Riti moderni
Il gender, un'iniziazione: il puzzle del trans debate
La transessualità alla luce dei riti di passaggio all’età adulta (quasi scomparsi): un nuovo rito di pubertà che prevede di inibire chimicamente la pubertà? Spinte ambivalenti, tra antropologia e psicoanalisi
Ho sotto gli occhi i tasselli di un puzzle intellettuale che mi sta facendo uscire matto. Di pezzi ne ho solo una manciata, in verità: gli altri non ho idea di dove siano, e se mi mettessi in testa di radunarli tutti qui sul mio tavolo mi ci vorrebbero anni di ricerche in campi che peraltro non padroneggio, e che frequento soltanto da lettore curioso. Sento già l’obiezione degli indaffarati: benissimo, fruga sotto letti, divani e tappeti, rintraccia i pezzi mancanti (sempre che non li abbia mangiati il cane), e torna a disturbarci solo quando avrai completato il puzzle. E normalmente darei loro ragione, se non fosse che i miei pochi pezzi, disposti con un po’ d’immaginazione, lasciano intravedere una figura che mi sembra urgente rivelare, e che da solo non sono in grado di completare; perciò mi auguro, con questo messaggio in bottiglia, non tanto di aprire una discussione collettiva (sarebbe pretesa immodesta), quanto di imbattermi per avventura in qualche lettore in possesso dei pezzi che mi occorrono.
Partiamo dall’ultimo tassello che mi è caduto sulla scrivania. Era nascosto in un articolo della filosofa Kathleen Stock a commento della Cass Review, il rapporto britannico che ha svelato le basi scientifiche inconsistenti o inesistenti su cui poggia l’approccio cosiddetto “affermativo” nella cura dei minori affetti da disforia di genere, un approccio imperniato sui bloccanti della pubertà e sugli ormoni. Scrive Stock che il rapporto di Hilary Cass è tanto devastante nei contenuti quanto eufemistico nei toni, e che la cura messa dalla pediatra nell’indorare la pillola si deve forse al fatto che i suoi primi destinatari – medici, genitori e pazienti – sono così immersi nella loro ideologia che bisogna non solo informarli ma “deprogrammarli”, come si fa con i membri di una setta. E in effetti, Stock ritrova diversi indicatori dell’appartenenza a un culto: la fervida credenza in un nuovo stile di vita trascendente, l’introduzione a un mondo mistico fatto di simboli e bandierine, la pioggia d’amore e di queer joy che accoglie i nuovi adepti, la chiusura al dialogo con il resto del mondo (no debate), l’invito a separarsi dalla propria famiglia se questa si oppone alla transizione, infine il “legame d’odio” o hate-bonding, ovvero l’inquadramento automatico delle voci critiche tra i nemici da screditare con ogni mezzo.
Confesso che paragoni come questo, sulla carta, hanno tutto per lasciarmi freddo. Ho cominciato a diffidarne quando, venticinque anni fa, studiavo la sociologia delle cosiddette religiosità secolari: a voler vedere in ogni gruppo chiuso una setta, in ogni ideologia il surrogato di una religione, in ogni rito quotidiano una liturgia profana, si finisce per smarrire il senso e l’utilità delle parole. Per giunta, nella nostra società divisa per bolle, è fin troppo facile abusare allegramente di queste categorie, tra chi parla della setta dei seguaci di Trump, chi della setta woke, chi della setta grillina, chi della setta antivaccinista. Nel caso della gender affirmation, tuttavia, c’è una differenza essenziale; perché, al di là delle analogie più effimere, i membri di questo culto secolare amministrano quello che è a tutti gli effetti un “rito di passaggio”, vale a dire la transizione. Se proviamo a osservare le cose con gli occhi di un antropologo o di uno storico delle religioni, saremo frastornati dall’affollarsi delle corrispondenze. Si comincia con la transizione sociale, quando il novizio adotta un nome nuovo e dei nuovi pronomi: dopo questa morte iniziatica, evocare l’antica identità sarà deadnaming, equivarrà cioè a riferirsi a una persona che non esiste più.
E’ una delle usanze più diffuse nei riti di pubertà arcaici, come ricorda Mircea Eliade nel suo studio sulle iniziazioni (La nascita mistica): in Liberia, quando i novizi sono resuscitati a nuova vita e “ricevono il tatuaggio e un nuovo nome, sembrano aver dimenticato tutto della loro vita passata”. Il passo successivo è la transizione chimica e ormonale, che può trovare il suo analogo nell’ingestione di droghe rituali (e non è un caso che la subcultura transgender abbia accolto nel suo canone la favola tecno-iniziatica di Matrix, in cui gli ormoni sono allegorizzati dalla “pillola rossa” liberatrice). Il processo di morte e rinascita culmina infine nella chirurgia di gender reassignment: “Ne vien fuori un individuo mutilato dall’umanità comune attraverso un rito di separazione (di qui l’idea del tagliare, del perforare ecc.) che, automaticamente, lo aggrega a un gruppo determinato e in modo tale che, poiché l’operazione lascia segni indelebili, l’aggregazione risulta definitiva”. A scrivere queste parole non è la pediatra Hilary Cass, ma l’etnologo Arnold Van Gennep in una pagina dei Riti di passaggio, il classico dell’antropologia pubblicato a Parigi nel 1909: “Si nota che il corpo umano è stato trattato come un semplice pezzo di legno che ciascuno dispone e sistema a suo modo”. Tra le procedure della chirurgia iniziatica primitiva – che possono andare dall’avulsione di un dente alla subincisione dell’uretra all’escissione del clitoride – la più comune è senz’altro la circoncisione. E una coincidenza decisamente ironica vuole che la storia medica del fenomeno transgender s’intrecci alla storia di una circoncisione disastrosa, quella che nel 1966 castrò il piccolo Bruce Reimer, a seguito della quale il sessuologo John Money – il primo teorico dell’identità di genere – convinse i genitori a compiere un esperimento crudele e fallimentare: crescere il povero Bruce come se fosse una bambina, Brenda.
Qualcuno, molti anni fa, aveva già adottato una chiave simile alla mia. In uno studio compiuto tra il 1979 e il 1981 – una tesi di dottorato che sarebbe stata pubblicata qualche anno dopo in volume con il titolo In Search of Eve: Transsexual Rites of Passage – l’antropologa Anne Bolin aveva studiato la transessualità alla luce dei rites de passage, facendo tesoro della lezione di Van Gennep. Ignoro se qualcuno abbia ritentato la sua impresa in tempi più recenti (è uno dei pezzi mancanti del mio puzzle), ma spero vivamente che sia così, perché il campione studiato da Bolin – una quindicina di transessuali adulti, per lo più fra i trenta e i cinquant’anni – può dirci ben poco sulla popolazione giovanissima al centro del rapporto Cass, presso la quale l’età della transizione si sovrappone perfettamente all’età canonica di un tipo particolare di riti di passaggio, i rituali di iniziazione associati alla pubertà. Saremmo dunque in presenza di un nuovo rito di pubertà che prevede di inibire chimicamente la pubertà? Il puzzle, come vedete, si fa sempre più esasperante: mancano troppi pezzi. Ma tentiamo ancora.
Della scomparsa dei riti di passaggio in occidente si discute da almeno un secolo, e contestualmente si registra il fiorire di una grande varietà di iniziazioni succedanee, suscitate da un bisogno psicologico imperioso che le istituzioni sociali lasciano inappagato. Il caso più vistoso e forse anche più pittoresco di ricreazione in vitro dei riti di passaggio antichi è il Mythopoetic men’s movement americano degli anni Ottanta, che aspirava a rifondare le iniziazioni maschili all’età adulta. Tra i suoi ispiratori ideali c’erano due junghiani, il poeta Robert Bly e il mitologo Joseph Campbell, l’autore di quell’Eroe dai mille volti che avrebbe dato la stura a un’infinità di favole iniziatiche, sia letterarie sia cinematografiche, prodotte in serie sullo stampo del “viaggio dell’eroe”. E non è casuale che a rivendicare il ruolo di iniziatore dei giovani maschi sia oggi un altro e più improbabile junghiano, il canadese Jordan Peterson. Ma il discorso ci porterebbe lontano. Il dato certo è che l’ultima stagione sta spazzando via anche gli estremi, residuali vestigi dei riti di passaggio all’età adulta: la leva obbligatoria, l’aura solenne dell’esame di maturità o della laurea, e così via. La scansione delle fasi della vita si è ingarbugliata, il confine tra le classi d’età si è fatto sempre più sfumato e indecifrabile. Di fatto, a segnalare l’ingresso nella vita matura non ci resta che l’iniziazione biologica della pubertà, un’iniziazione inscritta nei corpi, che è tumultuosa nelle femmine (le mestruazioni sono state definite un passage sans rite) e più blanda nei maschi. Proprio i processi su cui intervengono le cosiddette cure per la gender affirmation. Ed è qui che il puzzle degli adolescenti transgender, e della loro esplosione negli ultimi anni, si fa davvero misterioso.
Eliade si trattiene a lungo sulla subincisione del pene, che è la creazione simbolica di un organo sessuale femminile sanguinante (qualcuno potrebbe dire che è un antenato primitivo della moderna vaginoplastica), e menziona certe tribù australiane che chiamano il neofita appena operato “colui che ha una vulva”. Interpreta questa pratica alla luce dell’androginia mitica, ma riconosce che si tratta di un tema su cui uno psicanalista potrebbe avere cose interessanti da dire. E proprio da uno psicanalista, ancorché molto controverso, ho ricavato un altro pezzo del mio puzzle. Non un solo pezzo, in verità: lo studio di Bruno Bettelheim sui riti di pubertà, Ferite simboliche, pur avendo quasi ottant’anni offre moltissimi tasselli preziosi per chi oggi si interroghi sul “momento transgender”. Bettelheim esaminava il travestitismo rituale comune nelle iniziazioni arcaiche come parodia ostile della donna, evocava i motivi folklorici dell’uomo incinto e delle mestruazioni maschili, sfiorava perfino la moda futura dei preferred pronouns (una sua paziente dodicenne, convinta di essere un ragazzo, esigeva di essere chiamata “lui” e dettava agli altri le sue regole linguistiche). Qui mi limiterò a pescare dalla sua scatola un solo pezzettino, che però è anche il più importante, quello su cui si regge l’intera teoria. Bettelheim prendeva le mosse da un assioma psicoanalitico fondamentale: “un sesso prova invidia per gli organi e le funzioni sessuali dell’altro sesso”, e in questo assioma gli sembrava di poter rinvenire la chiave per decifrare le complesse cerimonie di iniziazione antiche e le loro sopravvivenze nell’inconscio dei moderni.
Alle interpretazioni dominanti dell’antropologia, che vedevano nei riti di pubertà un significato essenzialmente progressivo – l’abbandono dell’infanzia, l’ingresso formale nella vita adulta e nei suoi ruoli – Bettelheim contrapponeva la sua lettura freudiana fondata sulla coesistenza e l’ambivalenza di due spinte, una progressiva, verso l’età adulta, e l’altra regressiva, rivolta all’indistinzione sessuale dell’infanzia: “Possiamo scorgere in queste usanze un estremo tentativo ritualizzato di godere di un ruolo sociale, e soprattutto sessuale, diverso da quello prescritto dalla società e imposto dalla natura. E’ nel momento in cui stanno per varcare la soglia dell’età adulta, che si offre alle fanciulle e ai ragazzi un’ultima occasione di recitare entrambi i ruoli sessuali. Nel corso dell’iniziazione un tale desiderio sembra espresso molto vivamente, perché è l’ultima volta che potrà esserlo; in seguito, ciascuno dovrà insediarsi in modo permanente nel ruolo unico assegnato al suo sesso”.
Forse la moltiplicazione esponenziale delle richieste di transizione a cui assistiamo negli ultimi anni – al di là dei casi, sempre esistiti ma numericamente sempre marginali, di genuina disforia di genere – rivela anch’essa una spinta ambivalente: da una parte testimonia una fame di iniziazioni rituali che l’epoca attuale non soddisfa in nessun modo; dall’altra, questa fame si proietta sugli aspetti regressivi più che su quelli progressivi, ossia sul desiderio di eternare indefinitamente “l’ultima occasione” di cui parlava Bettelheim per vivere nel sesso opposto, o al di qua della distinzione tra i sessi (è il caso delle persone cosiddette non binary).
E’ un’ipotesi-sonda, la mia, un primo tentativo interlocutorio di incastrare i tasselli del puzzle, a cui non attribuisco neppure la dignità di una congettura compiutamente formulata, tanto più che non sono né un antropologo né uno psicoanalista. La condanna della mia mente balzana, del resto, è di produrre più supposizioni di quante sia in grado di sostanziare con gli studi, ed è per questo che ho bisogno costante di aiuto. Sarò grato ai lettori del Foglio meglio attrezzati di me se, frugando sotto i loro divani o più verosimilmente sugli scaffali delle loro librerie, troveranno qualche altro tassello del puzzle. I pezzi sparsi che ho messo insieme sul tavolo non rivelano ancora una figura leggibile, compongono solo un geroglifico sociale muto e beffardo; ma da quel poco che si riesce a intravedere, è un geroglifico che sarebbe bene decifrare, così da poter impostare in modo meno miope e meno ideologico il dibattito su un tema che, prima di essere medico o politico, è un tema squisitamente antropologico.
Non ne va soltanto della sicurezza dei farmaci, della validità dei protocolli, degli effetti collaterali a lungo termine, delle buone o cattive prassi dei servizi sanitari. E’ in gioco una questione infinitamente più grande: il significato sociale che attribuiamo alle età della vita. Per questo è illusorio, ancorché comprensibile, l’auspicio di alcuni di stralciare questo tema dall’agenda delle “guerre culturali” per consegnarlo interamente al dibattito medico e psichiatrico. Semmai, dovremmo augurarci (ma vedo bene che è un auspicio altrettanto illusorio) che le guerre culturali siano combattute in modi meno tribali, sguaiati e feroci, specie quando c’è di mezzo la vita dei bambini e degli adolescenti. Perché l’alternativa al conflitto tra i valori non c’è: quand’anche si scoprisse che i bloccanti della pubertà non fanno danni, resterebbe in piedi la questione se per gli adulti sia legittimo, giusto o auspicabile inibire in un ragazzino l’esperienza della pubertà. Un fronte nuovo si è ormai aggiunto alle guerre culturali, e tutto lascia presagire che si farà decisivo negli anni a venire. Oggi lo chiamano trans debate, ma io dico che presto dovremo ribattezzarlo la battaglia sulle iniziazioni.