestite uguali, gemelle diverse.
4 febbraio 2024, Alice
Ci siamo sentite per telefono, per darci appuntamento: la voce mi sembra quella di una bambina, ma so già che Alice ha diciannove anni. Quando arriva, fatico a capire chi sia nella folla della piazza, anche se si era descritta bene: “Alta, bionda, piumino nero, jeans neri”. Ci sono varie ragazze alte in piumino nero, meno male che mi trova lei. L’ho contattata tramite una sua amica, figlia di una mia conoscente, che al mare, qualche mese fa, mi aveva raccontato questa storia, non lineare da molti punti di vista, per rassicurarmi preventivamente, in quanto genitore di teenager, sulla questione “dipendenza dal cellulare”. Partendo dalla fine, Alice il prossimo anno andrà a studiare marketing gestionale all’estero. E adesso studia, studia, studia: vuole prendere un voto alto all’esame di maturità. A volte non esce con gli amici se deve studiare, cosa che non aveva mai fatto. Perché prima di quest’anno, e per quasi quattro anni, Alice, dirà poi scherzando ma anche no, “ero la classica figlia che ti fa disperare”.
Quando ci incontriamo partiamo da qui: che cosa succedeva, e che cosa è successo poi?”. “Io non ho avuto traumi, eh, premetto”, mi dice. “Famiglia normale, genitori normali, neanche separati – che vabbè è normale pure quello. Tutto normale: mi seguivano, non ho fratelli quindi ero anche molto coccolata, viziata. Fino all’inizio della terza media ero normale pure io: studiavo, andavo in piscina, ero brava, mi vestivo come diceva mamma. Non so quando sono cambiata, forse d’estate, tra la seconda e la terza media, quando alcune amiche più grandi mi hanno fatto delle foto per scherzare. Da lì mi è partita la cosa delle foto”. “La cosa delle foto”, cioè postare foto su Instagram e video su Tik Tok, ossessivamente. Ma i tuoi non controllavano, non c’era nessun parental control? “Sì sì, all’inizio c’era il limite orario e il controllo delle app da scaricare, ma alcuni amici mi avevano insegnato come aggirare l’ostacolo”. Che foto pubblicavi? “Foto vestita da ragazza più grande, con pettinature diverse, truccatissima. Ero contenta per i like, più arrivano like più continuavo, ma avevo anche un po’ di angoscia, perché sotto sotto lo sapevo di perdere tempo”. A scuola se n’erano accorti. “Sì, perché già in terza media ho cominciato ad avere voti molto più bassi del solito, io che ero stata la più brava, ma non sapevano perché”. La giornata di Alice era questa: “Mi svegliavo e cominciavo: una foto o due. Poi a scuola a ricreazione un’altra, ma il pomeriggio ne postavo anche tre o quattro, in posa, e chattavo tutto il tempo con chi mi scriveva. Provavo a studiare la sera, ma non mi andava. Per me esisteva solo questo: foto e chat”. Sei mai uscita con qualcuno che ti scriveva, dopo averti vista in foto? Ti sei mai spaventata con qualche contatto? “In realtà molte persone le conoscevo già, anche i ragazzi, quasi tutti, almeno di vista. Erano amici di amici, così. Un paio di volte ci sono uscita, con due o tre di loro, ma non mi sono mai spaventata. Il problema era il tempo che buttavo”. I genitori prima si sono arrabbiati per i brutti voti, poi hanno provato a toglierle il cellulare, ma il clima era infernale. “Sono arrivata a urlare a mia madre: non sei più mia madre, perché ero arrabbiata”. Poi è sopraggiunta una specie di apatia. “Andavo sempre peggio a scuola, ero anche indisciplinata, la preside ha chiamato i miei, ma io me ne fregavo, dicevo di voler fare la modella”. Era vero? “No, lo dicevo tanto per dire. Ero come una drogata di chat”.
Un anno Alice ha rischiato la bocciatura, gli altri anni ha preso dei crediti, ma, dice, “non mi importava. Era questa la cosa brutta: non mi importava niente. Stavo tutto il giorno buttata sul divano con il telefono”. C’era però un ragazzo reale: “Uno peggio di me, zero studio, solo social, pure risse la sera nei locali, a volte”. Il ragazzo è stato bocciato, il padre gli ha cambiato scuola. Fine della storia. “Meglio così, alla fine”. Pensavi a cosa fare dopo? “No”. Poi, dal nulla, un giorno, in treno, dice Alice, “ho visto una che si faceva selfie in continuazione, come me. Non si rendeva conto di niente. C’era una signora anziana che voleva sedersi, niente. I turisti con duemila borse in bilico. Niente, lei a fare selfie. ‘Sembra scema’, ho pensato. Ma è stato un attimo, per mesi per me non è cambiato nulla. Qualcosa però doveva essere scattato”. In primavera Alice si è cancellata dai social. “Ora li ho riaperti, ma li uso in modo diverso”. E ha cominciato a studiare, come una matta. “Sento che devo recuperare”. Che cosa? E per fare cosa? “Cose non studiate che mi serviranno, credo. Voglio fare la manager nel turismo o nella moda: alberghi, ristoranti, catene, grandi marchi”. Dice Alice che gli amici la prendono in giro: “Ferragni dei poveri”. Ci salutiamo. “Vado a inglese, non lo so ancora bene come dovrei”.
5 febbraio 2025, Alberto, Ahmed, Marco
I tre ragazzi che devo intervistare mi vengono incontro davanti alla fermata della metro, in un quartiere molto popolato di Roma sud. Li ho trovati tramite un amico docente. Alberto e Ahmed hanno 18 anni, Marco ancora 17. Frequentano un istituto tecnico industriale, due sono nella sezione di informatica, l’altro nella sezione di meccanica. Alberto ha capito che vorrebbe proseguire gli studi, ingegneria informatica; Ahmed vuole lavorare nel negozio di elettronica gestito da un parente e poi magari mettersi in proprio; Marco vorrebbe un impiego “nell’impiantistica”. Non ne capisco molto, mi autodenuncio. “Progettare, far funzionare, riparare impianti”, spiega Marco. Ahmed è nato in Italia da genitori tunisini, suo zio è in Italia da trent’anni. “Il negozio non è suo, ma fa tutto lui, da anni. A me piace il contatto con le persone, ho già lavorato d’estate qualche mese”. Prima di cominciare le superiori, Ahmed ha vinto molte gare di nuoto: “Ma non ho mai voluto fare il nuotatore”. Alberto si è iscritto al Tecnico industriale pensando di andare a lavorare dopo la maturità, ma adesso ha cambiato idea: “Ho preso voti alti, mi piace studiare più di quando ero più piccolo, voglio provare a iscrivermi a Ingegneria”. I genitori – lui impiegato, lei infermiera – sono d’accordo. “Hanno venduto da poco casa di nonno, una parte dei soldi servirà per mio fratello e una parte per me, per gli studi e più avanti per quando avremo una famiglia”. In che tipo di famiglia vi vedete? “Io non riesco a immaginare, adesso, ma credo una moglie e due o tre figli”, dice Ahmed, i cui genitori sono “musulmani non integralisti”, dice. Parlate di quello che sta succedendo in medio oriente, a casa? “Quasi mai. Ma è anche che io non mi interesso tanto di politica. Con mio padre parlo di scuola, uscite, ragazze”. Ti dà consigli? “Sì, a volte, per il futuro, non per le ragazze”.
Marco è il più piccolo dei tre, ma ha una fidanzata da due anni: “A me piace stare tranquillo, anche a lei. E’ bello sapere che c’è questa persona che ti vuole bene. Non siamo gelosi, però, ognuno esce anche con i suoi amici e amiche e ci vediamo anche in gruppo”. Alberto non vuole fidanzarsi, “ma non per frequentare più ragazze in una volta”. Qualche tuo amico lo fa? “Sì, e anche le donne lo fanno. Non c’è niente di male, se sono d’accordo tutti e due in una coppia, solo che a me non va. Però non mi va neanche di sentirmi chiuso in una relazione, adesso. Conosco una, vediamo come stiamo, non la devo vedere e sentire tutti i giorni per forza. Ma magari poi cambio idea”. Che cosa può farti cambiare idea? “Non si può dire finché non ci sei dentro”. Vi siete mai innamorati, secondo voi? “Forse due volte”, dice Ahmed. “Una, ma ero piccolo”, dice Alberto. “Adesso”, dice Marco. Qualcosa vi fa paura? “Perdere gli amici, restare solo”, dice Ahmed. “Il giudizio degli altri”, dice Alberto. “Non riuscire a fare quello che voglio, mi viene l’ansia”, dice Marco. Tra poco i tre andranno a vedere una partita di calcetto. Sabato invece c’è una festa. Casa o locale? Risponde Ahmed: “Una specie di locale, ma è anche uno spazio aperto, se fumi puoi stare fuori, dentro c’è la musica”. Sigarette, canne? “Tutto, ma non è un giro tossico”. Dico che a me a volte paiono potenzialmente un po’ tossici – e un po’ alcolici – giri di ragazzi più piccoli: di tredici, quattordici, quindici anni. O forse è una mia paura? “Dipende”. Di nuovo quel “dipende” di cui parlava Giovanni, due giorni fa. Mi allontano sperando che si diffonda anche più precocemente questa sorta di saggezza auto-regolativa diciottenne.
6 febbraio 2024, Giulia
Giulia ha 18 anni. Del Covid ricorda “l’incubo di trovarsi al primo anno a studiare latino e greco a distanza”. Il Covid, per chi ha oggi 18 anni, è stato la linea di confine tra il prima e il dopo. “Prima ero una bambina, poi una ragazza, in mezzo tutti quei mesi in casa, proprio nel periodo in cui si dovrebbe cominciare a uscire”. Dici “lockdown” e Giulia racconta il film dell’orrore del marzo 2020, prospettiva cameretta: “Non ci potevo credere, non avevo neanche capito, all’inizio. Che cosa vuol dire che non si può andare al bar, a casa della mia amica o in autobus? chiedevo a mia madre”. E i tuoi amici? “Abbiamo cominciato a scriverci in chat, quel giorno, o forse era sera, insomma quando si è capito che chiudeva tutto. Io avevo preso una prima pagella del quarto ginnasio buona, a parte 5 in matematica, ed ero dispiaciuta perché volevo andare a scuola: gli amici nuovi, mi piaceva un ragazzo del terzo anno, ero contenta. Per me il lockdown è stato l’inferno. Ero nervosa, mangiavo schifezze”.
La scuola a distanza funzionava? “All’inizio no, poi ci siamo abituati, ma sento che ci è mancato qualcosa. L’anno davvero normale è stato il terzo, perché anche il secondo anno c’è stato il lockdown, anche se meno duro. Poi adesso però penso: se abbiamo superato questa cosa, possiamo superare tutto”. Siete cresciuti più in fretta, secondo te, stando in casa tutto quel tempo? “Sì, perché quando siamo tornati a scuola in presenza era come svegliarsi dalla favola della Bella Addormentata, dove dormono tutti cent’anni. Avevamo voglia di fare tutto, anche di studiare”. Giulia sorride: “Adesso un po’ meno, anche se devo pensare al futuro”. Idee? “Voglio lavorare nella comunicazione: giornalista o creatrice di contenuti. Mi iscrivo a Scienze della comunicazione, poi vediamo”. A Roma? “Sì, mi piace viaggiare ma voglio studiare qui, e ho amici e ragazzo qui”. Il ragazzo di Giulia, Andrea, è già all’Università, ha 22 anni. “Io preferisco stare con uno più grande di me, i miei compagni di classe sono infantili e permalosi”. Permalosi? “Si sentono sempre attaccati da chiunque”. C’è di mezzo la questione “patriarcato”, come dicevano Benedetta e Giorgia? “Non ci avevo mai pensato”. E Andrea? “Andrea non è permaloso”.
Dice di essere contenta, Giulia. Innamorata non lo sa. Dice che le pareva di essere più innamorata con il ragazzo precedente, “ma poi ho capito che di lui no, non lo ero”. Che cosa ne pensi del fatto che molti ragazzi e ragazze, qualcuno già alle medie, conoscano il sesso sui social, magari pensando che il catalogo online del porno sia la realtà? “Ci deve essere qualcuno che ti spiega che non è realtà: per me è stata mia madre, e la ringrazio, ma ho amiche e amici che si sono trovati a dover capire da soli”. Sei religiosa? “No”. Scendi in piazza, e se sì, per cosa? “Quando ero più piccola per l’ambiente, facevo i cortei ‘Fridays for future’. Ora no”. Perché? “Sento parole vecchie, ogni anno gli stessi slogan. Preferisco informarmi meglio da sola”. Come ti vedi, da fuori, a diciotto anni, e come vedi la tua generazione? “Siamo fragili, ma non deboli”. In che senso? Giulia sorride: “Ci vedete magari fare casino, cambiare idea. Ma noi lo sappiamo, secondo me, che in qualche modo ne verremo fuori”.