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Nel limbo del desiderio: perché la maternità non è una questione di scelta
Per la prima volta nella storia in Europa assistiamo a un calo demografico "volontario". Lasciando da parte i dati scoraggianti, il problema resta nella nostra cultura della procreazione e nelle condizioni sociali in cui ci troviamo
La regina Carlotta, nel prequel di Bridgerton, la serie Netflix dedicata alla corte d’Inghilterra di fine Settecento, entra furiosa nel salone dove ha riunito i figli ormai adulti. “Non vi do più tempo, mi dovete dare un erede legittimo, basta voi maschi che sapete fare solo bastardi, e voi ragazze dal ventre inaridito siete ormai inutili. Io e vostro padre eravamo solo in due, e di figli ne abbiamo fatti quindici! Datevi da fare”. Scuote l’altissima parrucca di riccioli grigi e se ne va sbattendo la porta. Storia vera anche se romanzata quella della duchessa tedesca Carlotta di Meclemburgo-Strelitz, che andò in sposa a 17 anni al ventiduenne Giorgio III, detto “il re pazzo”. L’ansia dell’erede era un must delle famiglie regali o comunque nobili. Ne andava della sopravvivenza della dinastia, della ricchezza e del potere. Preoccupazione passata anche alla borghesia terriera e mercantile, come testimonia la letteratura ottocentesca. Madri in fibrillazione per trovare marito alle troppe femmine, padri preoccupati a far tornare i conti degli averi. E anche per il popolo i figli erano necessari: quelli che sopravvivevano all’alta mortalità infantile erano indispensabili per l’economia familiare. In campagna come in città. Sono i ragazzi di Dickens e di Zola. Proletari di tutto il mondo unitevi. Proletario è chi possiede solo la sua prole, secondo il criterio di censimento che risale all’antica Roma. Con la rivoluzione industriale lo sfruttamento minorile rimane, anzi, diventa seriale, come quello del lavoro femminile nelle fabbriche. I figli si fanno, si devono continuare a fare. Servono, sono il capitale umano. Dopo due secoli di impetuoso sviluppo economico e tecnologico arrivano la modernità, lo stato di diritto, e di conseguenza anche il boom demografico. Si arriva in un batter d’occhio alla famigliola nucleare del secondo Novecento, modello breadwinner: padre che lavora, madre ad accudire la casa, due bambini, possibilmente maschio e femmina. È la società del benessere, la felicità, si dice. I baby boomers fanno allegramente figli, perché la crescita inarrestabile del Dopoguerra ha dato fiducia e speranza. La rivolta dei figli nel ’68 e la rivoluzione femminista buttano tutto all’aria e segnano un cambiamento irreversibile, arrivato oggi alla stagione dei diritti individuali e della società liquida. E, guardando alla geopolitica, la globalizzazione ci ha portato a questo paradosso: nel pianeta afflitto dalla crisi ambientale e climatica e dalle guerre diffuse, otto miliardi di umani sembrano proprio troppi. Ma per l’occidente, e soprattutto per l’Europa, siamo all’inverno demografico.
Secondo le stime di Eurostat, sugli attuali 451 milioni di europei, entro il 2100 se ne potrebbero perdere 27,5. Noi italiani siamo all’ultimo posto di questo declino impietoso: 59 milioni scarsi, di cui 14 e mezzo di anziani, e i giovani non arrivano a dieci. Per mantenere la popolazione secondo le regole della demografia ci vorrebbe un tasso di natalità di 2,1 figli per donna, mentre il nostro attuale è di 1,2, il che vuol dire che più della metà delle donne in età fertile non ha neanche un figlio. Nel 2022, la prima volta dall’unità d’Italia (!), le nascite sono scese sotto la soglia delle 400 mila unità. “È la prima volta che andiamo incontro a un declino di popolazione ‘volontario’, cioè non prodotto da guerre o epidemie. È un terreno incognito, sulla cui scivolosa china ci dovremmo muovere con estrema cautela”, dice il demografo Alessandro Rosina, docente all’Università cattolica di Milano e autore insieme a Roberto Impicciatore di Storia demografica d’Italia. Crescita, crisi e sfide, Carocci. Oggi l’Italia ha una doppietta di dati davvero preoccupanti: il minor tasso di fecondità accoppiato al minor livello di occupazione femminile, nel 2023 al 52,6 (un +1,2 rispetto all’anno precedente, in controtendenza), che rimane comunque di 13,8 punti sotto la media europea. Continuando così, al 2050, per la riduzione progressiva dei giovani e una durata di vita sempre maggiore, l’Italia rischia di diventare il primo paese con un pensionato per lavoratore, cioè una situazione insostenibile. Come si esce allora dalla trappola demografica che tutti dicono – per puri calcoli aritmetici – avrà conseguenze nefaste per la tenuta del welfare, l’economia e la coesione tra le generazioni?
Lasciamo i depressivi dati statistici, e per capire il nostro inarrestabile calo demografico proviamo a partire da chi i figli li partorisce. E se fossero proprio state loro, le donne, ad aver messo in atto un’immane protesta silenziosa, una sorta di serrata contro un ricatto indecente? Perché se i dati ci indicano qualcosa di nuovo e di diverso, è proprio la relazione tra le donne childless, cioè quelle che alla fine del periodo riproduttivo rimangono senza figli (sono circa il 22 per cento delle donne nate alla fine degli anni Settanta) e le childfree, senza figli per scelta, in minoranza. Queste due tipologie testimoniano il fertility gap. Oggi l’età media del primo figlio è a 31 anni, ma sono molte le donne che si ritrovano troppo tardi a scontrarsi con il ticchettio dell’orologio biologico: il crollo a picco della fertilità comincia infatti a 35 anni, l’età in cui una persona è al culmine della sua definizione nel mondo. “La nostra libertà di scelta non è reale, è condizionata da troppi fattori”, sostiene Maddalena Vianello, 45 anni e un bambino di quattro. Di formazione storica, lavora sulle politiche di genere nell’amministrazione pubblica. Nel suo libro In fondo al desiderio, Fandango, diventato anche podcast, ha raccontato la storia di dieci donne, tra cui lei stessa, che sono ricorse alla Pma, la procreazione medicalmente assistita. Lo ha voluto scrivere perché secondo lei questo è l’ultimo tabù: quante volte si dice ancora che una donna senza figli è una donna a metà, doveva pensarci prima, ecc. “Nella realtà, i fattori dissuasivi sono tanti: prima la formazione, poi l’attesa di un contratto anche a tempo determinato, l’avere i nonni a disposizione, lo stipendio del compagno… Ci siamo sottratte al destino della maternità e allo stereotipo della madre sacrificale, ma abbiamo altri obblighi, altri divieti. Così finisce che è proprio il desiderio di maternità a essere punito”. Secondo la demografa Alessandra Milello, autrice di Non è un paese per madri, Laterza, il 41 per cento di chi ha un figlio ne vorrebbe un secondo, ma rimane appunto nel limbo del desiderio.
Proviamo allora a fare un check per capire come siamo arrivati a questo punto con una protagonista dell’ondata femminista degli anni Settanta, la sociologa Marina Piazza, narratrice della trasformazione delle donne – indimenticato il suo Le ragazze di cinquant’anni – e con incarichi istituzionali, tra cui quello di presidente della Commissione pari opportunità. Il problema non è di oggi, lo abbiamo da decenni, ci dice. E spiega che il grande balzo demografico lo avevamo fatto negli anni Sessanta: nel 1964 il tasso di natalità era di 2,38 figli per donna. Ma nel decennio successivo è andata man mano diminuendo, fino ad arrivare alla cifra di 1,64 nel 1980. Cos’era successo? Che mentre negli altri paesi europei ci si stava attrezzando ad affrontare il cambiamento avvenuto per le grandi trasformazioni dell’economia e del sistema produttivo – e contemporaneamente delle soggettività femminili – con misure che riguardavano welfare, lavoro, caregiving, orari, in Italia eravamo rimasti fermi al vecchio sottotesto: lui al lavoro, lei a casa, in fondo è più brava lei nella cura… “Ho incontrato spesso donne che solo trasferendosi in un altro paese europeo sono riuscite ad avere due figli, grazie alle misure di sostegno alla maternità che erano state conquistate proprio in quegli anni. Nel 1995, al network europeo Family and Work con 15 esperti – io lo ero per l’Italia – avevamo esplorato tutte le possibili strategie familiari: welfare, benefit, asili nido, servizi, orari. Un lavoro enorme di progettazione, di prospettiva. Ma la politica non l’aveva saputo raccogliere e gestire, trasformarlo in vita quotidiana, e gli obiettivi rimanevano una pratica discorsiva, retorica, mancavano una mentalità e una volontà collettive. La conciliazione tra vita e lavoro e la condivisione tra uomini e donne restavano sempre e solo un affare di donne”. Così oggi il lavoro di cura è ancora per il 77 per cento sulle loro spalle e una su cinque esce dal mercato del lavoro dopo il primo figlio. “Le costrizioni della realtà sociale sono state più forti del desiderio”, conclude Marina Piazza. “E oggi non è più un problema solo femminile: con il lavoro precario che accomuna i giovani di entrambi i sessi e l’alta scolarizzazione delle ragazze concorrenziale con i maschi, l’interconnessione tra generazioni diventa la questione cruciale della società contemporanea”.
Riflette sulla denatalità anche un’altra decana del femminismo, la psicologa clinica, docente e psicoanalista Silvia Vegetti Finzi, autrice di libri ormai classici come Il bambino della notte e L’ospite più atteso, Mondadori. “Oggi ci sono migliaia di donne dai quaranta ai cinquanta che non hanno avuto figli e quando chiedo loro il perché di questa scelta la risposta è quasi sempre: perché c’erano altre priorità”. Ma abbiamo sbagliato noi, e lo dice con un po’ di amarezza. “Alle giovani di allora abbiamo insegnato ad essere figlie e non madri, schiacciando il pedale sulla realizzazione di sé, senza spiegare che le strade offerte a ogni donna sono sì due, ma non possono essere messe in contraddizione. Siamo andate a cercare le madri simboliche del passato per ricostruire una genealogia, ma non le abbiamo aiutate a pensare, desiderare un nuovo modello di maternità. Che non è un fatto ostetrico, ma la conquista di un atteggiamento generativo, un nuovo paradigma a cui riferirsi, uno stile di vita. Temo proprio che siamo tornate indietro, dimenticando il cuore della differenza”. Alla domanda suggerita da Finzi, maternità e femminismo, cosa abbiamo sbagliato? risponde anche Sandra Morano, ginecologa e tra le fondatrici della Scuola di formazione per donne di governo: “Il problema sta proprio nella difficoltà a parlare di maternità. Tutto cambia, ma questa parola sta lì a impaurire le pronipoti di Sibilla Aleramo, della Nora di Casa di bambola di Ibsen, e delle tante altre donne eternamente al bivio tra procreazione e libertà. Ma non illudiamoci, non aspettiamoci dalla politica le risposte per risolvere il conflitto tra noi e il nostro corpo. L’esperienza di maternità, questa finestra che ci apre e ci trasforma, che lega per sempre la nostra ad altre vite, togliendo e moltiplicando, sta declinando senza essere stata nel frattempo rielaborata”. Per Morano è ancora più preoccupante per l’abnorme sviluppo delle tecnologie riproduttive. “In uno scenario in cui parte del processo procreativo è stato già trasferito e spezzettato in laboratorio, e in cui l’utero artificiale è già realtà avanzata, l’impresa più difficile è quella di diffondere tra le donne una diversa visione dell’attuale potere di procreare, e di come potrebbe essere: sicuramente non più una condanna biologica, ma una diversa fonte di libertà”.
Se la generazione delle quarantenni ha clamorosamente perso l’occasione, le Millenial e le Z sono lontanissime dal prenderla solo in considerazione. Come può esserci il desiderio/progetto di un figlio in una società impoverita, atomizzata, autoreferenziale, dominata dalla paura del futuro? “Il paese deve crescere? Certo, ma non a scapito della libera scelta delle donne. È inutile cercare di rendere la maternità cool, non si fanno figli perché non si possono mantenere, perché un figlio sarebbe solo un impiccio… E per me sarebbe addirittura un’intrusione”, lo dice Flavia Carlini, 26 anni, influencer con 300 mila follower tra Instagram e Tiktok, molto corteggiata dai media, in libreria con Noi vogliamo tutto. Cronache da una società indifferente, Feltrinelli. Fin dalla scelta delle parole, la giovane Flavia esprime bene il neofemminismo transgender, per cui il sesso biologico è un prodotto culturale. Tanto più lo sarà il desiderio. Ma sul corpo materno e sul suo potere – l’infinita catena della procreazione tramandata di madre in figlia che riconduce alla zoe, la natura – proprio negli ultimi mesi sono usciti in assoluta controtendenza rispetto al mainstream gender le opere di due filosofe, Rosella Prezzo con Trame di nascita, Moretti&Vitali, e Adriana Cavarero con Donne che allattano cuccioli di lupo, Castelvecchi, citazione di un verso delle Baccanti. Prestiamoci attenzione, è un nuovo step del pensiero delle donne. E per finire ragazze, se non l’avete ancora fatto andate a vedere Povere creature!, il film di Lanthimos, e innamoratevi di Bella Baxter. Lei, creatura mostruosa sfuggita alla morte e frutto di un esperimento, si affaccia alla riscoperta della vita con una forza che ha in sé, perché è madre e figlia insieme: non le hanno infatti trapiantato il cervello del feto che aveva in grembo? Bene, il cerchio si chiude.
generazione ansiosa