Una manifestazione contro i vaccini - foto via Getty Images

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Chi non accelera è perduto: viaggio tra i misteri e i piaceri del complottismo

Antonio Pascale

Abbiamo plasmato il mondo con la tecnologia, ma siamo ancora le stesse scimmie presenti sulla Terra durante il Neolitico. Così il progresso scatena fantasie strane. Divertenti, sì, finché non colpiscono la democrazia

Un discreta percentuale di noi umani tende verso il terrapiattismo, si sofferma sugli alieni, cede a Trump e a Putin. Sempre più spesso si sentono persone dichiarare: credo solo a quello che vedo. E aggiungono in chiosa: siccome io sono io e voi non siete niente, io ho ragione, voi no. Anche perché voi siete vittime delle narrazioni dei Poteri forti. Noi invece siamo la controcultura, la contro narrazione, i cavalieri che si battono per la verità. C’è il rischio che peggiori? Temo di sì, per come siamo fatti (sulla base dei pilastri che fondano la natura umana) non ci possiamo concedere troppe illusioni su questo fronte. Non ci credete all’andazzo? Certo, abituati come siamo ad analisi raffinate, alate, eteree, agli intellettuali di riferimento, alle preziose lezioni di storia, di filosofia, di scienza, tra l’altro tutte tenute nei posti giusti, composti e ben illuminati, strafatti di convenzioni culturali, obnubilati dalla cronaca spicciola e politica, non ci rendiamo conto della tettonica delle placche, ovvero di quei movimenti lentissimi quanto inesorabili. Non badiamo, insomma, alle brutali cose terra terra che la nostra natura esprime da sempre e inesorabilmente. Ma la nostra indole, la natura umana non era destinata a grandi imprese? Come siamo finiti al terrapiattismo, agli alieni, Putin e Trump? Poi io aggiungerei anche Padre Pio, ma solo per la tendenza di alcuni attuali stigmatizzati italiani a vedere in Putin e Trump grandi e per me inspiegabili riferimenti. 
 

Ovviamente, prima di affrontare il destino di noi umani, sarebbe preferibile chiarire, così per sommi capi, di cosa parliamo quando parliamo di natura, insomma di quell’insieme che ci contiene e ci determina. Cosa c’è di meglio di Massimo Troisi (1953-1994)? Mica lo considerate solo un comico? Se sì, sbagliate. Era un filosofo prestato alla comicità. Aveva preso dai migliori filosofi la vena ironica, gentile e dissacrante e anche un modo di ragionare, apparentemente contorto e affannoso, con tanto di balbuzie che tuttavia alla fine illuminava aspetti della nostra natura. Poi partiva dalle cose terra terra. San Giorgio a Cremano, suo paese d’origine, tra l’altro, questo aspetto lavico e terraneo ce l’ha. Troisi, come George Carlin (1937-2008), altro comico filosofo, tutt’oggi insuperato per profondità riflessiva (attraverso la comicità), discuteva spesso con Dio (e con i santi: questo è tipico della cultura napoletana, io stesso sono ateo ma non tocco mai i santi), contestandogli non solo le proibizioni religiose che colpendo il corpo mortificano l’esperienza della vita, ma anche i risultati della sua creazione. In un celebre monologo, Troisi parla con un raggio di luce, apparso improvvisamente in quinta, ovvero Dio stesso, e gli rinfaccia di aver creato una natura non perfetta, di essersi distratto. Vedi l’ippopotamo, ad esempio. Non è un bel prodotto, combinato in quella maniera, grasso, enorme e costretto a stare sempre nell’acqua fetente. Per non parlare dell’elefante. Il cui naso è frutto di un evidente sbaglio: la proboscide altro non è che un serpente venuto male e attaccato al posto del naso. Se fossimo meno attratti dalle rassicuranti etichette, potremmo utilizzare, oltre a Giacomo Leopardi, anche Massimo Troisi per introdurre un corso di evoluzione darwiniana, seminario fondamentale, non solo per eliminare gli onnipresenti istinti creazionisti. Se capiamo come funziona la natura, poi possiamo, per differenze e somiglianze, capire chi siamo e che posto tendiamo a occupare nel mondo. 
 

Dunque, la natura è un assemblaggio di fili, più simile a un garage disordinato, pieno di pezzi sparsi, buttati qui e là a caso, che a un giardino all’italiana e alla francese con quelle loro idee di geometria e di forme che rimano l’un con l’altro. Insomma, siepi potate bene – poi non vorrei avanzare nessuna polemica, ma quei giardini così ben tagliati, vuoi per l’acqua che ci vuole, vuoi per il lavoro, quei giardini sono insostenibili ormai: meglio il disordine. La natura è più somigliante a un laboratorio che a un giardino, un luogo dove i serpenti prendono il posto delle proboscidi (direbbe Troisi) e trovano il modo di adattarsi per un periodo di tempo per poi decadere qualora l’ambiente mutasse. Poi se davvero fosse un giardino, come certe immagini suggeriscono, tipo quelle dei libretti del catechismo o le brochure alla Mulino bianco, allora quella natura non sarebbe accogliente: certo, avrebbe una sua bellezza, ma la bellezza mica salva il mondo. La bellezza esclude il mondo, non lo salva. Volete credere all’ingegnere Teodoro Dostoevskij? Dite che sono citazioni che in un salotto per bene si devono fare, altrimenti andate in emorragia di like? Pensate ai templi greci del tempo che fu. Erano così armonici e perfetti che le cerimonie si svolgevano fuori: la bellezza la guardi, non la frequenti. Dobbiamo a quei naviganti (anche ma non solo) euboici che di odissea in odissea hanno costruito le prime colonie greche, ecco solo allora le misure del tempio sono cambiate, la scala si è aperta, così hanno accolto gli oranti più che respingerli.
 

Quindi la natura non è una chiesa silenziosa e magnifica, ma un unico grande, disordinato, scassato laboratorio, pieno di spazzatura, che sì, per parafrasare il maestro, va dai primi protisti a Madre Teresa. Possiamo certo discutere sulle regole di base che hanno generato la vita nell’universo, ma tanto non se ne ricava niente. Come mi disse un vecchio scienziato, prete, gesuita: certo che il Big Bang è una teoria affidabile, tra l’altro bellissima, certo che le stelle sono tante, milioni di milioni, ma le regole di tutto questo le ha fatte Dio: come dire, più scopriamo più retrodatiamo l’intervento divino, ma vabbè, in una storia di miliardi di anni cosa vuoi che siano le poche ore della storia umana? Tuttavia, possiamo retrodatare l’intervento divino ma non certo le leggi darwiniane che regolano l’assemblaggio della vita, insomma, dobbiamo concordare sull’idea di natura. Come Troisi ricordava, come Leopardi nell’indifferenza di tutti ha gridato per anni, la natura, dicevamo, non è perfetta, anzi, tutt’altro, vedi l’ippopotamo e mettiamoci pure noi esseri umani. Quindi, se ci guardiamo dall’alto, invece dell’uomo vitruviano, gioia e dolore del discorso ecologista, le nostre figure sono più somiglianti a fili sparsi nel garage. Siamo povere creature a forma di filo, affannate nel tentativo di collegarsi ad altri fili, per meglio funzionare, creando così nuovi spazi e nuove trappole (per l’abbondanza di fili) da cui dobbiamo uscire utilizzando altri fili. Insomma, il concetto è questo: intrappolati dai fili cerchiamo vie di uscita, creiamo nuovi laboratori che all’inizio ci confortano poi ci fanno disperare perché ci rendiamo conto che per seguire i nostri migliori sogni abbiamo costruito trappole, incubi, dunque creiamo soluzioni, andiamo avanti e la storia, con sfumature imprevedibili, si ripete. Non ci sarebbe niente di male ad evocare l’eterno ritorno, solo che siamo prossimi ad una accelerazione che disturberà quel poco di logica che utilizziamo. Il sogno di Platone di arrivare alla felicità tramite buone, dunque logiche, deliberazioni sta collassando.
 

Il collasso sta facendo implodere l’occidente, la fiducia nella democrazia, nella scienza, nell’umanesimo, nella collaborazione tra le menti. Di contro sta salendo il torbido geyser del romanticismo d’accatto, di Putin, dei terrapiattisti, e scusate, sì, pure di Padre Pio. L’accelerazione è roba di questi ultimi decenni e turba la nostra natura che è roba degli ultimi milioni di anni. Facciamo un esempio? Noi tutti, terrapiattisti inclusi, che facciamo le scorribande giornaliere sul World Wide Web, noi che usiamo il cellulare, non ci chiediamo come diavolo faccia la sua memoria a contenere le foto. Però alcuni di noi dicono che la terra è piatta, parlano di tecnologia aliena e di alieni che si fidano di Putin e non dell’Amerika. Ragionamenti che il complottista Pier Giorgio Caria produce nelle sue conferenze, tra una verità scioccante e un’altra, come “la terra è cava ed è abitata”. Gesù, per esempio, abita all’interno della terra, in un posto chiamato Eldorado (che per me, l’Eldorado è una bellissima storia, “Paperino contro l’uomo d’oro”, 32 pagine, scritta e disegnata da Carl Barks il 31 gennaio 1952) e ogni tanto sale su a farsi un giro (ignoro con quali soldi compri al supermercato, ma va bene). Ebbene perché tendiamo a credere alle “ipotesi alternative” ma ignoriamo la tecnologia messa in atto per costruire un microchip?
 

Voglio dire che la conoscenza di questa tecnologia, ottenuta dopo secoli di studio, di formule, di scoperte, dovrebbe respingere in toto le ipotesi sulla terra piatta. Un microchip sul lato maggiore contiene 50 mila celle, impilate l’una sull’altra, e 40 mila su quello minore. Ora, la singola cella riesce a intrappolare gli elettroni in diversi stati di energia (ogni stato energetico sono tre bit di informazioni e dunque la somma fa il pixel) e ogni stato deve rimanere tale, perché se sale o scende perde bit e quindi pixel, e poi la diretta social per parlare della terra piatta non la fai. E comunque la cella nella sostanza ha dei muri circondati da materiale dielettrico e questi muri sono abbastanza alti da impedire quando è necessario il salto da una valle all’altra. Parliamo di muri e di campi elettromagnetici che definiscono la probabilità che le nubi di elettroni scavalchino o meno i muri della cella. Muri altissimi per un elettrone ma infinitamente piccoli per noi, tanto è vero che sono larghi otto nanometri e costruiti miliardi di volte per ogni chip. Capite che senza studi matematici, studi quantistici, ingegneristici, nanomateriali, senza l’insieme delle conoscenze sperimentate, testate, mai riusciremmo a costruire una memoria digitale (meno male che ogni tanto qualche bravo divulgatore fa di tutto per spiegarcelo)
 

Questi stessi studi dovrebbero esaltare la conoscenza e invece sono usati per realizzare video dove si afferma che la terra è piatta, e dunque e intrappolare gli umani nella sfera della micromegalomania: io sono io e voi no, voi non vedete niente, io tutto, io sfuggo ai complotti, voi ci siete dentro, io sono vivo voi siete morti.
 

Non so se il paradosso è palese. Voglio dire che i terrapiattisti realizzano foto o video dell’orizzonte dicendo: vedete è piatto, dunque non c’è curvatura, ecco la foto che lo prova. Ma la stessa esistenza di quella foto ottenuta grazie alla tecnologia di cui sopra dimostrano che la terra è uno sferoide, perché su una terra piatta, senza gravità, con un sole locale che non irradia energia, esisterebbero altre regole, e gli elettroni non si farebbero intrappolare. Eppure, una parte sempre più numerosa di noi umani, usa questa tecnologia per dire che la terra è piatta o cava e dentro ci sono gli alieni che vanno e vengono e pure Gesù che di tanto in tanto si fa un giro insieme ai suoi alieni per parlare con Putin e Jorit e prendere posizione contro Biden, e contro gli Ogm anche – che tra l’altro Putin ha vietato in quanto cibo per smidollati. Il sogno della società tecnologica, più sicura, migliore, benestante, il mondo di “Masterchef” con le cucine piene, il mondo dove le uova delle galline siano emendate dalla salmonella e i finocchi non siano fertirrigati con il pozzo nero pieno dei nostri escrementi, questo mondo da sogno sta producendo l’incubo.
 

Chiamiamola dissonanza (ma ci arriviamo): ogni volta che il mondo si complica un po’ di più e i muri alti otto nanometri di diffondono, di contro cresce il desiderio di semplificare, di dire io, e io che sono io non mi faccio dire da nessuno che la terra è sferica, perché credo solo a quello che vedo e quello che vedo è tutto, e mi basta. Non vale questionare sull’analfabetismo di ritorno, nemmeno rimpiangere le vecchie e care lezioni di Canfora sulla democrazia dell’età di Pericle, tantomeno leggere i dialoghi Platonici tutti tesi a insegnare cos’è un buon ragionamento. No, non è questo purtroppo. Il punto è che ora costruiamo muri alti otto nanometri, ma fino a poco fa coltivavano il mais sull’altopiano (come il caro buon Claudio Lolli cantava accompagnato dallo splendido sax contralto di Danilo Tomasetta): questa è la verità! Il divario è spaventoso, e si è creato velocemente, non abbiamo avuto il tempo di adattarci. Siamo rimasti i foraggiatori di una volta: la nostra capacità di giudizio, di elaborazione dati, di visione, in media è ancora lì, in un bosco, in una savana, in una radura, e la nostra capacità di elaborazione dati, in media, serve ancora a foraggiare e al limite a cacciare. Questo ancora facciamo, ci aggiriamo tra i campi, rivolgendoci al cielo preghiamo un dio che faccia piovere o scacci via le mosche che non ci fanno dormire. Poi, se siamo bravi, in momenti privilegiati e casuali, unendo le menti, cantiamo com’è profondo il mare e lo sfidiamo, costruendo muri alti otto nanometri. 
 

Ma sono casi eccezionali, in genere la nostra natura ci inganna, crediamo o non crediamo all’uomo vitruviano? In questa posizione privilegiata dove l’uomo è perfettamente racchiuso in un cerchio armonico, poi è facile dire che il sole tramonta o sorge, quindi gira, lo vedo, è così, ti faccio pure la foto col cellulare. Questi sono i nostri fili, ed è ancora un mistero come abbiamo fatto a unirli per piantare insalate sulla stazione spaziale. Ma tant’è. Del resto, se noi facciamo una veloce ricognizione sulla storia della nostra natura possiamo solo sorprenderci dell’accelerazione degli ultimi decenni, perché la storia della natura umana è noiosa. Noiosa perché per millenni siamo stati schiavi di malattie, carestie, cattiva alimentazione e straziati dalla morte prematura dei bambini. Di bambini nel Neolitico ne morivano tantissimi, uno su tre, uno su cinque, ma il numero ai primi del Novecento era ancora quello. L’aspettativa di vita nel Neolitico era di 35 anni, mentre ai primi del Novecento, in alcuni quartieri del Napoletano, nelle zone coltivate a mais e pellagra, nelle aree straziate dalla malaria, la mortalità infantile erano ancora uno su tre, uno su cinque, e l’aspettativa di vita intorno ai 35 anni. 
 

Quando Napoleone smise di scorrazzare per l’Europa, dopo aver fallito e dopo avere anche regalato ai suoi soldati un po’ di terre e qualche esercizio commerciale, come le tabaccherie, insomma alle fine delle campagne napoleoniche al mondo c’erano un miliardo di persone, di cui solo il 15 per cento leggeva e scriveva, il restante erano poveri analfabeti. È sempre stato così, per millenni. Certo con alti e bassi, momenti floridi e cadute tragiche, ma la media quella era. Non stupisce che sia Hobbes con il “Leviatano” (1651), sia Jean-Jacques Rousseau con il “Discorso sull’origine e i fondamenti della diseguaglianza tra gli uomini” (1754), esaminando il cammino dell’uomo hanno preferito esprimersi con parabole, per meglio farsi capire. Hanno inventato una origine fasulla, uno stato di guerrafondai poi via via civilizzati o un regno di pace e di armonia che la civiltà, l’agricoltura soprattutto, avrebbe poi corrotto. Insomma, con una partenza così il percorso si racconta più facilmente. Ovviamente né Rousseau né Hobbes si intendevano di giardini e dei suoi abitanti, poi se la facevano con principi e principesse, mangiavano discretamente, ma vabbè, un contributo alla discussione l’hanno dato. Oggi però queste storie sono noiose, hanno implicazioni politiche e soprattutto non sono vere: non siamo né angeli caduti, né diavoli riappacificati. A parte che si siamo organizzati in diversi modi, faccio per dire: l’agricoltura non segnò l’origine della proprietà privata, anzi le prime società agricole erano prive di ranghi e molte città dell’antichità si reggevano con belle e anarchiche organizzazione dal basso, insomma senza principi e re. Sono false anche perché non considerano la fisiologia della natura, come funziona il laboratorio e nemmeno come noi operiamo, e cioè colleghiamo dei fili per creare nuove luci, poi le luci ci accecano, cadiamo in depressione, ci lagniamo e andiamo avanti, creando nuovi collegamenti. 
 

In questi giri è facile che i sogni si trasformino in incubi. È accaduto nella seconda metà del Novecento, quando con tre innovazioni in agricoltura (chimica, meccanizzazione, genetica) abbiamo mangiato di più e meglio, con i vaccini e gli antibiotici, con i bagni piastrellati e le fognature abbiamo realizzato un sogno: abbattere in gran parte del mondo la mortalità infantile. Dunque, questi bambini sono cresciuti pasciuti (e spesso in sovrappeso), pieni di desideri e opportunità e ora sono diventati otto miliardi e impattano sul pianeta. Ma poi siamo otto miliardi di individui alle prese con nuovi fili e spazi prima inesistenti. In questi luoghi spaziosi siamo tutti intenti a cercare valori dentro di noi: non mollare mai, non ti abbattere, non ti fare tarpare le ali: in altre parole sii un egomaniaco. C’è poco da contestare, noi stessi non abbiamo certo voglia di passare la vita a fare i contadini o sottoservizio o sottopadrone, del resto un giornale come Repubblica scrive long form sul tema: ero un manager danaroso e ora faccio il pastore e sono felice, ipotizzando così la possibilità di una second chance, cosa per niente facile né scontata nelle società tradizionali. Poi certo, non ci rendiamo conto che la seconda scelta è possibile sono in regime di abbondanza, altrimenti fai il pastore e basta e se capiti sotto la maestria di Leopardi diventi errante e riflessivo, sennò fai la fine di mio nonno, che si limitava più semplicemente a continuare il lavoro dei suoi avi e cioè pascere le pecore. Tutti noi, otto miliardi di individui, spronati da Repubblica ci ripetiamo come un mantra: segui i tuoi sogni, non permettere a nessuno di dirti che quello che vedi, sia esso un sogno o l’assenza di curvatura, non vale
 

Ne usciremo? Creeremo nuove soluzioni e nuovi habitat? Più consoni, magari spaziali? Qui, le interpretazioni si sprecano, ma forse più utile sarebbe andare sul pratico. Il mondo odierno è fondato su quattro pilastri: ammoniaca, cemento, acciaio e plastica (ci dice Vaclav Smil), e tutti questi pilastri per ora necessitano di fonti fossili che bene non fanno. Noi umani pure siamo fondati su quattro pilastri. I quattro pilastri rivelano le nostre potenzialità e tutte le debolezze. Sono questi: sintomi: se ci ammaliamo tendiamo a espellere la fonte dei nostri guai, quindi non siamo così forti, quando vomitiamo o abbiamo attacchi di diarrea non offriamo un bello spettacolo, roba che un pittore rinascimentale attratto dall’armonia non prenderebbe in considerazione. Compromessi: altro non siamo che un continuo compromesso, se cambiamo ambiente ci sono delle conseguenze. Quando camminavamo a quattro zampe il mal di schiena non ci veniva, poi certo abbiamo alzato le spalle e gli occhi al cielo, stiamo imparando a coltivare oltre al mais sull’altopiano le insalate in microgravità, e tutto questo pesa così tanto sulla nostra schiena che abbiamo fatto la fortuna degli osteopati. Precursori naturali: cioè, non siamo liberi pensatori, andiamo avanti per pregiudizi. Mismatch: dissonanza. Il pilastro più problematico. Su cui ritornare: dicevamo, ci sono muri estremamente piccoli per noi ma altissimi per gli elettroni. La nostra mente collassa, non ce la fa, l’ambiente è mutato troppo velocemente, non ci siamo abituati. Dunque, il mondo è diventato una grande chiesa che va da Red Ronnie a Luciano Canfora ed Elon Musk. Tutti uniti da bias e fallacie ovunque.
 

Ovviamente Red Ronnie ne è pieno, anche se questa pienezza è la fonte del suo successo in rete, pure Elon Musk non scherza ma nemmeno noi, frequentatori dei festival giusti, ne siamo immuni: il laboratorio è troppo complicato e noi troppo semplici. Riepiloghiamo: per seguire i nostri sogni, abbiamo creato un laboratorio nuovo, un mondo nel quale chi non accelera è perduto. Eppure, già per nostro conto sconocchiamo, pensate cosa succede di fronte alla complessità crescente. La cosa più facile è che rinunciamo a ragionare, anche perché invecchiamo e non abbiamo abbastanza energia né vigore. La rinuncia assume varie tonalità, c’è chi si abbandona al mistero, chi riscopre la vita semplice e con i soldi della buonuscita capitalistica va a pascolare, sperando ovviamente che il suo vicino non lo imiti, altrimenti se prima eravamo in uno a ballare l’hully gully, adesso siamo in due e via dicendo, e l’ambiente diventa di nuovo stretto e complesso e poi sono casini. Ma questi in fondo sono gli scenari migliori. Andare in esilio o abbandonarsi al mistero della fede (qualunque essa sia) a parte che è il modo migliore per potenziare un io debole (gli dèi sono con me), sono pratiche così ancestrali e umane che nemmeno andrebbero commentate. Ma noi costeggiamo il peggiore scenario. Siccome non ci capisco più niente, ricomincio a credere esclusivamente ai miei sensi, a dare valore solo a quello che ho dentro. 
 

Ecco il nuovo incubo: rischiamo di coltivare otto miliardi di sconsiderati artisti romantici, convinti che i valori siano dentro di noi. Il romanticismo ci ha dato alcuni concetti memorabili, come “va dove ti porta il cuore”, artisti eccezionali come Ludwig van Beethoven, viandanti nella nebbia che scalano le vette e vedono il mondo sotto altra prospettiva, ma pure i terrapiattisti, Trump e Putin, gli alieni, tutte persone che lottano per affermare che solo quello che vedono i nostri occhi esiste. Noi – dicono –  conteniamo moltitudini che i poteri forti mortificano, dunque con queste premesse viene meno la fiducia verso il prossimo, anzi il prossimo di volta in volta diventa il rappresentante della scienza, della finanza, del capitale, delle narrazioni convenzionali. Ci hanno fatto credere che la terra sia tonda – dicono i terrapiattisti – e così facendo ci hanno nascosto l’esistenza di altri mondi al di là della barriera di ghiaccio.  Lo so che fa ridere, lo so. Lo so che si potrebbe camminare fino a vedere la barriera di ghiaccio, lo so che si potrebbe noleggiare un pallone aerostatico con su una telecamera, lo so che ci si potrebbe domandare: vabbè, ma chi è il primo che ha detto: ok, la terra è piatta, ma noi diciamo che è tonda, dai, dillo pure a tuo cugino che tenesse il segreto. Non è questo il punto. Loro stanno di volta in volta avvelenando i pozzi. Tutto quello che vediamo è falso, a cominciare dalla gravità, anche il sole lo è, il mondo è una matrice, mentre noi siamo i soli umani reali a esistere, per questo, in nome dell’umanità, ti invitiamo a essere te stesso, a ribellarti dal grande inganno. Capite la forza della negazione? C’è il sole in cielo? No, quello non è il sole e non scalda: se ci credi sei un cretino, ti fai ingannare. Ma ci sono le stagioni! No! In realtà c’è un nucleo freddo e uno caldo, la terra gira e quindi è per metà calda e metà fredda. Ridete.
 

Si, pure io, ma loro di negazione in negazione non fanno altro che costruire fascinose storie del complotto. Abbiamo una tendenza innata a fidarci dei nostri sensi e i nostri sensi, da sempre, sono facilmente suggestionabili, basta partire da una storia rassicurante con quei bei tre atti che scalano le classifiche, da un fantasy, da un horror, basta creare un bel mostro per ritrovarsi in una storia del complotto, di quelle che ci fanno credere di essere i predestinati, micromegalomani con un solo obiettivo: rivelare il grande inganno. Capite che forza? I terrapiattisti non devono dimostrare niente, nemmeno fare lo sforzo di applicare le loro teorie per migliorare il mondo: devono negare i fatti, in modo da potere accogliere tutti i fatti a seconda dell’aria che tira, essere tutto e niente, troppo numerosi per dire un semplice sì o un no e verificarne l’effetto. Per vincere bisogna puntare alto. Se gridi “fuggi dal grande inganno”, se avveleni questo e quello, poi dici che la Xylella è creata da una multinazionale, poi trovi il cantante che ti segue, il sindaco, l’ecologista che si lega all’albero, passi per gli Ogm, proclami la bellezza della natura e del cibo naturale. Così facendo Trump e Putin trovano la strada spianata: si pongono alla testa al corteo.
 

Voi dite che è esagerato? Abbiamo gli anticorpi? La scienza, le lezioni di umanesimo, il senso di empatia? Magari. Sono elementi fuggevoli, la vita scorre, la memoria cede, siamo sbilanciati, vaghiamo in branco alla ricerca di un punto fermo, e più il mondo si complica più ci stanchiamo di testare con la giusta episteme i fili che lo collegano. Finiamo per convenienza e risparmio energetico, anche per stanchezza, a credere che la terra sia come come noi, al centro di tutto. E quindi alle domande profonde, tu luna in ciel dimmi che fai, preferiamo dirci che la luna è un disco piatto che qualcuno accende: non dobbiamo dimostrare niente, solo negare tutto e dichiarare che l’impossibile è possibile: sembra una pubblicità innocua ma rischia di diventare un guaio serio.

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