Judith Butler - foto via Getty Images

L'incontro

Da Gaza alle sale parto occidentali, Judith Butler vede fascisti dappertutto

Marina Terragni

La lecture bolognese della filosofa insegnante all'Università di Berkeley: tra retorica grossolana, gender theory, oppressione, diritti negati, il genocidio di Gaza e qualche kefiah d'ordinanza. Com'è andata

Non proprio come la coetanea Madonna a Copacabana, ma quasi: il tour europeo di Judith Butler con il suo “Fascist Passions” è trionfale, la data di Bologna, città più butleriana d’Italia – organizzazione università Alma Mater Studiorum – è andato rapidamente sold out, la sala stracolma di ragazzi, tutto il queer locale in prima fila, qualche kefiah d’ordinanza. Come Madonna Judith fa ballare il mondo da un trentennio: professoressa a Berkeley, costruttivista radicale madre di ogni gender theory, è riconosciuta anche dai suoi detrattori come filosofa tra le più influenti del nostro tempo e a tutti gli effetti lo è. Se perfino il più piccolo amministratore locale oggi si ritrova a fare i conti con il concetto neo gnostico di identità di genere, anima intrappolata in un corpo-prigione – mentre Judith teneva la sua lezione a Bologna, in regione Lombardia era in corso un’infuocata assise sulla triptorelina e la transizione dei bambini –, se l’identità transgender si pone come paradigma della libertà umana, grande parte delle responsabilità è in capo a questa donna minuta con regolamentare giubbino butch di pelle nera che da ragazza fece partire il suo fuoco d’artificio con Gender Trouble (1990). “Durante la mia giovinezza negli Stati Uniti”, racconterà in “Fare e disfare il genere,“l’autodescrizione più efficace che di me riuscissi a dare era ‘lesbica da bar’ (bar dyke), una ragazza lesbica che trascorreva le sue giornate leggendo Hegel e le sue serate al bar gay, che occasionalmente diventava un bar drag (…) mi resi conto in fretta che alcuni di quegli ‘uomini’ potevano fare le donne molto meglio di quanto sarei riuscita a fare io, e anche di quanto abbia mai desiderato e desideri tuttora”. Platea bolognese in religioso silenzio, Butler legge dal suo iPad un testo che con poche modifiche ha già declamato anche alla London School of Economics e che richiama i contenuti del suo ultimo "Who’s afraid of gender?".

 

 

Introducendo la prestigiosa ospite la delegata all’inclusività di Alma Mater sgombra subito il campo dalla pietra dello scandalo: “Non si tratta di negare la biologia, ma il determinismo biologico” (a essere precisi Butler da sempre parla del sesso come costruzione del linguaggio, ma tant’è) e con voce rotta dall’emozione anticipa i temi della lecture: catastrofe umanitaria, lotte nelle università, attacco universale ai diritti, nuovi autoritarismi che agitano il fantasma del gender, necessità di costruire alleanze.
 

Judith, ebrea, parte da Gaza e dal diritto-dovere di parlare di “genocidio” anche se, ammette, “sono state terribili le atrocità di Hamas”. Ma “oggi il fascismo è in Israele, nell’ebbrezza omicida contro donne e bambini”. Con rapido volo transoceanico si sposta negli Stati Uniti dove, dice, si assiste “a un’escalation di fascist passion: non è forse fascismo”, chiede, “voler eliminare le persone trans e non binarie?”. Anche quello è un genocidio. Il genocida-tipo è Michael Knowles, commentatore politico del Daily Wire secondo il quale “per il bene della società il transgenderismo deve essere eliminato interamente dalla vita pubblica”, cosa ben diversa dal voler eliminare le persone trans. L’espediente retorico è grossolano, ma le sottigliezze filosofiche scarseggeranno per tutta la lecture, frenetico andirivieni tra il medio oriente e le sale parto occidentali dove d’autorità ci viene assegnato un sesso alla nascita. “Vita”, dice lennonianamente Butler, “è il divario tra questa assegnazione e quello che saremo. Che cosa c’entra questo con Gaza?”, anticipa la ragionevole obiezione. “Si tratta dello stesso fascismo”. Fascista Israele, fasciste le politiche anti migratorie, fascista la mancanza del giusto processo, fascista la difficoltà a trovare casa e anche l’abolizione dei libri gender nelle scuole. Fascista il femminismo gender critical alleato delle destre e del Vaticano che teme la sostituzione etnica delle donne con le persone trans. Fascista è negare i diritti riproduttivi e alla genitorialità e lottare contro la surrogacy. Fascista, ovvio, è Giorgia Meloni.
 

La voce di Judith si rompe – applauso di incoraggiamento – quando dice che alla base di tutti questi fascismi non c’è che paura. Digressione psicoanalitica a seguire che stigmatizza il moralismo eccitato e sadico di chi pensa di restaurare il vecchio mondo patriarcale agitando il fantasma della lobby gender per distogliere dai veri problemi, dalla crisi climatica alle ingiustizie sociali. “E allora si tratta di essere interconnessi. Di far diventare la libertà e la giustizia nuovi oggetti di desiderio”. Tutte le minoranze, le donne (?), gli lgbtq+, i migranti, i palestinesi, le persone nere, i senza-casa, gli antifa, gli studenti in lotta and so on devono dare vita ad alleanze transnazionali per edificare “una democrazia radicale ispirata agli ideali del socialismo” contro il capitalismo neoliberista. Che, sia detto per inciso, con il butlerismo reale ci fa grandi affari. Il mercato non mente ed è molto capace di intercettare gli umori circolanti e trasformarli in prodotti da banco: da tempo il queer è decisamente mainstream. Quanto a Gaza – colpo di realpolitik – Judith dice che l’ideale sarebbe un unico stato democratico.
 

Intercetto Butler nel foyer dopo la standing ovation. Sono emozionata e delusa, vorrei parlarle di tante cose. Riesco a dirle giusto delle manifestazioni pro sharia ad Amburgo e in Francia, di un islamismo radicale aggressivo a cui lei non ha dedicato una parola, altro che Queer for Palestine: “A Gaza”, liquida la questione, “c’è un notevole movimento queer che lotta per la libertà e per la giustizia”. Le chiedo anche della Cass Review, di quelle migliaia di bambine e bambini occidentali bombati di ormoni. “Penso”, risponde, “che i bambini non debbano essere spinti in nessun modo. Che bisogna dare loro il tempo di esplorare, di sperimentare”. Ho capito bene? Almeno questo, Judy. 

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