parole bandite
Se “terrorista” è un insulto razziale, il ribaltamento della realtà è completo
A lanciare la campagna contro l'ennesimo termine ritenuto "offensivo" è la piattaforma Slow Factory. Siamo davanti a uno dei numerosi esempi di coniugazione tra woke e islam: ideologia e opportunismo
Non bastava avere abusato del termine “genocidio” al punto da fargli perdere connotazioni e significato, occorreva anche disinnescare un’altra parola chiave per completare l’opera di ribaltamento della realtà: quella di “terrorista”, recentemente trasformata dal politicamente corretto in un “insulto razziale”.
A lanciare la campagna è la Slow Factory, una piattaforma pluripremiata che “immagina e progetta radicalmente soluzioni alle crisi che si intersecano tra giustizia climatica e diritti umani attraverso il cambiamento culturale, la scienza e il design”. La fondatrice è Céline Semaan Vernon, una rifugiata libanese residente in Canada, nota per l’attivismo sociale, in particolare nei confronti dei rifugiati, e per la difesa dell’identità araba e di pratiche sostenibili nella moda. Siamo davanti a uno dei numerosi esempi di coniugazione tra woke e islam dove le teorie antioccidentalistiche vengono strumentalizzate per proporre non solo una narrativa alternativa attraverso la ridefinizione della lingua ma di ribaltamento percettivo in senso lato. Imporre l’abbandono di alcuni vocaboli allo scopo di “non offendere” potrebbe essere liquidato come una forma di iper ingenuità puritana, non fosse che alcuni elementi fanno sospettare che dietro a questa assurda ideologia vi sia anche molto opportunismo.
“Queste narrazioni incendiarie, iperboliche e simpatizzanti del terrorismo sono esattamente il motivo per cui gli iraniani vengono linciati ogni giorno senza alcuna condanna morale da parte dell’occidente”, scrive l’attivista iraniana Elica Le Bon in polemica con la campagna della Slow Factory. In sé, la parola “terrorista” definisce persone che commettono atti di terrorismo, ovvero atti che instillano terrore nelle vittime. Pertanto: terrorista non è un insulto, ma una parola che descrive coloro che commettono atti volti a instillare terrore negli altri. E’ una parola che in nessun contesto può assumere un’accezione positiva. Per creare dunque una vicinanza o un senso di giustizia nell’azione terroristica occorre che essa non sia tale; bisogna eliminarne l’associazione mentale tra terrorismo e fondamentalismo islamico, anzi, andare oltre e far sparire anche parole come “fondamentalista” o “jihadista” associate all’islam.
Un recente articolo del Daily Wire a proposito della newsletter “The Dive”, prodotta dalla Intelligence Community Diversity, Equity, Inclusion, and Accessibility (IC DEIA) dal titolo “Le parole contano: cambiare la terminologia relativa all’antiterrorismo”, evidenzia gli sforzi per influenzare la terminologia utilizzata nel contesto dell’antiterrorismo. L’obiettivo è “districare l’islam dalle parole e dalle frasi usate per discutere di terrorismo e violenza estremista”. Parole come “jihadista”, “estremista islamico” e “islamista radicale” sono ritenute “offensive” e “problematiche” in quanto suggerirebbero che le credenze islamiche si sposino in toto con le azioni delle organizzazioni terroristiche.
Poco importa che molti di questi termini siano utilizzati dagli stessi gruppi (“jihadista salafita” da parte di al Qaida, per esempio), l’obiettivo è dissociare qualsiasi terminologia di accezione negativa. Allora, da un lato, si passa da “terroristi” a “combattenti”, in breve dall’illecito al dovuto e dal criminale all’eroe; dall’altro al paradosso che questi “eroi combattenti” che stanno compiendo “una guerra santa in nome dell’islam” non abbiano nulla a che vedere con l’islam. Ma non basta. Esiste poi il passaggio successivo, quando accanto alle ridefinizioni troviamo leggi che sposano la riscrittura del vocabolario. Prendiamo la Scozia, per esempio, la cui nuova legge, entrata in vigore il 1° aprile, prevede che una persona commetta un reato se percepita come minacciosa o offensiva. Ecco che se rappresentiamo “terrorista” come un “insulto razziale” nessuno può più parlare di “terrorismo di matrice islamica” senza rischiare la galera: non i giornalisti, non i politici o la polizia, non i giudici o la gente comune; la parola scomparirebbe insieme al suo stesso concetto.
Comincia allora a farsi strada l’idea che la limitazione della libertà di parola sia espressamente mirata a limitare la possibilità di contrapporsi a determinati fenomeni. E se, da un lato, in Scozia non ci si può più pronunciare contro la teoria del gender senza commettere un reato (fatto vocalmente contrastato da J. K. Rowling); dall’altro, i paladini della Teoria critica della razza si ergono in difesa del fondamentalismo islamico impedendo anche solo di nominarlo. Strategicamente ha un senso: se un fenomeno non può essere definito non esiste e se non esiste non può essere contrastato.