C'era una volta l'Italia delle maggiorate. Ma le tette sono tornate a creare scompiglio
Macché dominio maschile: il corpo della Loren e delle altre era il simbolo di un paese affamato di libertà. Quant’è difficile parlarne oggi, fra porno e sessuofobia
“Quando ho fatto i primi film avevo quattordici anni, non sapevo niente e non capivo proprio niente”, dice Sophia Loren chiacchierando con Arbasino, mentre gironzola con un pigiama di surah marrone nel suo appartamento davanti al Campidoglio, “tra pareti affrescate e stucchi sul soffitto, divani color panna con tanta frangia e una minuscola corte adorante che la segue in punta di piedi sulla moquette”. E’ la primavera del 1960. Sophia Loren ha ventisei anni. E’ appena rientrata a Roma da Hollywood per girare “La Ciociara”. E’ molto diversa dalla ragazza spaesata che Carlo Ponti aveva catapultato in America qualche anno prima, e che Oriana Fallaci raccontava con gran cattiveria: “6 bauli di vestiti, 65 paia di scarpe, 20 cappelli, 30 bambolotti portafortuna, non le è stata insegnata la ‘sofistication’ (con una perfida “f” al posto di “ph”), fa brutte figure, chiama i domestici ‘servi’ e per la stampa femminile non è altro che ‘una florida contadina’”). Di quella florida contadina senza “sofistication” non c’è quasi più traccia. Loren si è trasformata. Ha vissuto a Hollywood e New York. A Londra è diventata amica di Peter Sellers. A Parigi è “uscita tutte le sere, sempre con gente straordinaria”. Ha studiato. Con Arbasino parla di Gide, Sartre, Voltaire, non per darsi un tono ma per dire che sono “nomi che prima non sapevo dove mettere, oggi almeno mi rendo conto di cosa rappresenta il Candide”. Butta lì anche l’idea niente male di un film tratto da “Les caves du Vatican” da mettere in mano a Fellini (Sorrentino, se ci leggi pensaci). Due anni più tardi arriva l’Oscar per “La Ciociara”. Il Time le dedica un ritratto di prima pagina. L’attacco è memorabile: “I suoi piedi sono troppo grandi. Il naso è troppo lungo. I denti sono irregolari. Ha un collo da ‘giraffa napoletana’, e un girovita che sembra iniziare coi fianchi. Si muove come un terzino. Ha delle mani enormi, la fronte bassa, la bocca troppo grande, ma… mammamia è davvero stupenda”.
Tra le tante pagine dedicate a Sophia Loren le più belle sono però quelle di Giuseppe Marotta, appassionate, travolgenti, piene di fuochi d’artificio come la festa di Piedigrotta. Alla fine degli anni Cinquanta, Marotta pubblica su L’Europeo tre finte inchieste dedicate a Marilyn Monroe, Brigitte Bardot, Sophia Loren. Il meglio naturalmente lo dà con Loren. Ecco le “gambe concrete e astratte, lunghe come le notti di Natale”. Ecco i fianchi “torbidi e guizzanti come schiene di gatti”. Ecco la simbiosi, lo sconfinamento di Loren nel paesaggio meridionale da cui scaturisce come una divinità pagana: “Pare che il cielo e il mare di Sorrento (per tacere dei pesci e degli aranci) le abbiano detto: ‘Facciamo così: tu ci rendi sensuali, carnali, inquietanti; e noi, fidati, spiritualizziamo te’”. Vale la pena rileggersele ora che si avvicinano questi incredibili novant’anni di Sophia Loren (li compie il 20 settembre, una settimana prima di Brigitte Bardot). Grandi festeggiamenti, celebrazioni, omaggi per un compleanno che si annuncia come una festa nazionale, anche se lei vive ormai da molti anni a Ginevra (pare però guardi molta tv italiana, soprattutto Rete 4, con una predilezione per la cronaca nera). “La” Loren, con articolo femminile, come “la Repubblica” e “la Costituzione più bella del mondo”, di vite ne ha vissute davvero tantissime (è stata anche diciotto giorni nel carcere di Caserta, per evasione fiscale, sempre con tacchi e lunghe ciglia finte; la arrestarono all’aeroporto di Fiumicino come un trafficante di coca, trentuno anni dopo la Corte di Cassazione le darà ragione: la voglia di gogna e ribalta di giudici e questurini è uno sport nazionale irrefrenabile, col magistrato solerte che si recava in cella di persona verificando non ci fossero privilegi per l’illustre detenuta).
Sulla scia di questi ormai prossimi novant’anni, esce un numero di “Bianco e Nero”, la rivista del Centro Sperimentale, curato da Piera Detassis, tutto dedicato a Sophia Loren. Raccoglie testimonianze, analisi, materiali anche pazzeschi (per esempio le foto di Rodrigo Pais scattate sui set: Mastroianni e Loren che girano “Matrimonio all’italiana” in strada, a Napoli, tra centinaia di persone arrampicate sui muri che si sporgono per vedere meglio, come alle processioni dei santi). C’è anche Natalia Aspesi: “Per me Loren è stata importantissima”, dice. “Ho enorme ammirazione per una donna che con tanta fatica, in tempi in cui farlo era difficilissimo, è riuscita a entrare nel cinema diventando una grande diva. All’uscita dalla guerra eravamo tutte brutte per la fame e malvestite per la povertà, così umiliate, e lei possedeva invece questa bellezza prepotente che ci illuminava di colpo indicando una diversa possibilità di esser donna. Uno dei ricordi più forti è la sua camminata in ‘L’oro di Napoli’, la pizzaiola Sofia che, sfacciata, fende la pioggia con tutti gli sguardi maschili addosso e si fa largo, grembiule sui fianchi, ancheggiando decisa sui tacchi, a petto in fuori, mentre dietro di lei arranca il marito rassegnato e vinto”.
Questi novant’anni di Loren sono allora anche l’occasione per tornare su quel fenomeno incredibile e imprescindibile per capire l’Italia del boom che furono le nostre “maggiorate fisiche”. Prima della democraticizzazione del botox, della chirurgia plastica, di labbra e zigomi “fillerati”, prima del body-positive, dei corpi non-normati, dell’idea che la bellezza sia un privilegio da nascondere, il termine indicava un talento naturale, un dono, una proporzione aurea tra fianchi-vita-tette, anche se il cinema, naturalmente, ci metteva molto di suo per esaltarla. Se però oggi dico “le maggiorate” i miei studenti non capiscono. Alcuni pensano stia usando un termine desueto, tipo “sonetto”, per dire semplicemente “curvy”. Altri capiscono “majorette”. Altri ancora credono sia una categoria di YouPorn.
Nessuno localizza il fenomeno in Italia e quando va bene dicono “ah sì… Marilyn Monroe”. Quasi tutti mi vedono come un maschio bianco privilegiato eccetera, alle prese con una “pratica di oggettificazione” del corpo femminile ridotto a immagine-merce-feticcio eccetera. Sarà forse impossibile spiegare oggi che i fianchi, le gambe, le tette di Sophia Loren e Gina Lollobrigida o Silvana Mangano non erano feticci di mascolinità tossica e simboli di dominio patriarcale, ma l’emblema della vitalità incontenibile di un paese che aveva una gran voglia di lasciarsi la fame alle spalle. E non sarà inutile riparlarne proprio ora, strattonati come siamo tra il porno e la sessuofobia, con pezzi di femminismo squinternato che si esaltano per il burqa, e con le tette che nel frattempo, pare incredibile, son tornate a creare scompiglio: quelle messe in bella mostra da Sydney Sweeney al Saturday Night Live, per dire, che un mese fa hanno mandato in tilt l’America (“nel pezzo ci devi mettere anche le tette di Emrata”, mi spiega una dottoranda, parlando di Emily Ratajkowski, che è un bricolage con dentro un po’ tutto quello che è successo al corpo femminile negli ultimi trent’anni, un ponte tra la magrezza di Kate Moss e l’ipersessualizzazione di Kim Kardashian: Emrata, metà aliena, metà maggiorata, labbra straripanti, fianchi stretti e appunto le floride tette, che però nel suo libro “My Body” ci spiega con la lacrimuccia quanto e come le abbiano reso la vita complicata, difficile, eccetera, tipo “quando hai le tette non puoi più nasconderti”, mentre a occhio una maggiorata old fashioned avrebbe forse spiegato quante porte quelle tette le avevano aperto).
Comunque, nella global culture non c’è più alcun gioco di specchi tra corpi e identità nazionale, che era invece fortissimo con le maggiorate: Loren, pizza, spaghetti, Vesuvio e così via (forse qualche eco in Elettra Lamborghini, con quel cognome che lega insieme Italian style e tette). Si torna a parlare di maggiorate in un bel saggio che ricostruisce il fenomeno pescando da una gran varietà di fonti e documenti (contratti, lettere di fan, riviste, rotocalchi). Si intitola “Maggiorate. Divismo e celebrità della nuova Italia” (Marsilio), l’ha scritto Federico Vitella, professore di cinema all’Università di Messina. Il fenomeno è qui ridisegnato in modo sistematico, come un pezzo decisivo dell’economia del cinema italiano del Dopoguerra. Le maggiorate erano le nostre Avengers. Il Captain Marvel di questo Maggiorate-Cinematic-Universe era naturalmente “la bersagliera”, Gina Lollobrigida. La prima. Il prototipo. La fondatrice di un mondo espanso di contadine, pizzaiole, pescivendole, mondine, marinatrici di anguille nel Polesine, lanciate alla conquista del mondo. E’ per Lollobrigida che lo sceneggiatore Sandro Continenza inventa la formula destinata poi a grande fortuna. Il film era “Altri tempi” di Blasetti. Vittorio De Sica, superbo in tutti i ruoli, ma impareggiabile come avvocato, difendeva la bella del paese, una giovanissima Lollo colpevole di aver ammazzato la suocera con un ferro da stiro. Svolazzando qui e là nel tribunale, De Sica ammetteva che sì, la procace ragazza meritava l’ergastolo; poi però, riavvolgeva il nastro, invertiva tutto, si lanciava in una digressione ubriacante sulla bellezza, il Vesuvio, i greci, l’areopago e il processo di Frine, spavalda cortigiana ateniese, quindi l’affondo impeccabile: “Se riteniamo innocenti i minorati psichici, perché non dovremmo assolvere una maggiorata fisica come questa splendida creatura?” (ci si vedrebbe ora un’associazione neanche troppo subliminale “tette grandi - cervello piccolo”, ma all’epoca non ci si faceva caso). Una battuta umoristica che apriva un mondo. “Una chiamata alle armi” per i più scaltri produttori cinematografici, scrive Vitella.
L’industria del cinema, che era allora al centro di tutto, prende da lì a lavorare in modo sistematico sulla “maggiorazione” del corpo della donna. Maggiorate erano attrici riciclate dalla fabbrica dei sogni di Mussolini, come Elli Parvo, o soubrette dell’avanspettacolo, come Franca Marzi. Maggiorate erano Marisa Allasio e Gianna Maria Canale e altre ancora oggi dimenticate. Maggiorate erano naturalmente, Lollobrigida, Loren, Mangano, Silvana Pampanini, su cui si concentra il libro. L’ambientazione, il genere, il registro poteva cambiare, ma il film era sempre costruito in funzione dello spettacolo dei loro corpi. Tonici, atletici, seducenti, statuari, desiderabili, incorniciati nel voluttuoso paesaggio italiano. Sarebbe riduttivo e anche un po’ scemo rubricare tutto alla voce “dominio maschile”, come va di moda oggi, perché in un momento in cui la cultura cattolica demonizzava la cura della persona e i comunisti tenevano in gran sospetto la bellezza, il corpo della maggiorata era un sussulto di libertà. Una reazione gioiosa ai corpi malnutriti della guerra. La celebrazione di un paese diventato all’improvviso “prospero e felice”. Di lì a breve, ecco infatti il contraltare virile e machista: gli aitanti body-builder del genere mitologico, i corpi e i muscoli maggiorati degli Ercole e dei Maciste nei fatidici “sandaloni”, altro genere che teneva in piedi tutta l’industria. Le maggiorate indignavano i critici ma mandavano in delirio il pubblico, aumentavano le tirature dei rotocalchi, favorivano l’esportazione dei made in Italy. Lollo, Loren e le altre erano ricevute da Eisenhower, l’Aga Khan, la Regina Elisabetta, cucivano e ricucivano relazioni internazionali. Erano le armi di un seducente soft-power italiano (da cui l’infilzata geniale del solito Marchesi che ribattezzava “petto atlantico” Lollobrigida).
Il paese era tutto un frenetico fiorire di omaggi, tributi, comitati per l’intestazione di strade, piazze, statue. A Fiumicino, una monumentale Sophia Loren di sette metri issata sulla spiaggia. A Roma un pupazzo meccanico a forma di Lollo che distribuiva i regali di Natale a piazza del Popolo. A Firenze, La Pira che chiede aiuto a Silvana Pampanini “per domare la più calda delle mobilitazioni degli operai metallurgici delle officine meccaniche del Pignone, a rischio licenziamento”.
Prima ancora che feticci per maschi allupati, le maggiorate erano testimonial del paesaggio italiano. Bellezze naturali a chilometro zero, come oggi i grani antichi, con addosso già tutta una retorica strapaesana del “territorio”. Erano il simmetrico opposto dello sfavillante glamour hollywoodiano, bello ma artefatto, quindi distante, costruito, progettato e impacchettato dagli stregoni dello studio system. Le nostre no. Erano “dive al naturale”. Spontanee, autentiche, vere o così venivano raccontate, per aprire una via tutta italiana al divismo. L’equazione “maggiorate-Italia” era così netta che per “Vacanze romane”, William Wyler la prende in contropiede e gioca tutto sul contrasto tra il corpo esile di Audrey Hepburn e la sensuale cornice italiana: “Niente culo, niente tette, niente vestiti attillati, niente tacchi alti. Insomma, un marziano. Sarà sensazionale”. Le maggiorate innescarono in quegli anni un primo corposo dibattito sul rapporto tra avvenenza e talento e su quale dovesse essere la corretta distribuzione di percentuali tra i due. Dibattito poi polverizzato con l’arrivo del pop, dei reality e di Kim Kardashian. Però il talento, se non altro la tigna, la caparbietà, la capacità di reggere stress e ritmi di lavoro da produzione a catena c’erano eccome. La carriera di Sophia Loren lo avrebbe dimostrato più delle altre nel lungo periodo. Anche grazie all’intuizione di legarsi subito a Vittorio De Sica che, come diceva Franca Valeri, sapeva far recitare anche i sassi.