Autodafé della ragione
“Who's afraid of gender?". L'ultimo libro della filosofa Judith Butler è un campionario di fallacie
Nel suo ultimo libro la scrittrice dà dimostrazione di tutti i suoi trucchi sofistici: tra falsi dilemmi, petizioni di principio e temi trattati solo per sollecitare l’empatia del lettore
Tanti anni fa il filosofo Emanuele Severino, piccato perché avevano infilato il suo profilo in un saggio sui nemici della modernità, obiettò che non era legittimo costruire classi di oggetti sulla base di una loro proprietà negativa, e corredò la sua obiezione con un esempio (che oggi non passerebbe il test della correttezza politica, ma tant’è): raggruppare i filosofi antimoderni, diceva, è come mettere insieme “misogini, preti cattolici, pederasti e donne (normali)” in quanto contrari “al congiungimento sessuale con le donne”. Al che Paolo Rossi, l’autore del saggio incriminato, gli lanciò una replica esilarante: “Appresi in quell’anno (e ne feci tesoro) che parlare di piante acotiledoni o di animali invertebrati o della classe degli agnati (che comprende 42 specie viventi di pesci) o di particelle prive di massa è frutto di gravissimi fraintendimenti e causa di funesti errori”.
Creare classi di oggetti sulla base di una caratteristica negativa è perfettamente legittimo, purché non si commetta l’errore (e Rossi non lo commetteva) di presumere che ad accomunarli ci sia qualcosa di più di quella caratteristica. Se io dicessi che gli asini volano, per esempio, mi attirerei contro zoologi, fisici newtoniani, piloti dell’Alitalia e l’intero settore della pastorizia. Ma non sarei autorizzato a concluderne che esiste un’alleanza positiva tra questi soggetti. Certo, se domani proponessi una legge a tutela degli asini volanti me li troverei tutti coalizzati per frenarne l’approvazione, ma sarebbe una coalizione tattica: ottenuto l’obiettivo, ciascuno per la sua strada, i piloti a pilotare e i pastori a pascolare.
La vecchia polemica fra Rossi e Severino mi è tornata in mente leggendo l’ultimo libro di Judith Butler, “Who’s afraid of gender?”, pubblicato la settimana scorsa da Farrar, Straus and Giroux. È il primo libro non accademico di Butler, che aspira qui a raggiungere un pubblico più vasto. Di conseguenza, la filosofa abbandona quanto può le spaventose concrezioni sintattiche e le stratificazioni di gerghi accademici che le valsero nel 1998 il primo premio nel Bad Writing Contest della rivista Philosophy and Literature, e si attesta su una prosa un po’ legnosa da dottoranda, prolissa e ripetitiva fino allo sfinimento ma a suo modo comprensibile. Diciamo che non ha il piglio della saggista. In un certo senso è un progresso, ed è anche un momento della verità (una verità su cui tanti, da Martha Nussbaum a Sabine Prokhoris, ci avevano allertato negli anni): quando si arrischia a sgattaiolare fuori dalla tana accademica e mostra i suoi ragionamenti nudi e crudi, Butler si rivela una filosofa di una povertà imbarazzante. Parlo di tana non a caso, ma perché i libri di Butler e affini mi hanno sempre fatto pensare a una magnifica pagina di Locke in difesa della chiarezza: “Non c’è via migliore per far riconoscere o difendere dottrine strane e assurde, quanto il circondarle di un baluardo di innumerevoli parole oscure, dubbie e indefinite. Ciò, tuttavia, rende queste difese più simili a covi di briganti o a tane di volpi che non a fortezze di veri guerrieri; infatti, se è difficile farne uscire qualcuno, non è per la loro robustezza, ma per i rovi e le spine e l’oscurità della sterpaglia che le circonda”.
Ramazzata via la sterpaglia più vistosa, Butler si dedica alla domanda annunciata nel non brillantissimo titolo: chi ha paura del gender? In risposta, aduna sulla pagina una compagine molto assortita che comprende tra gli altri il Vaticano, le femministe radicali trans-escludenti (le famose Terf), i neofascisti, i positivisti-scientisti, i conservatori in senso lato. È una classe basata su una proprietà negativa, ossia l’ostilità alla cosa detta “gender”. Fin qui, dunque, quasi niente di male. Dico “quasi” per tre motivi. Primo, perché una classe di questo tipo, per avere una qualche dignità conoscitiva o utilità euristica, dovrebbe fondarsi su una negazione il più possibile determinata; ma in nessun punto Butler si dà la pena di definire o circoscrivere che cosa i singoli membri di questa compagnia intendano di preciso per gender (anzi, presume pigramente che non lo sappiano neanche loro). Scomponendo la nozione, avrebbe potuto constatare che scientisti, cattolici e femministe, pur usando una stessa etichetta polemica, sono contrari a cose molto diverse e per ragioni spesso inconciliabili, e che intrupparli non ha alcun senso, se non quello di ridurre tutti al comun denominatore del fascismo per averla vinta facile. Di sfuggita, Butler menziona “per essere onesta” che la destra avversa il gender in generale mentre le femministe criticano specificamente l’ideologia dell’identità di genere; è un discrimine enorme, capitale, ma per la filosofa segna “forse” (forse!) una piccola differenza, resa insignificante dalle consonanze e dalle torbide collusioni.
Il secondo motivo della mia perplessità è la disinvoltura con cui Butler, dalla creazione di una classe negativa, passa all’idea che esista un’“ideologia anti gender” nonché un “movimento anti gender” con dei contenuti positivi. È un movimento, dice, che punta a restaurare il sogno di un ordine patriarcale perduto in cui “un padre è un padre; un’identità sessuata non cambia mai; le donne, concepite come ‘nate femmine alla nascita’ (sic) riprendono le loro posizioni naturali e ‘morali’ nella famiglia; e i bianchi mantengono un’indiscussa supremazia razziale”. La descrizione di questi intenti comuni è caricaturale e ai limiti della parodia, specie per la coda intersezionale, ma per carità interpretativa voglio supporre che Butler non includa le femministe radicali tra le aspiranti restauratrici della donna “angelo del focolare” o i cattolici tra i nostalgici del Ku Klux Klan. Non c’è dubbio che per la destra mondiale “gender” è (anche) uno spauracchio propagandistico. E non c’è dubbio che un pasticcio di cavallo e allodola, come usa dire, sa di cavallo, e che nel mondo il pasticcio anti gender sa di Putin e di sacrestie più che di biologi evoluzionisti e di femministe gender critical britanniche. È questione di rapporti di forza. Ma l’onestà intellettuale impone di osservare le diverse posizioni nel dettaglio, e di soffermarsi sulle occasioni specifiche delle controversie o delle alleanze; certi abboccamenti indicano senz’altro un sentire comune, altri sono meramente tattici, altri ancora hanno un fondamento molto più indeterminato e generale: le convergenze occasionali tra Papa Bergoglio, la scrittrice J.K. Rowling e il biologo Richard Dawkins contro l’idea, poniamo, che gli uomini possano partorire, non sono molto diverse dalla mia alleanza ipotetica tra pastori, piloti di linea e professori di fisica contro l’ipotesi degli asini volanti. Non è difficile capire perché. Butler dà la colpa all’antiintellettualismo, dando per implicita la coincidenza tra intelligenza e accademia. Le sarebbe utile rileggere gli “Appunti sul nazionalismo” di un grande intellettuale, George Orwell: “Bisogna appartenere all’intellighenzia per credere a cose del genere: nessun uomo comune potrebbe essere così sciocco”.
Il mio scetticismo ha anche una terza ragione. L’ammucchiata di strani compagni di letto, secondo Butler, è tenuta insieme dalla paura, e il gender è stato trasformato in una “scena fantasmatica” su cui proiettare angosce di tutt’altra origine. È un’ipotesi schiettamente psicoanalitica, che Butler puntella usando Freud un po’ a capocchia (del resto, è stato osservato più volte il suo vizio di sovraintepretare o di fraintendere platealmente gli autori che commenta, si tratti di Austin, di Lévinas o di Sofocle). In breve, nella costruzione di questo fantasma sarebbero all’opera i due processi tipici del lavoro onirico: la condensazione (perché intorno alla pira del fantoccio stregonesco del gender si radunano paure, ansie e rancori di natura composita) e lo spostamento (perché fissarsi sul gender consente di distogliersi dalle “vere” cause dell’angoscia, le sole per cui a suo dire è fondato e moralmente legittimo avere paura, che sono nell’ordine: “la distruzione del clima, la guerra, lo sfruttamento capitalistico e la disuguaglianza sociale ed economica, la crescente precarietà e l’abbandono economico, le baraccopoli globali, i senzatetto, i campi di detenzione, le forme sistemiche di razzismo, la deregulation, il neoliberismo, l’autoritarismo, le nuove forme di fascismo, il grammofono” – va bene, il grammofono l’ho aggiunto io, ma il resto è tutto vero, e neppure esaustivo: altrove rimpolpa la lista). Questo goffo tentativo di decifrazione psicoanalitica, che da goffo si fa perfino insolente nelle pagine su J.K. Rowling, dimostra ancora una volta che la tradizione dei “maestri del sospetto” è via via dirazzata in una filosofia da inquisitori, per poi volgarizzarsi nell’idea secondo cui ogni avversione implica una fobia (dunque una reazione irrazionale) e ogni fobia richiede un approccio terapeutico (dunque l’interlocutore non dev’essere ascoltato da pari a pari ma guarito, sempre che non si scelga di schivarlo per paura del contagio).
Butler non è neppure sfiorata dal dubbio che qualcuno possa avere non già paure irrazionali, ma dissensi razionalmente motivati sulla nozione stessa di genere e preoccupazioni legittime e fondate su alcune delle cose che circolano nel dibattito sotto l’ombrello del gender (per dirne una, che è poi la più vistosa, le transizioni ormonali e chirurgiche dei minorenni); né considera l’ipotesi che queste cose possano inquietare in quanto tali, per il loro contenuto manifesto, e non come dislocazioni pretestuose di paure inconsce generate dal capitalismo o dalla crisi climatica. La sua mancanza di curiosità, di comprensione e di elementare tolleranza per altre visioni del mondo, e per il mondo al di fuori dei campus, ha dello sbalorditivo. È come se Butler non avesse mai conversato onestamente e alla pari con qualcuno dei famigerati anti gender: l’unico dialogo che cita – e che generalizza spericolatamente, in un esempio da Guinness dei primati di fallacia aneddotica – è quello con una fondamentalista svizzera che proclamava di non voler leggere i suoi libri per non trafficare con il demonio. Troppo facile. Ma con tipico meccanismo di proiezione (su, psicoanalizziamo la freudiana) Butler attribuisce il proprio disinteresse ai suoi nemici, che a suo dire non leggono, non studiano e in questo modo rendono impossibile un dibattito razionale. Fa finta di non sapere – perché non può non saperlo – come vengono trattati i poveretti (è capitato anche al sottoscritto) che provano timidamente a instaurare un dibattito razionale su questi temi portando un punto di vista esterno ai gender studies: se va bene vengono ignorati con cordiale imbarazzo, se va male sono liquidati con rude snobismo, se va malissimo sono messi alla gogna o presi di mira con ritorsioni professionali di vario genere e gravità. È anche per questo che si creano alleanze tattiche avventizie: se una femminista gender critical è sottoposta, nel suo ambiente politicamente più congeniale, alla pratica antidemocratica del “no debate”, possiamo biasimarla se poi va nel covo del nemico e si fa intervistare da Fox News?
In “Who’s afraid of gender?” sono finalmente esposti in piena luce tutti i trucchi sofistici di Butler, di solito occultati dal carapace della sua prosa arcigna. Resta comunque una lettura faticosissima per chi abbia a cuore la buona argomentazione e la definizione chiara dei termini: un neopositivista logico uscirebbe da queste trecento pagine in ambulanza, urlando e invocando la mamma, io me la sono cavata con qualche quarto d’ora di malumore. Il libro è un campionario lussureggiante di fallacie. Butler allucina “paradossi” tra affermazioni perfettamente conseguenti, non vede contraddizioni tra cose che invece fanno a pugni, allinea spavaldamente non sequitur, costruisce strawman a ogni pagina (tutto il libro, in un certo senso, è la creazione di un fantoccio), moltiplica senza freno gli equivoci definitori e procede imperterrita tra falsi dilemmi, petizioni di principio e argomenti ad captandum per sollecitare l’empatia del lettore. A volte, in questo ininterrotto autodafé della ragione, arriva a un passo da qualche verità, ma lì si ferma. Per esempio, Butler sostiene ripetutamente che “quando il movimento anti gender dice che il gender ti priverà della tua identità sessuata, sta cercando di privare un gruppo di persone della loro identità sessuata”. Tradotto in italiano: chi si ostina a dare una definizione biologica di donna sta privando le persone trans del loro diritto di essere donne. Bene. A questo punto, stabilito che le definizioni (specie quelle giuridiche) hanno un impatto sulla vita reale, uno si aspetta che Butler intuisca che il processo è quanto meno bidirezionale: se includi nella categoria di donna chiunque si identifichi come tale, stai privando le donne biologiche di una serie di cose, che poi sono quelle su cui a torto o a ragione si litiga da anni: spazi single-sex, competizioni sportive separate, eccetera. Dovrebbe essere elementare. E invece no (Aristotele non è abbastanza queer); così dopo poche righe arriva la smentita, sotto forma di un mantra giuridicamente insensato ma molto caro agli attivisti: “i diritti trans all’autodeterminazione non portano via i diritti di nessun altro”.
I maltrattamenti alla logica vanno avanti fino all’ultima pagina. Il lettore, pur stremato, continua a non avere paura del gender, solo un sospiroso scetticismo. In compenso corre a iscriversi alla classe negativa di quelli che non riescono a spiegarsi la fama di Judith Butler.