"non ti parlo"
Il "silent treatment" è il disturbo psichico all'ultimo grido. Nomi altisonanti per disagi innocui
Siamo una generazione di traumatizzati, tanto che "Sono troppo debole per questo" o "Non mi fare del male!" possono essere considerate frasi alla moda. Ma chi ci ha convinto di essere così poveri di risorse?
"Non mi fare male!". Il grido del nuovo millennio. Ci si potrebbe scendere in piazza, se non facesse ridere. Siamo proprio una bella generazione di traumatizzati. Può capitare, ogni tanto, una generazione di traumatizzati. La scoperta medica recente è che siamo debolissimi, i numeri dicono proprio inguaiati, si va dallo psicologo in massa e non basta. Qua serve il miracolo. Ogni giorno trovi qualche articolo, quattro slide Instagram, una denuncia di disturbo psichico nuovo, in corso o in aumento. Ieri ho letto una filippica lunghissima contro il silent treatment. In inglese fa molta scena ma il prosaico e più tignoso italiano traduce secco: il silent treatment è il “non ti parlo” delle scuole elementari applicato nel sociale. Promosso di gravità. Quel che non uccide, uccide lo stesso.
Può capitarti ovunque, a casa, al lavoro. Quasi certamente ne avrai sperimentato una qualche forma. Subire il trattamento del silenzio è frequente. Te lo impongono i partner, i genitori, gli amici, i colleghi. Non ti parlo, vai tu a capire perché. Me la ricordo come una delle prime lezioni d’infanzia, quindi il cristiano medio è bene in grado di farsene una ragione più avanti negli anni, se gli ricapita poi qualcuno che fa un po’ di mutismo strategico: quel che si impara nella vita, subito dopo cadere dalla bicicletta, è che chi non ti parla poi ti riparlerà. Di silenzio non si muore. I malumori passano, “’o purp’ s’ha da cocere ’ind all’acqua soia”.
"Scoprii in quella circostanza che la bambina dei miei pensieri e sospiri si chiamava a quel modo oscuro – la milanese – e aveva attirato, oltre alla mia attenzione, anche quella di molti altri compagni. Non solo. Era di dominio pubblico che, quando c’era il sole, la guardavo scimunito dalla finestra o passavo molto tempo sotto il suo portone. Vero? Mi chiusi nel mio solito mutismo, ma prima gli dissi: vafanculostrunznunmeromperocàzz, che era la formula necessaria quando nessuno pareva adatto a capire quale persona speciale fossi e che grandi cose avrei fatto".
Domenico Starnone, “Vita mortale e immortale della bambina di Milano”, Einaudi
Chi è che ci sta rovinando la vita? Molto saldo in cima alla classifica dei nuovi mostri trovi sempre il narcisista. Io me lo ricordo, quando narcisista era un aggettivo minore, del tutto non preoccupante, quasi scanzonato. Quanti narcisista volavano nel passato senza che nessuno se ne accorgesse. Ora se incontri il narcisista devi sperare di sopravvivere. I narcisisti del mondo sono diventati infestanti, enormi, ad alto rischio di causare lesioni gravi. L’unica cosa che mi pare di aver capito bene è che narcisista è generico indefinibile. Che sono molti gli atteggiamenti comuni, coerenti e funzionali a quest’epoca. Che nessuno può sentirsi escluso. Che – eliminate le degenerazioni criminali – nessuno scappa, nessuno può dirsi non narcisista. Se non ti parlo sono narcisista? E’ una specie di mobbing della vita fatto un po’ da chi ti capita davanti. Prova a portare il mobbing in tribunale davanti a un giudice del lavoro e guarda che succede. Niente, non succede niente, la causa la perdi sempre, perché spesso il male di vivere abbiamo incontrato e il magistrato ti dice che quel che hai avuto tu dal capo ufficio è troppo poco.
C’è molta voglia di farci guardare al microscopio, negli ultimi tempi. Un’attenzione ai micromovimenti dell’anima che non ha precedenti. Siamo sicuri che chiederci “come sto? Perché non mi parli? Sarai per caso narcisista? Sono abbastanza felice? Come sto?” ogni due minuti sia la soluzione a qualcosa? Ogni graffio è epopea? Perché ci siamo inchiodati sulla croce di Cristo del presupposto “sono troppo debole per questo”? Chi ci ha convinti di essere così poveri di risorse? Davvero qualsiasi cosa del mondo ci scortica in modo irreversibile? Siamo molto avviati all’ipersensibilità, e la cosa non è buona. Siamo tragici, ultraemotivi. Siamo rassegnati a diventare sempre più frolli. Un indimenticabile rigo di Philip Roth dice: “Io non ne posso più della mia vita interiore”. Noi ne vorremmo due per marinarci meglio nelle malinconie.
Quasi niente ci piace quanto pensarci delicati, individui civilissimi con cui si può ragionare, persone che sanno a memoria quanto è instabile tutto. E però non riusciamo più a essere tristi di tristezza quotidiana, quella temperata, l’inquilina stabile di certi lunghissimi periodi. Ma cos’è che non va? A fare un’ipotesi, è che qualsiasi desiderio adulto converge su: “Datemi la certezza e poi datemi stabilità” con un oggetto a scelta. La vita va nella direzione opposta e abbiamo smesso di farcene una ragione.
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