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I nuovi apprendisti stregoni: la cultura woke si raduna sotto la bandiera di Hamas
Antirazzisti, postmodernisti, ecologisti e femministe. Ecco tutto il "campo largo" dei compagni di letto contro Israele che per far tornare la pace nel mondo, ne chiedono la sparizione
La guerra è pace. La libertà è schiavitù. L’ignoranza è forza. Il velo è progresso. La decapitazione è resistenza. “Viviamo tutti nel mondo di Judith Butler”, per dirla con una rivista inglese. Butler è la star della filosofia americana, la professoressa marxista e queer di Berkeley che ha inventato l’identità di genere. Il suo “Gender Trouble”, pubblicato nel 1990, è diventato una sorta di teologia in tutte le università occidentali. Da due settimane si riparla di questa filosofa della “società liquida” perché in una conferenza a Parigi ha detto che l’attacco perpetrato da Hamas il 7 ottobre è stato una “rivolta”, non “un attacco terroristico” né “un attacco antisemita”, ma “un atto di resistenza armata”. In un articolo pubblicato l’11 marzo da Mediapart, la filosofa persiste. “Resistenza”, scrive, è la parola giusta per parlare del 7 ottobre. Butler aveva già definito Hamas e Hezbollah “movimenti della sinistra globale”. Di fronte alla controversia, Butler ha ricevuto un sostegno inatteso, o quasi. “Condivido la sua analisi”, ha detto al Monde la scrittrice e premio Nobel Annie Ernaux, salvo poi aggiungere che non avrebbe usato la parola “resistenza”. Uno dei più famosi studiosi di islam, Francois Burgat, ha portato il suo “infinito rispetto” ai capi di Hamas.
Negli anni Novanta uscì un libro, “The Prophet and the Proletariat” (Il profeta e il proletariato) scritto da Chris Harman, allora direttore del Socialist Worker, in cui Harman ammetteva che l’islamismo è simile al fascismo nella sua intolleranza omicida e atteggiamento non proprio liberale nei confronti delle minoranze sessuali. Ma, scriveva Harman, “gli islamisti si sono opposti all’imperialismo... Hezbollah e Hamas hanno svolto un ruolo chiave nella lotta armata contro Israele”. L’islamismo, concluse Harman, nasce da un “sentimento di rivolta che potrebbe essere sfruttato per scopi progressisti”. Eccoci al cuore dello scandalo Butler, che non a caso ha criticato anche l’idea di una liberazione delle donne afghane dal giogo talebano: “Dobbiamo chiederci se l’invasione dell’Afghanistan sia realmente avvenuta in nome del femminismo e in quale forma di femminismo si è ritrovata tardivamente avvolta”. I fondamentalisti islamici, a differenza dei comunisti, hanno poco in comune con i progressisti occidentali, ma non ha molta importanza. La domanda qui è: chi odia chi.
In un saggio su Dissent, Michael Walzer scrive che la difesa più robusta da sinistra dell’islam radicale è arrivata da Toni Negri, per cui il fondamentalismo islamico è un grande alleato per “il suo rifiuto della modernità come arma dell’egemonia euro-americana”. Negri era arrivato a celebrare anche la rivoluzione iraniana in “Impero”. E cavalcava qualsiasi moto potesse abbattere l’occidente, anche le banlieue di Parigi, di cui scrisse: “Sono la nuova Rivolta”. E a proposito dell’immigrazione: “Una nuova orda nomade e razza di barbari sorgerà per invadere l’Impero. I nuovi barbari distruggono con una violenza affermativa e tracciano nuovi percorsi di vita”.
In “Disparities”, il pensatore marxista Slavoj Zizek, star filosofica come Butler, scrive sull’Isis: “Guardate la sua identità fluida postmoderna, c’è una tendenza emancipante”. Zizek arriva a scrivere del terrorismo islamico come “uno dei possibili luoghi da cui si può dispiegare dubbi critici sulla società di oggi”. Così Michel Foucault sul Corriere della Sera e sul Nouvel Obs riuscì a elogiare Khomeini come “la prima grande insurrezione contro i sistemi globali e la forma più moderna di rivolta”. La chiamava “spiritualità politica”. Insomma, l’ateo, critico degli stati borghesi e teorico dell’anticolonialismo aveva scoperto l’islamismo. E Jean Baudrillard, l’intellettuale postmoderno, presentò la Repubblica islamica come un “destabilizzatore attivo” la cui “violenza rituale” poteva “sfidare l’ordine mondiale”. Interrogato da Tahar ben Jelloun, lo scrittore omosessuale Jean Genet diceva, sedotto, del terrorismo palestinese: “Cristallizza al più alto grado l’odio per l’occidente”.
I corpi che diventano un “noi” collettivo e che vanno decolonizzati, l’idea di Butler, hanno finito per occupare piazze, atenei, musei e altri luoghi pubblici. Nel suo libro pubblicato in Italia da Nottetempo, “L’alleanza dei corpi”, Butler parla di “azioni plurali” compiute dai gruppi che contestano il “potere costituito”. Sono gli stessi studenti che, dopo il massacro di Hamas, hanno appeso striscioni di solidarietà a Gaza senza dire una sola parola sugli ebrei uccisi (un nuovo sondaggio Harvard-Harris mostra un massiccio 60 per cento di giovani tra i 18 e i 24 anni che negli Stati Uniti ritiene che l’uccisione di 1.200 civili israeliani da parte di Hamas sia giustificata). È il professore della Cornell che alla notizia dell’assassinio di 1.200 ebrei si dice “euforico ed energizzato”. È la professoressa di Yale per cui i “coloni” – a suo avviso tutti gli israeliani – non sono civili ma obiettivi legittimi. È il professore della London School of Economics che elogia il massacro come una lotta anticoloniale.
A una manifestazione pro-Gaza a Londra ha preso la parola Mohammed el Kurd, un palestinese di Gerusalemme Est, scrittore e poeta, che alla folla ha detto: “Il nostro giorno arriverà, ma dobbiamo normalizzare i massacri come status quo”. El Kurd ha firmato su Internazionale, pubblica per Fandango ed è stato invitato dal Festival Internazionale e dalla Fondazione Feltrinelli. Come si tiene insieme il pacifismo inclusivo di questi centri di potere culturale con le parole di El Kurd?
Nel mondo del direttore di The Lancet, Richard Horton, tutto si tiene, dalla cancellazione della parola “donne” a favore della definizione inclusiva di “corpi con la vagina” alle citazioni del padre della decolonizzazione Frantz Fanon (su cui Adam Shatz ha scritto una biografia straordinaria) al flirt con gli apocalittici di Extinction Rebellion fino a “An open letter for the people of Gaza”, pubblicata da Horton in cui si accusa Israele di “massacrare” i palestinesi e i medici israeliani di “collusione”. Tra le firme quella di un medico norvegese, Mads Gilbert, un famoso pacifista che al giornale Dagbladet dirà: “Gli oppressi hanno il diritto morale di attaccare con qualsiasi arma”.
Nel postmoderno, i palestinesi possono presentarsi con successo come vittime del “genocidio” anche se la loro popolazione si espande a dismisura. La violenza è una risposta all’oppressione. C’era un filosofo italiano teorico del pensiero debole che disse di voler imparare a sparare per accoppare “sionisti”.
In questa nuova dottrina universale che collega università, piazze e attori politici, il vecchio occidente bianco “cis” forma un’unica zona di colpa, mentre il “Sud globale” assume il ruolo di vittima, è moralmente superiore e il distruttore di quell’occidente da cui deve liberarsi. “In questi giorni gli scienziati della School of Plant Sciences dell’università di Tel Aviv hanno annunciato di aver registrato con speciali microfoni sensibili agli ultrasuoni gli urli di dolore che le piante emettono quando sono tagliate o quando mancano di acqua” scrive Giorgio Agamben. “A Gaza non ci sono microfoni”. O come disumanizzare gli israeliani.
Il Dipartimento di Studi di Genere della Queen’s University, in Canada, ha una dichiarazione di “solidarietà” sul sito web che afferma che è “colonialista” riferirsi ad Hamas come “terroristi”. La ministra spagnola dei Diritti, Ione Belarra, chiede la fine dei rapporti diplomatici con Israele dopo aver avuto un confronto con una donna durante un comizio a Siviglia. L’ha interrotta per chiederle cosa significasse per lei essere madre. “Cos’è una madre?”, ha chiesto la donna a Belarra, che ha risposto: “Dicci, cosa pensi che sia una madre?”. E la donna ha replicato: “Le madri sono donne e le donne sono femmine umane adulte”. Belarra ha cambiato tono: “Tutte le donne sono donne e anche le donne trans sono donne”. Ma non esageriamo con l’enfasi sugli stupri di Hamas.
Nomi grossi dell’intellettualità femminista – le italiane Silvia Federici e Sara Farris, Elsa Dorlin, Sam Bourcier, Émilie Hache e Isabelle Stengers (che in Italia pubblica per Einaudi) – in un appello denunciano “la visione di un mondo musulmano barbaro contro una popolazione israeliana femminilizzata e quindi ripulita e sgombrata da ogni sospetto. Se una prospettiva ‘femminista’ può attivarsi di fronte alla situazione nella Palestina occupata, essa non può che radicarsi in un posizionamento coinvolto e situato: è perché come madri, sorelle, figlie, compagne, amiche, attiviste, sappiamo il costo della violenza sui nostri corpi e sulle nostre menti per vivere in un mondo mutilato dal capitalismo e dall’imperialismo, che dobbiamo esprimerci sulla situazione in Palestina. La nostra solidarietà va a tutto il popolo palestinese, anche ai suoi uomini. È nelle loro lotte che noi, femministe, desideriamo riconoscerci”.
Gli ecologisti di Extinction Rebellion manifestano davanti alla Corte penale dell’Aja in “solidarietà con la Palestina” e per processare Israele. Il fondatore di Extinction Rebellion, Roger Hallam, al settimanale tedesco Die Zeit ha liquidato così l’Olocausto: “Un’altra stronzata nella storia dell’umanità”. E parliamo di un movimento che ha raccolto il sostegno del Labour, del giornale della sinistra Guardian e di attrici come Emma Thompson.
Il movimento “Fridays for future” di Greta Thunberg intanto sbandava contro il “sionismo”, provocando una scissione della sua ala tedesca, che non vuole finire a fare le tricoteuses di Hamas. In “Why we strike again”, l’ambientalista svedese scrive: “La crisi climatica non riguarda solo l’ambiente. I sistemi di oppressione coloniale, razzista e patriarcale l’hanno creata e alimentata. Dobbiamo smantellarli tutti”. Gli “ebrei sono bianchi” (lo ha detto Whoopi Goldberg) e Israele è una entità coloniale e razzista. Giù tutti i muri.
E ovviamente Black Lives Matter, che dopo il 7 ottobre ha pubblicato sul suo account l’immagine dei parapendii usati da Hamas per attaccare i giovani israeliani al Nova. E un leader di Black Lives Matter, Shaun King, è persino riuscito a farsi chiudere l’account X per i suoi post. King ha appena annunciato la conversione all’islam “in solidarietà con i palestinesi”. Il sostegno al Black Lives Matter e il sostegno ad Hamas sono, nella mente dei loro fuorviati aderenti, guidati dal desiderio di ribaltare lo “status quo”, abbattere le gerarchie e distruggere la “bianchezza”.
“Perché i woke si radunano sotto le bandiere di Hamas?”, si chiede Alain Finkielkraut. Un’ipotesi, la più rassicurante, sarebbe che non vedono dove portano le loro idee perché non ne subiscono le conseguenze. Una classica logica dei bambini viziati. Nella seconda ipotesi, tutti i mezzi sono buoni e la “causa”, in definitiva intercambiabile, è solo un pretesto per il vecchio potere di abbattere.
Affinché la pace e la libertà possano tornare nel mondo, Israele deve sparire. Anche se i woke dovranno fare la fine delle galline che difendono un fast food specializzato in polli fritti.
Politicamente corretto e panettone