un libro
E voi da che parte stavate quando l'antiberlusconsimo invase l'Italia?
Una rassegna esilarante di Andrea Minuz per ricordare i tic intellettuali del cosiddetto ceto medio riflessivo antiberlusconiano negli anni in cui criminalizzare il Cav. era un modo per rivendicare (o millantare) il proprio capitale culturale distinguendosi dall’Italia volgare
Psicodramma, terapia di gruppo, sessione di lotta maoista, gruppo di autocoscienza femminista, raduno di alcolisti anonimi, verità o penitenza, telefono senza fili, gioco della bottiglia, insomma sui dettagli fate un po’ voi; ma io dico che dal nuovo libro di Andrea Minuz, C’eravamo tanto odiati. Breve storia dell’antiberlusconismo (il Mulino), dovremmo ricavare quanto meno un piccolo gioco di società, basato su alcune semplici domande. Cosa facevi tu nel marzo del 1994, quando sbarcò a Roma il marziano? E come hai attraversato la ventennale tempesta d’odio e d’amore scatenata dal suo atterraggio? Cosa pensavi, cosa dicevi, cosa soprattutto non dicevi per timore di finire sbranato dai tuoi fratelli umani e umanoidi? A ripensarci, qualcuno aveva avuto la chiaroveggenza e la tempestività di proporre un gioco di questo genere già nell’aprile dell’anno fatidico. Era stato il sociologo e massmediologo Alberto Abruzzese in un pamphlet del 1994, Elogio del tempo nuovo. Perché Berlusconi ha vinto: “Prima di pensare alla fenomenologia di Berlusconi – secondo il celebre approccio di Umberto Eco per Mike Bongiorno – pensiamo alla fenomenologia dei nostri modi di vedere la personalità di Berlusconi. Ci alziamo troppo di fronte alla sua presupposta bassezza. Ci abbassiamo troppo di fronte alla sua presupposta altezza. Che il segreto della sua vittoria sia proprio nella sua giusta misura?”. Ad Abruzzese era chiaro fin dal primo momento che l’antiberlusconismo non avrebbe dato nessun contributo alla conoscenza di Berlusconi e dell’Italia che lo aveva votato, ma in compenso avrebbe messo allo specchio tutti i tic intellettuali del cosiddetto ceto medio riflessivo antiberlusconiano. La rassegna esilarante di Minuz mostra, col senno di poi, fino a che punto avesse ragione: dal 1994 sono fioriti i compitini sulla fenomenologia di Berlusconi, e in tanti, troppi si sono trasformati in caricature stracche e saccenti di Umberto Eco – compreso Umberto Eco.
Minuz inaugura il gioco di società raccontando le sue disavventure di anti-antiberlusconiano costretto al nicodemismo in un contesto in cui essere contro Berlusconi era un non detto, un’ovvietà, “una forma di galateo tra persone colte”. Racconta della sua copia del Foglio infilata dentro Repubblica – “come coi giornaletti porno” – o della cena-gourmet in cui rischiò l’ostracismo per aver fatto qualche timida critica alle campagne petulanti del giornale di Scalfari (alla fine la fece franca passandosi come lettore di un quotidiano ancora più a sinistra). Cita poi un memorabile articolo di Sandro Viola, il quale si era chiesto come mai “a partire da un certo livello sociale, essere di centrodestra viene considerato indecente”. La risposta era semplice, bastava passare dalla B di Berlusconi alla B di Bourdieu, il sociologo della distinzione. Prima che una posizione politica, infatti, l’antiberlusconismo è stato un affare di gusto, o meglio di disgusto per il cattivo gusto altrui; una traduzione estetica di gerarchie sociali; un modo per rivendicare (o millantare) il proprio capitale culturale distinguendosi dall’Italia volgare.
E’ così che Berlusconi, il significante B., è stato investito di conflitti simbolici che andavano ben al di là della sua persona: cultura contro comunicazione, cinema contro tv, anni Settanta contro anni Ottanta, vecchi ricchi contro nuovi ricchi, Berlinguer contro Craxi (secondo round). Ed è desolante constatare quanta parte del ceto intellettuale abbia reagito al “tempo nuovo” con un sussulto di francofortismo sempre più vacuo, attardato, perbenista, retorico. Vi dirò – e qui entro anch’io nel gioco di società – che ho rischiato di fare la stessa fine. Nel 1994, infatti, ero come quel personaggio di Caro diario che non guarda mai la televisione e la deplora solennemente citando Hans Magnus Enzensberger (pochi nomi riempiono altrettanto la bocca). E anche se Berlusconi non l’ho mai votato (oggi si può dire innocentemente, non si rischia più di voler sembrare persone ammodo), sono stato immunizzato dall’antiberlusconismo più stupido e mediocre grazie a due vaccini, uno politico e l’altro estetico. Il primo me l’ha inoculato Marco Pannella, salvandomi dal virus del giustizialismo. Per il secondo devo essere grato ad Alberto Abruzzese, che mi liberò dalla posa francofortese. E non per via di quel pamphlet post-elettorale, ma per una frase che trovai in un libro del 1995 (ero al primo anno di università), Lo splendore della tv, in cui parlava della fortuna di Adorno e Horkheimer dovuta alla loro commistione di cultura altoborghese e marxismo – il cocktail ideale da tenere tra le dita quando si vuole recitare la parte del dolente erudito. Intendiamoci, quando a mescerlo c’era Adorno era un cocktail di qualità eccelsa. Ma quel modello, scriveva Abruzzese, si è imbastardito progressivamente, “e arriva sino a un analogo prodotto di sintesi nell’attuale figura dell’intellettuale piccoloborghese, geloso della proprietà dei suoi privilegi e insieme schierato all’opposizione del sistema che gli garantisce la ‘castità’ di tali privilegi”. Ecco, pensai, guai a me se da grande divento così; eppure, i replicanti di quel “prodotto di sintesi” spuntavano tutt’intorno a me, e di lì a poco si sarebbero radunati nei palazzetti, avrebbero unito le loro mani in girotondo, e dopo il girotondo tutti giù per terra, salvo rialzarsi per ripetere la stessa deprimente commedia degli errori contro Renzi, mettendo su il solito 78 giri dalla collezione di nonno Adorno. Non c’ero cascato la prima volta, non ci cascai la seconda: mi avevano vaccinato. E tu, lettore? Che ruolo ti eri scelto, nello psicodramma del 1994?
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