Un pilota vola sopra a una città polacca durante l'invasione della Polonia del 1939 - foto via Getty Images

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I pretesti per fare le guerre ci sono sempre stati: una cronistoria

Siegmund Ginzberg

I governi e i leader hanno spesso fatto ricorso a "provocazioni strategiche" per giustificare le loro azioni militari e politiche, manipolando l'opinione pubblica attraverso i media e la propaganda. Quanto conta la narrazione vittimistica in questi contesti, dal genocidio del Ruanda all'invasione della Polonia

Un pretesto lo si trova sempre. Purché ci sia una narrazione in grado di ingigantirlo. Basta un episodio, anche limitato, anche marginale. In quel caso era la brutale aggressione a una donna e ai suoi tre figli. La donna era una colona. Era impegnata a lavare i panni. Quando fu aggredita da quattro, forse più uomini armati. L’avevano picchiata fino a farla svenire. Poi l’avevano scotennata, e infine le avevano squarciato il petto con un coltello. Erano poi passati a picchiare i tre figli piccoli, riducendoli in fin di vita. Il delitto aveva prodotto enorme impressione. Si chiedeva a gran voce una punizione esemplare degli assassini, e dei loro mandanti. Nel giro di pochi giorni furono catturati otto sospetti. Furono torturati affinché confessassero chi li aveva ingaggiati, e perché, chi gli aveva offerto protezione, chi avrebbe potuto trarre vantaggio dall’azione efferata.
 

Succedeva in America. Nelle colonie inglesi tra Maryland e Virginia, sulle sponde del fiume Potomac, dove oggi sorge Washington. Nel luglio 1679. Tra i coloni e gli indigeni non correva buon sangue. I bianchi avevano portato via la terra agli indiani. C’era un clima di sospetto, avversione e diffidenza reciproca. Gli indiani lamentavano che i bianchi ampliassero di continuo le piantagioni a scapito dei loro territori di caccia. I coloni erano preoccupati da segnali di rivolta a loro danno. Temevano attacchi, un massacro, magari un tentativo di sterminio. I giovani guerrieri indiani avevano preso a dipingersi coi colori di guerra. Si verificavano furti di armi e di alcool. Si moltiplicavano le spedizioni di caccia. Il timore era che si trasformassero da un istante all’altro in spedizioni di guerra.
 

La situazione era complicata dal fatto che le tribù indiane erano in guerra anche fra di loro. Le due nazioni indiane dei piscataway e degli irochesi si erano combattute per generazioni. I piscataway, che abitavano la costa, erano amici dei coloni, convivevano e commerciavano con loro. Erano pacifici e integrati. Gli irochesi che controllavano i territori a nord stavano più sulle loro, non vedevano di buon occhio l’amicizia tra la nazione indiana loro rivale e i coloni britannici.
 

La caccia all’uomo, scatenata immediatamente dopo l’efferato omicidio, aveva portato all’arresto di 8 indiani. Erano tutti piscataway, cioè indiani “amici”. Sotto tortura e sotto minaccia di impiccagione immediata, avevano confessato. Avevano raccontato che a ingaggiarli era stato un agente degli irochesi. L’intento, a quanto pare, era provocare una guerra tra i coloni e gli indiani loro “amici”. Indeboliti gli uni e gli altri, gli irochesi avrebbero avuto buon gioco a cacciare via i coloni inglesi – dal Potomac al mare, verrebbe da dire – ma anche a soggiogare la tribù nemica. Se al posto del governatore della colonia britannica ci fosse stato Putin avrebbe dato il via immediatamente alla rappresaglia, magari implicando come mandanti le altre potenze europee nemiche dell’Inghilterra.
 

Il governatore Nicholson era sotto pressione. I coloni chiedevano giustizia immediata, punizione esemplare dei colpevoli e degli istigatori. Non si fece trascinare. Si districò abilmente dalla ragnatela di “dannate bugie” – l’espressione è di un suo stretto collaboratore – che piovevano da tutte le parti. Scelse di stare ai fatti, di condurre un’indagine scrupolosa, e di punire gli individui colpevoli anziché l’intera comunità indiana. Avesse fatto diversamente avrebbe fatto il gioco degli irochesi. Purtroppo il suo è un caso quasi unico di buon senso. Si sa che nei due secoli successivi tutte le tribù indiane d’America sarebbero state sterminate e private delle loro terre e delle loro risorse. Con un pretesto o con un altro. Ma questa è un’altra storia.
 

L’episodio, dimenticato per secoli (la storia ricorda solo le provocazioni e i pretesti di guerra andati a segno, tende a dimenticare le guerre sventate), è stato scovato nei polverosi archivi giudiziari delle antiche colonie da J. D. Maddox, della George Mason University, autore di un intenso saggio del 2016 su “Otto casi di provocazione strategica”, How to Start a War: Eight Cases of Strategic Provocation. Narrative and Conflict: Explorations in Theory and Practice. Il catalogo è impressionante. Gli otto casi di “provocazione strategica”, cioè di ricorso a tattiche ingannevoli per istigare alla violenza contro il proprio paese (in modo da avere una giustificazione per una rappresaglia ancora più violenta), vanno da fabbricazioni di casus belli ormai proverbiali, come il modo in cui Hitler, per giustificare l’aggressione alla Polonia con cui ebbe inizio la Seconda guerra mondiale, fece passare la Germania come aggredita dalla Polonia; a come Bismarck aveva spinto nel 1870 Napoleone III a fare la guerra alla Prussia, che non aspettava altro e stravinse il conflitto; alle provocazioni che, sempre nell’Ottocento, avevano dato la stura alle guerre Usa contro il Messico, i pirati islamici in Marocco e Tunisia, la Spagna, alle provocazioni con cui Stalin giustificò l’attacco alla Finlandia e l’annessione dei Paesi baltici; alle provocazioni montate ad arte in Bosnia e in Kosovo che, alla morte di Tito, furono usate dal serbo Milosevic e portarono negli anni 80 allo sfaldamento e alla guerra civile nell’ex Yugoslavia; all’orrendo massacro della minoranza Tutsi ad opera degli Hutu, in Ruanda, negli anni 90. Fino all’invasione russa della Georgia nell’agosto 2008, spacciata da Putin come un’operazione di pacificazione, e che, per molti versi, sarebbe servita come una sorta di prova generale dell’attacco all’Ucraina.
 

In tutti questi casi, il copione prevedeva una provocazione, un attacco terroristico, una strage, a cui lo stato apparentemente vittima dell’aggressione non poteva che reagire aggredendo, facendo la guerra ai perpetratori e ai loro “mandanti”. In tutti i casi, condizione indispensabile perché la “provocazione strategica” abbia effetto è che l’atrocità o l’aggressione da “punire” dispongano di una rete mediatica che sia in grado di diffondere in modo capillare, e ingigantire a dovere la “narrazione” desiderata, far montare la rabbia contro i perpetratori, giustificare una reazione spietata.
 

Tra i punti essenziali della narrazione c’è quasi sempre la rivendicazione di un ruolo di vittime dell’aggressione nemica, di “intollerabili atrocità” subite. Rigettando sulla parte avversa il rifiuto di una soluzione diplomatica delle controversie. Prima dell’attacco alla Polonia nel 1939, la stampa, totalmente asservita ai nazisti, col conforto di film e documentari di grande successo, aveva martellato sistematicamente sulle atrocità perpetrate dai polacchi nei confronti dei cittadini di etnia tedesca. Nel suo discorso al Reichstag, giusto alla vigilia dell’invasione, Hitler aveva detto, sapendo di dire il falso, che stava aspettando le proposte di un plenipotenziario polacco. Il pubblico tedesco era stato indottrinato a dovere sui piani di invasione polacca, sugli sconfinamenti armati. Così come poi sarebbe stato indottrinato a dovere sui piani giudaici per provocare la guerra mondiale e sull’obiettivo di “sterminare la nazione tedesca”. Il pubblico invocava a gran voce la guerra contro gli aggressori, così come avrebbe poi invocato, non solo accettato, lo sterminio degli ebrei. In quel clima, l’Operazione Himmler, che sarebbe stata a fine guerra svelata al processo di Norimberga, era solo una ciliegina sulla torta. Consisteva nella messa in scena di un finto attacco polacco contro la stazione radio nella cittadina di confine tedesca di Gleiwitz. Con tanto di cadaveri di polacchi veri, rivestiti con divise tedesche. L’ufficiale delle SS alla testa del commando in divise polacche aveva “catturato” la stazione e si era messo a trasmettere proclami anti-tedeschi. Ma aveva fatto un errore tecnico: anziché collegarsi alla rete che gli avrebbe permesso di far ascoltare quei proclami in tutta la Germania, li aveva diffusi solo nell’immediata prossimità. Ciò non impedì al giornale del Partito nazista, il Volkischer Beobachter, di dare notizia dell’attacco polacco alla stazione radio con tempestività record, c’è chi dice prima ancora che avvenisse, né a Hitler di citare il finto attacco nell’ultimatum immediatamente inviato a Varsavia. Non gli serviva neanche più. Il popolo tedesco appoggiava già anima e cuore, come un sol uomo, la punizione delle atrocità polacche (secondo la propaganda tedesca incoraggiate dietro le quinte, ça va sans dire, da Francia e Inghilterra).
 

In Ruanda, nel 1994, il pretesto per dare il via al genocidio (800.000, forse un milione di Tutsi massacrati a colpi di machete), era stato l’abbattimento dell’aereo su cui stava per atterrare nella capitale, Kigali, il generale hutu Habyarimana, dittatore assoluto sin da quando aveva preso il potere con un colpo di stato. Si ritiene che a sparare i missili che avevano abbattuto l’aereo presidenziale era stata gente della sua stessa tribù e fazione. Così i rivali all’interno della sua fazione si liberavano in un colpo solo di un capo scomodo e della etnia avversa. Il compito era facilitato dal fatto che entrambe le etnie erano bollate, avevano annotata la propria appartenenza sulle carte d’identità, sin dai tempi dell’amministrazione belga. Il massacro era stato preceduto da anni di sistematico battage pubblicitario, di denuncia delle atrocità commesse dai tutsi contro gli hutu, di semina di odio reciproco. Radio Ruanda e radio Mille Colline, di proprietà del dittatore Habyarimana, chiamavano i tutsi “scarafaggi”, ne invocavano apertamente lo sterminio, una pubblicazione arrivò a titolare che “la razza tutsi” si sarebbe “benissimo potuta estinguere”. Detto fatto. Alla prima occasione buona. Senza obiezioni. Con un’efficienza miracolosa: le uccisioni iniziarono subito, le liste delle persone da ammazzare erano pronte da tempo.
 

L’Unione sovietica fece ricorso a scuse speciose per schiacciare coi carri armati il governo che aveva accolto alcune delle rivendicazioni della rivolta ungherese, poi per innalzare il Muro a Berlino e infine per invadere la Cecoslovacchia. La Cina non ha nemmeno bisogno di scuse per occupare il Tibet o il Xinjiang, o per minacciare un’invasione di Taiwan. Gli Stati Uniti avevano buone scuse per intervenire in Corea. Meno buone per intervenire in Vietnam. Le scuse con cui Bush figlio invase l’Afghanistan dei talebani, e poi l’Iraq di Saddam, non hanno retto alla prova dei fatti e del tempo. In realtà non aveva bisogno di scuse: c’era stato il 9/11, i costituzionalisti neocon spiegavano che era stato eletto dal popolo, quindi era libero, anzi aveva il dovere di decidere e agire in base ai suoi princìpi. Obama aveva a che fare con una gran stanchezza per le guerre, quindi favorì la mediazione politica rispetto all’interventismo militare. Ancora glielo rimproverano. Biden ha il problema opposto. Comunque l’America si salva grazie al fatto che nessuno ha il monopolio della narrazione. Raccontata una storia, qualcun altro la demolisce. Anzi, il guaio è che gli americani non credono molto a quel che gli raccontano il governo, la stampa e le televisioni (lo dicono autorevoli analisi del Pew Research Center). Semmai credono troppo alle fake news che gli racconta qualcun altro.
 

Da che mondo è mondo si cercano pretesti per le guerre, gli eccidi, la vendetta. A questa affermazione si potrebbe fare un’obiezione: che a rigore i dittatori (e i più forti) non avrebbero bisogno di pretesti. Non hanno di che rendere conto. Potrebbero farlo e basta. Potrebbero rispondere, a chi obiettasse, come gli inviati ateniesi risposero, secondo Tucidide, ai melii: sottomettetevi perché siamo i più forti. I melii chiedevano di essere lasciati in pace, di non essere costretti a prendere parti nella guerra tra Sparta e Atene, proponevano agli ateniesi “di essere vostri amici, ma nemici di nessuno dei due schieramenti” (Tucidide, Storie, V, 116,4). Gli ateniesi gli dissero brutalmente che non avevano scelta: sottomettersi alle ragioni della forza, e divenire alleati di Atene, o subire le conseguenze, “sciagure irreparabili”. Li invitarono a mostrarsi saggi, a non cullarsi in illusioni, a “non considerare sconveniente il piegarsi al più forte”. Li invitarono a concentrarsi sul presente, in cui “le forze di cui disponete al momento sono insufficienti per avere la meglio su quelle che già sono schierate contro di voi”, e non invece su vane “speranze che si volgono al futuro”: che arrivino aiuti, che la fortuna volga in loro favore sul campo di battaglia, che a proteggerli venga un intervento divino (V, 111.1). Li avevano invitati a non volgersi “al sentimento dell’onore, che spesso procura grandi rovine”. I melii scelsero di resistere. Andò a finire male: “I melii, assediati fino allo stremo ed essendosi verificato tra di loro anche un tradimento, si arresero […] E gli ateniesi uccisero tutti i melii adulti e ridussero in schiavitù donne a bambini. Abitarono quindi loro stessi il territorio, inviando più tardi dei coloni…” (V, 116, 1, 3-4).
 

Diverso il caso degli antichi romani, i quali, secondo Polibio, si facevano sempre in quattro per giustificare agli occhi del resto del mondo le loro guerre. “Si adopravano al massimo per evitare di dare l’impressione di essere loro a dare inizio ad una guerra ingiusta, o di intraprendere guerre per impadronirsi dei vicini, e per mantenere sempre l’apparenza di difendersi e di essere costretti alla guerra” (frammento 99). Sentivano sempre il bisogno di un buon pretesto, di “un pretesto attraente” (un pretesto decente, decoroso, accettabile, presentabile). Anche quando si trattava di fare una nuova guerra contro l’arcinemica Cartagine. Non importa che avessero già deciso di farla comunque. O che fossero, come la superpotenza Atene di fronte alla minuscola isola di Melo, i più forti. Sentivano il bisogno di un casus belli, di una ragione plausibile. Che si trattasse di presunte violazioni di trattati, di minacce ad alleati, di autodifesa, di interessi commerciali, di crudeltà verso ostaggi e prigionieri, o di scorrerie di bande di predoni o di terroristi. L’analisi di Polibio è molto sofisticata. Distingue tra origine (archè), causa (aitía), pretesto (prófasis) delle guerre. Lo storico greco, che era stato schiavo (e forse amico) di Scipione, è convinto che un buon pretesto ci voglia sempre. Lo disturba che per la terza guerra punica, quella in cui distrussero completamente Cartagine, i romani di scuse non ne avessero nemmeno l’ombra

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