(foto EPA)

la riflessione

I tabù sulla demografia che destra e sinistra non vogliono superare

Gian Carlo Blangiardo

Siamo reduci da decenni di sottovalutazione del tema da parte della nostra classe politica. Adesso però è tempo di darsi da fare, e occorre farlo prescindendo dalle bandiere e dalle etichette ideologiche

L’attenzione al problema demografico è di destra o di sinistra? Quel che è certo è che quando anni fa i primi sintomi critici già si profilavano all’orizzonte (seppur timidamente), la demografia non era nelle priorità dei governi “centristi” di allora. Non lo era nel lontano 1977 durante il terzo governo Andreotti, allorché ci si accorse che la popolazione italiana era scesa per la prima volta (e da allora definitivamente) sotto la media dei due figli per donna che garantiscono il ricambio generazionale. Anzi, in quell’anno, tra coloro che ancora agitavano lo spettro planetario della “bomba demografica” – e non erano pochi – si salutava con favore l’incessante discesa che, in poco più di un decennio, aveva ridotto le nascite a “sole” 757 mila unità (comunque oltre 200 mila in più rispetto al corrispondente numero di morti). Non si ebbero modo di cogliere reazioni istituzionali neppure qualche anno dopo da parte del governo Cossiga, quando dalle pagine del “Rapporto sulla popolazione in Italia” (Istituto delle Enciclopedia Italiana, 1980) – di cui lo stesso Presidente del consiglio presentava il contenuto come esempio da seguire e da meditare – eminenti studiosi titolavano “La popolazione invecchia” e non mancavano di segnalare “Alcune conseguenze del declino delle nascite”, ventilando altresì il dubbio – che con il senno di poi ci fa sorridere  – “L’Italia paese di immigrazione?”.

 

Il silenzio dei vertici politici si mantenne immutato anche a distanza di un decennio, all’epoca del sesto governo Andreotti allorché, nel contesto di un ormai consolidato passaggio sotto il confine dei 600 mila nati, la comunità Scientifica, affiancata da autorevoli istituzioni (Fondazione Agnelli , Il futuro degli Italiani, 1990), si interrogava sulle problematiche legate a un cambiamento demografico che andava sempre più manifestandosi con intensità e toni inattesi (Blangiardo G.C., Meno Italiani, più problemi?, Bariletti 1990).

Dobbiamo tuttavia arrivare al Berlusconi I (1994/1995) per incontrare in sede governativa un diretto coinvolgimento attraverso l’istituzione di un Ministero titolato ad affrontare le tematiche di “Famiglia e Solidarietà sociale”. Una scelta che appare confermata nel successivo governo Dini (1995/1996), salvo poi veder scomparire la famiglia – lasciando unicamente la solidarietà sociale – nei successivi governi Prodi I (1996/1998) e D’Alema I e II (1998-2000). Il tema famiglia verrà poi recuperato, ma solo a distanza di tempo, nel secondo governo Prodi (2006-2008) – con “Politiche per la famiglia” – e, dopo una pausa decennale, nel primo governo Conte (2018/2019), con “Disabilità e famiglia”, e infine con “Pari opportunità e famiglia” nel Conte II (2019-2021) e nel governo Draghi (2021/2022). In effetti, a distanza di quasi mezzo secolo dalle iniziali criticità affiorate nel 1977, il primo esplicito segnale “istituzionale” di attenzione al tema della natalità in Italia si può dire sia entrato nelle stanze di Palazzo Chigi solo con la comparsa del ministero “Natalità, Famiglie e Pari opportunità” varato (nel 2022) col governo Meloni. Il fatto che nel frattempo il numero annuo di nascite si sia dimezzato (-48%), così come la circostanza che, rispetto al 1977, la percentuale di giovani (0-19anni) si sia ridotta di tredici punti percentuali (dal 30% al 17%), e che persino il numero di abitanti – se dovessimo prescindere dal contributo (allora inatteso) di una componente straniera che oggi arriva a contare 5,3 milioni di residenti – segnerebbe una riduzione di 2,5 milioni di unità, deve indurci a riflettere in modo oggettivo e senza condizionamenti di partito.

 

Prendiamo atto che siamo reduci da decenni di distrazione/sottovalutazione del tema da parte della nostra classe politica e che ciò ha portato alle criticità che oggi stiamo vivendo, e con cui dovremo verosimilmente convivere in futuro per lungo tempo. Adesso però è tempo di darsi da fare, e occorre farlo prescindendo dalle bandiere e dalle etichette. Il governo della demografia non può permettersi di scontare vincoli ideologici. 

Nella vicina Francia, dove non a caso la dinamica della natalità va assai meglio che da noi, si è sempre esercitata con continuità un’attenzione di tipo trasversale ai temi demografici. Se oggi Macron prende spunto dal passaggio sotto quota 700 mila nati per esortare a prevenire la crisi attraverso un “riarmo demografico” è forse perché nel suo stesso ruolo c’era chi, seppur in un campo politicamente diverso, già più di quarant’anni fa ammoniva che “La demografia (di oggi) scrive l’avvenire con venti o trenta anni di anticipo” (Giscard d’Estaing, 1980). Ricordiamoci che le buone pratiche, se realmente lo sono, non hanno colore.

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