la riflessione
Il destino degli altri, anche dei tanti Kabobo, ci riguarda sempre
L’abbandono in cui vengono lasciati tanti esseri umani, spesso nei centri cosiddetti di accoglienza tra violenze e paura, dovrebbe interessare tutti. Anche quelli gridano “tornino a casa loro” e “prima gli italiani”. Certe volte basterebbe preoccuparsene davvero per evitare una tragedia
In una piazza di Canelli, Asti, posto pacifico tra le vigne di grignolino e barbera, dieci giorni fa un ragazzo di diciotto anni è stato ammazzato a sprangate da un coetaneo. Non ne avete sentito parlare perché il ragazzo era del Gambia, e l’assassino pachistano. Due ospiti del locale centro per richiedenti asilo. Violenza fra immigrati: come notizia, valore zero.
L’altra sera però un migrante egiziano ha divelto pezzi di marmo alla Centrale di Milano e si è messo a lanciarli. Per fermarlo hanno dovuto sparargli a una spalla. Due giorni prima, un altro: marocchino, già formalmente espulso, alla Stazione di Lambrate gettava pietre sui treni. Ha accoltellato un agente, che è in condizioni gravissime. Adesso naturalmente gran rumore sui media. Questa volta la cosa ci tocca da vicino.
In realtà, ci sarebbe da stupirsi che simili episodi siano ancora relativamente rari. Se pensate a quali sofferenze, traumi, abusi abbiano passato molti di quelli che sono arrivati qui dal deserto e dal mare, viene da dirsi che per molto meno tanti di noi andrebbero fuori di testa. Ci sono uomini, nei centri cosiddetti di accoglienza, che le violenze e la paura subite hanno ridotto a ordigni pronti a scoppiare. Spesso quei disgraziati se la prendono fra di loro, o danno fuoco ai materassi – e allora, pazienza. Se però, drogati o ubriachi o impazziti, aggrediscono noi, la cosa dovrebbe finalmente preoccuparci.
L’abbandono in cui vengono lasciati tanti esseri umani – venuti qui anche per quel principio secondo cui “la natura aborre il vuoto”, la natura aborre il nostro vuoto demografico, e tende a colmarlo – riguarda anche quelli che gridano “tornino a casa loro”, quelli che “prima gli italiani”.
Ricordate Kabobo, il ghanese richiedente asilo che nel 2013 a Niguarda, periferia di Milano, uccise a picconate, senza un perché, tre passanti? Al processo raccontò la sua odissea. Devastante. Ghana, Nigeria, Libia, il Mediterraneo, Lampedusa. Finì in carcere, tentò di impiccarsi. Poi cominciò a sentire le voci. “Iniziavo – disse ai giudici– a pensare come una persona che stava impazzendo”. Mendicava per Milano, come tanti. Poi, un’esplosione di schizofrenia paranoide.
Per caso, anni dopo, per un servizio per Avvenire entrai nell’allora opg di Castiglione delle Stiviere. Quell’omone nero in giardino lo avevo visto sui giornali. Era Kabobo. Stava annaffiando le rose. Mi sorrise. Con i farmaci era un uomo pacifico. Sarebbe bastato curarlo.La dimostrazione che il destino degli altri, anche quello degli “invisibili”, ci riguarda. A volte se la prendono fra di loro. A volte, no. Comunque quel ragazzo ucciso a sprangate a Canelli si chiamava Nafugi Manneh, e aveva diciotto anni. A quell’età, per noi i nostri figli sono ancora quasi bambini.
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