La Nuova Piaga Urbana

Giungle d'asfalto: perché le nostre città sovrappopolate sono diventate un incubo

Michele Masneri

Overtourism in Italia: monumenti e quartieri si trasformano in visioni mostruose. Code, prenotazioni anticipate e problemi di trasporto, spingono i residenti a rimpiangere i giorni del lockdown. E i lucchetti per il "self check-in" negli Airbnb dilaganti diventano simbolo di questa nuova realtà

Un fantasma si aggira per l’Italia: quello dell’overtourism, che però più che overtourism è banale sovraffollamento; siamo noi insomma i turisti di noi stessi. Nessuno, possiamo dirlo, è andato a vivere nei borghi come suggerivano le più eminenti archistar. Non abbiamo fatto in tempo a riprenderci dal lockdown e dalla vaga malinconia delle nostre città deserte (alcune bellissime, quelle d’arte tipo Roma e Venezia; altre, come Milano, che svuotate erano tristi) che ora, come con un effetto elastico,  siamo alla massima occupazione, al troppo pieno, al tutto esaurito. Chi ha la ventura di muoversi tra Milano, Venezia, Roma, Firenze può visitare monumenti ma soprattutto masse  mai viste prima di altri umani. 


Ci sono code per tutto, code ovviamente diverse per utenza e costumi. A Milano sono invalse le file nevrotiche soprattutto local per ristoranti e bar e pasticcerie e le prenotazioni forsennate ed elettroniche, mesi prima, anche per ristoranti di quarta (ma se devi sprenotare, devi farlo al telefono). Ormai si ragiona per turni, slot, finestre, al ristorante. Per il cinema devi riservare una settimana prima. Anche il New York Times scrive dell sovraffollamento milanese, soprattutto notturno, e delle misure che il comune ha preso per limitarlo, come la famosa ordinanza “anti gelato”, cioè vietare alcolici e cibi dopo la mezzanotte nelle aree più affollate. 

 

In realtà tutti questi affollamenti notturni forse sono costituiti da poveretti che non sanno come tornare a casa. Anche nelle settimane concitate del Salone del Mobile anche detto Design Week, la metropolitana chiudeva a mezzanotte e mezza. E Milano, come ipnotizzata e drogata di queste week, se ne inventa sempre di nuove, dopo quella dedicata al design, e quest’anno sovrapposta alla Biennale di Venezia, che ha visto molti uffici stampa decidere, loro sì,  di cambiare lavoro,  e  andare nei borghi. Ecco in corso in questi giorni la nuova “Civil week”, prima edizione ufficiale della settimana dedicata alla convivenza sociale, dunque costituzione, servizio civile, diritti, e centinaia di eventi in tutta la città. Ma poi il 26 maggio già è in programma l’Aperitivo festival (dopo una settimana intera di educazione civica, in effetti, ci sta che viene voglia di  ubriacarsi). “Per celebrare il World Aperitivo Day, che il 26 maggio festeggia l’autenticità dell’Aperitivo italiano in Italia e nel mondo, Milano propone l’Aperitivo Festival, un appuntamento che studia il rito dell’aperitivo e che lo racconta attraverso degustazioni, banchi d’assaggio, eventi, workshop, masterclass, e anche spettacoli e DJ Set”, affermano i comunicati stampa (Milano è la Silicon Valley  dei comunicati stampa, ininterrotto flusso informativo, specie di Guida tv a quel palinsesto che è tornata a essere la città).  

 

Il residente-abbonato tende sempre più a cambiare canale, chiudersi in casa e rimpiangere il lockdown, anche perché uscire (o almeno rientrare) è sempre più difficile. Il milanese sa infatti che probabilmente non potrà più fare ritorno a casa. Pesano i frequenti scioperi che sadici ma accorti sindacati hanno spostato dal venerdì all’infrasettimanale a ora cena-aperitivo. I sindacati furbissimi hanno capito infatti che se a Roma fare sciopero di venerdì consente di allungare il weekend, a Milano già dal giovedì  sono rimasti in città solo gli ultimi della terra che non hanno casa a Courmayeur o a Boccadasse, quindi le astute sigle dei lavoratori colpiscono  dove fa più male (è la nuova Cgil week). 
  


La penuria di taxi e l’incertezza sul ritorno  dopo cena rende ormai gli inviti serali avventurosi e appassionanti (può capitare di finire sul tragico bus sostitutivo, sostitutivo cioè della metropolitana, o di fare dieci chilometri a piedi, ammirando parti sconosciute della città, o di diventare molto selettivi negli inviti, o anche di decidere di non uscire mai più la sera). A Milano gli chic e i previdenti che ti invitano a cena da qualche tempo organizzano  così convogli privati  con un Uber che ti riporta. A Roma ci si attrezza come si può e ormai molti si dotano di amici o cugini o magari operai che con una macchina magari tutta impolverata  fanno lo stesso servizio, perché lo chauffeur in realtà fa il piastrellista di giorno o gli sta rifacendo il bagno, e si allunga fino alla sera. E’ poi il sistema che nei paesi occidentali ha il nome di Uber, però qui la multinazionale non passa, e dunque ci si arrangia alla bell’e meglio, declinando il servizio allo specifico locale (“ti presto il mio autista”, cioè piastrellista, ti dicono le signore romane, del resto Roma è Silicon Valley della mitomania).

 

Il milanese e il romano che si ostinano a uscire la sera e non possono contare sul tassinaro-piastrellista sanno che si dovranno confrontare con lo sport più estremo, la caccia al taxi. Il cacciatore di taxi più masochista si apposta alla stazione, ma anche lungo i viali, sbracciandosi verso le vetture bianche che passano inesorabilmente con la luce spenta – a parte qualcuno  con luce accesa che non si ferma comunque, ma rallenta,  sadicamente, solo per vedere l’effetto che fa (poi invece, in certe sere, siccome tutti hanno rinunciato a uscire, chiami e il taxi lo trovi subito. Ma è raro). 

 

Alternative?Le auto in car sharing sono pochissime, e il popolo delle vetture in affido temporaneo già era stremato, quando John Elkann si è macchiato di una colpa gravissima. Oltre ad aver forse maltrattato finanziariamente la mamma e a vestirsi con strani maglioni maculati, l’erede Stellantis ha l’ancor più grave torto di aver comprato la società Car2Go che è così passata dall’utilizzare le Smart, che si parcheggiavano benissimo, alle enormi Citroën. Anche i costi al minuto sono saliti.  

 

Rimangono le bici elettriche, spesso sgonfie, malmesse, coi cestini utilizzati come portarifiuti, e i motorini a noleggio, magari col casco mancante (perché rubato). Insomma, un dramma.  Ma se il romano si arrangia, abituato com’è fin dalla tenera età all’incertezza trasportistica, e a vagare nella notte, il milanese è nuovo a questa sensazione di sperdimento. Il milanese che scende e trova la fermata della metropolitana chiusa sbarrata per sciopero soffre.

 

Il romano, però, nel caos trasportistico milanese, finalmente smette di sentirsi inferiore. I numerosi romani di stanza a Milano ormai si sentono a casa. Oltre ai mezzi che non passano c’è anche un altro elemento che lo mette a suo agio, il romano inurbato, ed è l’erba alta, le aiuole non tagliate. Ormai nel capoluogo lombardo ti trovi a camminare infatti in aiuole da Indiana Jones, spartitraffico da giungla, parchi rigogliosi tipo pubblicità del Mulino Bianco. Finalmente un po’ di sciatteria, pensa il romano. E invece no: è tutto fatto apposta; come diverse città europee, anche a Milano il comune ha infatti deciso di limitare lo sfalcio. Come Fulco Pratesi, presidente onorario del WWF Italia, che ha sempre praticato lo sciacquone e la doccia ridotti per risparmiare acqua e salvare il pianeta, “lo sfalcio ridotto” serve “per aumentare la biodiversità”, dicono sempre i comunicati, e come biodiversità non si intendono i romani a Milano ma anche “insetti come coccinelle, api e farfalle”. Nella città dei comunicati stampa però il nuovo approccio non è forse stato comunicato adeguatamente, e diversi residenti ignari della nuova policy hanno protestato. Come Matilde Borromeo, cognata di Elkann  - scusate, non siamo fissati, è destino –  che ha tuonato sui social: “tenere l’erba così alta è una vergogna per la nostra città!”, taggando comune e il sindaco Beppe Sala e lanciando l’hashtag #assumiamogiardinieri (magari quelli licenziati da donna Marella a Villar Perosa, che sono a spasso, e se non li licenziavano risparmiavano pure tante grane).   A Roma al contrario molti si stupiscono di parchi finalmente sfalciati dopo decenni, anche con un po’ di malinconia. Ci si era abituati alle giungle urbane, ad attraversare il Muro Torto foresta di Mangrovie come in un libro di Salgari. A Roma la biodiversità ha ospitato non solo coccinelle ma anche colonie umane che vivono, poverette, tra le frasche. 

 

Nonostante queste condizioni estreme delle nostre città, e in attesa che anche il Giubileo venga spostato a Milano, trasformato in “Jubilee Week”, la capitale è già presa d’assalto da ondate di pellegrini che sbucano da ogni dove. In certi punti, tipo corso Rinascimento, dalle parti del Senato, in un già famigerato punto studiato anche dal National Geographic come luogo ideale per ammirare la  transumanza delle masse turistiche tra Pantheon e piazza Navona, l’attraversamento dei gruppi con cappellini e bandierine può durare anche decine di minuti: è consigliato spegnere il motore per non disturbarli, e magari ascoltare un audiolibro, o un podcast, o anche scendere e andare a vedere un’audizione in Senato. 


Nonostante tutto, i turisti continuano a venire in Italia, nelle nostre belle città. Magari spostandosi sui fondamentali treni ad alta velocità, dove ormai può capitare di essere noi col nostro zainetto gli unici italiani tra masse di americani con trolley delle dimensioni di un monolocale (Italo e Trenitalia avevano avanzato timidamente una norma per limitare i bagagli, ma hanno fatto marcia indietro e ora è stato aperto un “tavolo di confronto”). 

 

C’è poi un altro simbolo dell’overtourism  ormai dilagante. A Firenze ha destato scalpore un lucchettone di quelli in cui si lasciano le chiavi per i turisti, quelli con la combinazione, conficcato però dentro un monumento. Lo “smart lock” per il “self check  in” è rapidamente diventato del resto il simbolo del turismo cattivo. In parole povere il turista che affitta un AirBnb viene indirizzato dall’host verso il lucchetto di competenza, una  mini-cassetta di sicurezza; una volta digitata la combinazione, fornita dal proprietario assieme alla posizione del lucchetto (di solito con una foto e la localizzazione gps),  ecco le chiavi.  Il problema è che questi lucchettoni stanno spopolando, e hanno ormai sostituito e superato di numero i romantici lucchetti da “Tre metri sopra il cielo”, dilagati su ponti e luoghi romantici dopo la saga ideata da Federico Moccia. Il lucchettone si compra generalmente su Amazon o in ferramenta, e si avvita o lega ovunque, attaccato a balaustre, cancelli, inferriate, e segnala visivamente l’accrescersi degli AirBnb, che a sua volta  simboleggiano  ogni male urbano.

 

Prima o poi ci sarà una rivolta, è chiaro, contro i lucchetti: ognuno del resto ha uno o più AirBnb nel palazzo, e questi sono sempre sospettati di ogni malefatta, in primis la mancata o errata attribuzione della differenziata (i condòmini più severi sgrufolano volentieri nella monnezza per trovare prove: la pistola fumante è la fascetta del bagaglio con la sigla di tre lettere dell’aeroporto, tipo MXP o FCO o LIN, che inchioderà il turista insieme all’incarto del McDonald’s).  

L’emergenza è tale che a Milano il consigliere comunale Pd Michele Albiani ha lanciato una mozione contro il lucchettone gentrificatore,  volta a impegnare il sindaco e la giunta a rimuovere immediatamente questi “lockbox”. Ma anche a Genova se n’è discusso (poi sono intervenuti fatti più urgenti, diciamo). Il dramma vero è però a Firenze, dove un lucchettone da overtourism è stato fotografato conficcato all’angolo tra via dei Cerchi e via dei Cimatori, su una vetusta colonna testimonianza dell’antica Loggia dei Cerchi.  


Anche Parigi, in vista delle Olimpiadi, sta valutando se vietare il lucchettone nelle aree pubbliche. Lo hanno già fatto Nizza, Lille e Annecy. Lì, se la polizia municipale scopre delle key box, applica etichette tipo lettera scarlatta, richiedendo al proprietario di contattare il comune entro due settimane, altrimenti vengono rimosse. Ian Brossat, senatore del Partito comunista francese e autore di un pamphlet contro la gentrification, “Paris la ville uberisée”, descrive le key box come un “segnale intrusivo dal punto di vista visuale di quanti dei nostri vicini siano solamente di passaggio veloce”. I gruppi e le chat degli “host” di AirBnb sono anche interessanti perché i padroncini si  scambiano consigli su dove lasciare i lucchettoni, come cambiare la combinazione (a volte c’è anche l’ospite pazzo che cambia lui la combinazione, e sono guai).   


Non è difficile immaginare che con il Giubileo Roma diventerà un’immensa distesa di lucchettoni, che poi rimarranno lì per sempre abbandonati anche quando i proprietari saranno defunti, come le migliaia di antenne che giacciono sui tetti, magari coi fili penzolanti. A Venezia il soprintendente alle Belle Arti ha scritto una lettera al Comune chiedendo di proibire i lucchettoni del malaugurio e il comune ha risposto pure qui  con un tavolo;  intanto però impazza l’emergenza, secondo i giornali locali, di bande di ladri che scassinano le cassettine per poi introdursi nei palazzi. Insomma un dilemma. E se dieci anni fa esatti il comune vietava i lucchetti dell’amore, ora punta a farlo anche con quelli dell’affitto breve. Ma a Venezia il lucchettone pare l’ultimo dei problemi: adesso c’è il ticket per entrare in città, che però non ha dato i suoi frutti come freno ai turisti mordi e fuggi, almeno nella percezione dei cittadini; è notizia dell’altro giorno quella della residente che ha preso a botte una turista colpevole di aver intasato un vaporetto. “Siete troppi, rendete invivibile la città”, pare abbia urlato inseguendo e percuotendo ripetutamente  la malcapitata visitatrice. Qui, per regolare i flussi, invece che alla mano invisibile del mercato  si rischia di lasciar fare a quella visibile, e molto pesante, dei residenti. 

 

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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).