non solo un social
Gran palinsesto Tik Tok Tak. Numeri, storie e cortocircuiti di una rivoluzione che sta trasformando l'Italia
E’ demonizzato, è sbertucciato, è maltratto ma intanto il social cinese ha cambiato per sempre non solo i nostri costumi ma anche la cultura di massa, la politica, la cucina, l’eros, e soprattutto la tv. Un'inchiesta
Sembrava l’evoluzione della trash. “Ciao Darwin” formato smartphone che in venti, quindici, dieci secondi mostrava tutto, ed era perciò irresistibile. Così, dopo anni di sproloqui su Facebook, di geometrie instagrammiane e lungaggini su YouTube, con TikTok tornava finalmente in auge il cazzeggio breve. Quello puro, imperfetto, angelico. Il trash, stolto e bellissimo (ché se “lo stupido è divino” – diceva Carmelo Bene – figurati tu il tiktoker). Ma ecco. Da allora qualcosa è cambiato. Il social dell’autenticità, anche in Italia, è diventato un fatto di grandi numeri. Un social di cui non si fa a meno, che inventa e reinventa gli stili di vita, dove l’autenticità è tutto fuorché genuina. Dove la semplicità è tutto uno sceneggiato. Sicché dal cazzeggio angelico si è passati a quello mefistofelico. Dai fessi – anche su TikTok – si è passati ai furbi, secondo una nota ricetta italiana. E fintanto che noi si faceva gli snob su Instagram, TikTok ci cambiava la vita.
Ed eccola, dunque, la costola della cinese Douyin, proprietà di ByteDance Ltd., che se negli Stati Uniti rischia di chiudere nel gennaio 2025, in Italia conta 20 milioni di utenti al mese. Una piattaforma che, in proporzione alla popolazione, ha la stessa potenza che a Washington fa paura. Perché anche qui, coi suoi 20 milioni di utenti, il social non è più l’officina dei fessacchiotti. O, almeno, non è solo la fucina di chi raccoglie il ramen coi rebbi o dei bimbi che inzozzano la poltrona di sugo. Neppure è il catalogo dei sederi per aria (il fu twerk)… TikTok, pure qui, è un fatto oramai di massa. Che in quanto tale raccoglie tutto. Politica, cucina, editoria, divulgazione. Gente che semina e poi raccoglie. Generazione che miete e impone tendenze. Gente scafata che ci cambia la vita.
Secondo un recente studio di Paolo Gerbaudo, sociologo normalista approdato al King’s College, pare addirittura che i tiktokiani italiani siano molto felici (e non nel senso della beatitudine demenziale). Gerbaudo, che ha condotto un sondaggio su 924 giovani tra i 18 e i 35 anni, finanziato dalla Commissione europea, dice che i venti-trentenni italiani starebbero meglio sul social cinese che altrove. Gli utenti di TikTok, in Italia, sono “più integrati” nella società dei non utenti (ovvero di noi apocalittici instagrammatici, quasi sempre astensionisti). I tiktokiani, in Italia, firmano più petizioni, più referendum (+16 per cento), fanno volontariato (+15 per cento), sono coinvolti in partiti politici (+14 per cento). E sono insomma dementi per finta, son gente seria. Gente che ai Gianluca Vacchi – e alle finte bionde – ha detto addio. Perché fintanto che di Instagram si fa character assassination – contro i tartufi che spacciano pandori – la fiducia verso le persone, i creator, le aziende, l’informazione su TikTok sale. S’innalza di giorno in giorno. E qui da noi è più alta (di circa il 20 per cento) che in qualsiasi altro social.
Del resto, se Instagram è cosa da esteti, narcisiste tirate a lucido e maschi che scialano, il social cinese nasce all’insegna della sincerità. Del “sii te stesso” come mantra che dalla televisione di inizio Millennio approda oggi qui. In questo schermo che scrolla e ricorda lo zapping predigitale e che, ci dice ancora Vincenzo Cosenza – esperto di marketing, già manager Microsoft – è a tutti gli effetti la tivù di questi anni.
Lo schermino dove non si postano più foto di panini vitruviani o di pizze gourmet. Ma dove ci si mette la faccia, si esprimono opinioni. In un mare magnum di demenza passionale, certo, e sgallettamenti – un po’ com’è la tivù – che però è un minestrone di cose. Forse sempre le stesse.
Pane al pane
I tiktokiani d’Italia, si diceva, sembrano felici. Ma ecco. Se da noi la felicità si tara all’incirca su un bicchiere di vino (con un panino), non vi sembrerà strano che qui si parta dai generi alimentari. Dagli chef che dal piccolo schermo migrano al piccolissimo. Anche perché – tivù che vai, TikTok che trovi – “se il Novecento è stato il secolo del sesso, il nostro è il secolo del cibo”. Parola di Paolo Poli.
Il comico fiorentino, amante dei “libri porcelloni”, si rammaricava spesso che la letteratura erotica fosse stata sostituita prima dai ricettari, poi dagli chef tele-sadomaso (quelli che menano piatti per aria), ancora una volta dai foodblogger e infine, oggi, dai content creator.
Ed eccoci dunque al cibo formato TikTok. Un cibo in apparenza senza velleità, “autentico”, perché, come sostiene Sonia Peronaci – fondatrice di Giallo Zafferano che inaugurò a suo tempo il filone delle ricette online – su TikTok conta la spontaneità. E dunque il personaggio simpatico ben prima della ricetta. Che non dev’essere elaborata ma tradizionale.
A partire dal caposaldo TikTok – “sii te stesso” – il mondo della ristorazione cambia. E si sviluppa così in Italia il fenomeno del private chef. Il cuoco privato che accantona l’arroganza in favore di un rapporto diretto con il seguace. Talmente diretto che si può dire abbia cambiato – o stia cambiando – la cucina della nonna.
Private chef, in realtà, è null’altro che il cuoco a domicilio. Il cuciniere boccaccesco, tanto umile tanto maneggione, che di solito comincia per gioco e, se ha fortuna, va incontro all’upgrade in tivù. Un po’ com’è successo a Ruben Bondì, il cuoco privato del paese nostro, ventiseienne romano, in gambissima, che spopola su Instagram (1 milione di follower) e su TikTok (2 milioni). Ruben acchita video di pochi secondi dal balcone di casa sua, dove in romanesco spiega – anzi mostra – i suoi piatti: abbacchi, crostate di visciole, cucina kosher.
Il cuoco, raggiunto al telefono, ci illumina subito su social e companatico. Gli diciamo che negli Stati Uniti la gente mangia quello che scrolla. Se per esempio quella settimana si porta il trend “tortilla”, i tiktokiani americani consumeranno più tortillas. E’ così anche in Italia? “Io uso molta scorza di limone”, ci dice Ruben, “e da quando lo faccio io, lo fanno anche i miei seguaci”. Il limone come nuovo pistacchio o nuovo prezzemolo… Interessante. Ma poi è vero che la cucina coi clippini è tornata più tradizionale, più “cucina della nonna”? “Sì. Spesso è così. In generale, è più semplice cucinare. Grazie a un profilo come il mio le persone pensano di poter fare da sé, senza andare al ristorante. Cominciano a fare cose che sembravano complicate, tipo risottare la pasta, panificare… In più, certo, anziché andare al ristorante, portano il ristorante in casa: la cucina a domicilio è stato il mio core business per quattro anni. E grazie al social sono stato in India, in Venezuela…”.
India, Venezuela e – non ultimo – nel cucinino della nonna. Nell’amata vecchia tivù (prima in Rai, poi a Discovery: ormai è cursus honorum). In quello scaldamobile novecentesco che nessuno guarda ma tutti sognano. Come uno specchio delle più inconfessabili brame.
Private chef, dunque. E poi – sempre in punto di modestia – dark kitchen, ghost kitchen. Le cucine fantasma (e cioè senza ristorante, senza coperti) che si alimentano di videini e talvolta lavorano per i marchi dedicati alle consegne, di cui in Italia usufruisce il 71 per cento della popolazione (fonte Forbes).
E ancora. Un altro caso interessante, che fa capire come il secolo del cibo, su TikTok, stia vivendo una svolta (dal cuoco sadico al tipino bellino) è quello di Ginevra Ferro, la rampolla de La Molisana. Ginevra, bella e simpatica, che col suo volto pulito ci smercerebbe pure il formato “Abissine” (bandito anni fa dalla cancel culture per quel gusto un po’ littorio). Ginevra ha 135 mila follower. E in pochi secondi, ogni giorno, li affattura tutti tra rituali skincare e maccheroni. Non come una massaia, quindi, o come una carrierista spinta – quale di fatto è – ma come una soft girl (trend tiktokiano che raccoglie gli stili di vita a misura di femmina sincera: casa, ricette, saponi, abluzioni).
E insomma – pane al pane – si capisce che dal narcisismo sfacciato passiamo oggi a quello covert (come dicono le amiche dei loro fidanzati: “Narcisista covert!”). E cioè mascherato. A dispetto dell’acqua di cottura e dell’acqua e sapone.
Politica: effetto “cringe”
La verità, ci dicono gli esperti, è che la politica non funziona. Per dirla con la generazione che sapeva l’italiano quasi peggio dell’inglese, la politica, su TikTok, fa subito effetto cringe (parola che si suppone intraducibile ma che significa, semplicemente, “imbarazzante”).
Insomma quella generazione lì, quando vede un politico su TikTok, storce il labbro, tira su il ciglio. In pratica, si schifa. E poiché TikTok è il social dell’autenticità, ci spiega un manager Tim, è impossibile che un sedicenne italiano capti in lui lo spontaneismo. Impossibile gli suoni affidabile, per dire, il “TikTokTak” di Berlusconi o l’“Occhio ragazzi!” di Giuseppe Conte. Difatti, il sondaggio di Paolo Gerbaudo rileva che, per quanto partecipi, allerta, talvolta barricadieri e anche woke, i tiktokiani del paese nostro votano meno degli utenti sugli altri social.
Il tiktoker – primo comandamento – deve mantenere le promesse che fa ai tiktokiani. E dunque, ci spiegano ancora, il politico italiano ispira sulle prime un senso di diffidenza. Subito dopo, com’è tipico dei ciucci, un senso di superiorità (uno scopritore di tiktoker – ci arriviamo – ci racconta ancora di gruppi di ragazzini che, interpellati, non sapevano chi fosse Barack Obama. “Questi nomi”, spiega, “li scoprono sul social”. E in venti secondi sanno mille anni di storia umana).
Intanto, mentre facciamo una ricerca sui comici, ci imbattiamo in Emma Galeotti, ironista in quindici secondi. “I politici parlano su TikTok come se fossimo nei cartoni animati”, dice la ragazza, “pensano sia un social di balletti e musichette, mentre qui si fa informazione”. “Io non entrerei mai in politica per farmi eleggere”, sostiene ancora, “ma mi interessano molto alcune tematiche. Per esempio quelle ambientali”. Che musica, e che ironia. Politica leggera, anzi leggerissima (e forse si capisce adesso – se parliamo di TikTok e LifeStyle – perché i ministri della repubblica, davanti ai sedicenni, facciano gli autentici. Arrivando a piangere di ecoansia).
“Content creator” e creatori di stelle
E sempre alla faccia dello spontaneismo, c’è un tema. Un tema che mette ancora più in crisi la retorica dell’autentico. Giacché il social dell’artigianato, dell’anticapitalismo giovane e ambientalista, certo non è immune dalle logiche aziendali. Addirittura industriali.
In Italia esistono almeno due importanti officine di tiktoker. O, per dirla con Mordecai Richler, esistono almeno due grandi “creatori di stelle”. Come nelle satire novecentesche si forgiavano gli anchormen e negli anni Zero le star di Disney Channel, da Ariana Grande a Selena Gomez, così oggi – anche in Italia – si plasmano tiktoker.
Disneyana si autoproclama Stardust. Alan Tonetti, il founder, la definisce “editore del mondo social”. Stardust è “un luogo di formazione che dal 2020 cerca talenti, stelle potenziali (a volte con soli 100 follower), da far crescere e lavorare”. In altre parole, è un’azienda che industrializza il lavoro del content creator e tiene in piedi un’accademia ispirata alle collab house californiane. Perlopiù sul modello di Hype House, a Moorpark – dove però i ragazzi, di notte, facevano i ragazzi, in senso “autentico”, e dunque si accoppiavano, si ubriacavano, disturbavano i vicini – la Stardust Academy è una villa di 1.500 metri in Brianza, con saune piscine e bagni turchi. Qui si impara a parlare in pubblico, a parlare in inglese (e cioè pronunciare cringe, crash, snitch), ad affinare talenti (suonare, cantare, usare lo skateboard) così da promuovere i brand in base alle attitudini per sembrare autentici e non ridicoli. E sempre qui, diversamente da Moorpark, vige la regola del “buon padre di famiglia”.
Tonetti racconta di un suo blitz alle tre di notte. Orario buono per fuochi e saune. E invece… Invece no. Perché i baby Stachanov, alle tre, creavano contenuti. Diventavano stelle nella notte come Samara Tramontana, ventenne reclutata da Stardust per puro intuito.
Samara (2 milioni di follower) racconta sul social la sua vita, replicando – secondo Tonetti – l’idea del telefilm anni Novanta (per intenderci, O.C. o Beverly Hills, ché sempre lì siamo: al TikTok figlio illegittimo del piccolo schermo). La giovane racconta così la sua giornata: la scuola, le cotte, le figuracce. Quando è stata scoperta, Samara, aveva pochi follower (circa 180), ma alcune caratteristiche promettenti: “Era carina ma non bellissima”, ci spiegano, “sorrideva sempre e postava contenuti in maniera costante, a prescindere dai seguaci”. Risultato? Dopo una settimana aveva 300 mila follower, dopo mesi era già speaker di RDS next, sino a condurre, oggi, “Aspettando Ciao Darwin”, anticipazione social del noto programma di Paolo Bonolis… Tivù che vai, TikTok che trovi.
Carina ma non bellissima; bella e simpatica; spontanea ed efficace. Sono gli stessi principi di DefHouse, l’altra casa milanese dove vivono otto tiktoker. E che a vederla in foto è tutto un richiamo al design pop di Seletti. O, volendo, a un decadente arredo neo-Memphis.
I creatori di stelle insomma – che guarda caso vanno a zonzo nella locomotiva d’Italia, tra la Brianza e Milano – hanno capito che TikTok sta nel mondo. Che ricrea il mondo. E che, in quanto fenomeno di massa, si alimenta di vita e stile di vita ben oltre i balletti scemi (i balli del qua-qua, del resto, sono quasi più autentici a Sanremo, fintanto che nell’android la gente sgambetta meticolosa).
TikTok Stranamore
Su TikTok, s’è capito, c’è tutto. Compreso quello che avreste sempre voluto sapere sul sesso… E non avete mai osato chiedere (ma solo perché non seguivate il profilo giusto). Ed eccoli, dunque, i coach. Gli strateghi sentimentali. TikTok Italia è pieno di gente che in quindici secondi ti spiega innamoramento e amore anche meglio di Francesco Alberoni. Pieno di nuove Marie De Filippi che ti dicono come fare, cosa dire, come fuggire quando una storia è tossica. In appena cinque mosse.
E sempre perché TikTok è la tivù della generazione che sapeva l’italiano anche peggio dell’inglese (e che per dire “malamore” usava un solo aggettivo: tossico), anche qui gli hashtag son quasi tutti stranieri. Piuttosto diffuso è il “dating horror stories”. Ma – raschiando a fondo – ci racconta Valeria Montebello, cultrice della materia – c’è un hashtag d’amore virale. Un cancelletto tutto italiano, anzi napoletano (79 milioni di post), che è diventato mainstream e che riverbera anche fuori dal social. Che rimbalza dalle cinquantenni divorziate alle trentenni traumatizzate. Hashtag che un giorno, parlando con un’amica di Napoli, è arrivato persino alle nostre orecchie (instagrammiane, snob).
“Lascialo perdere”, dice l’amica, “quello è un malessere”. Che è? “E’ un malessere, un maschio tossico”. N’ata vot. “Uno geloso, possessivo. Lascia perdere”. E per farci capire ci invia il video di teenager che con inflessione partenopea traccia la fenomenologia del “malessere”. In altre parole, il maschio alfa. Il maschio tossico. Che oramai dicono pure le nostre madri. Forse perché – TikTok lo spiegava già Paul Virilio – “nel mito della trasparenza, l’esibizionismo raggiunge il proprio scopo” favorendo “non solo la sincronizzazione delle sensazioni ma, soprattutto, la mondializzazione degli affetti”. Ed è perciò interessante notare come questa parola, ricca di semantica, mondializzi gli affetti. Almeno in Italia. Spopolando a Posillipo non meno che a Brera, e non solo tra i quindicenni. Non solo nei parcheggi dei motorini, ma pure tra le signore. In quegli asili che son le chat delle mamme. Anche perché, spiega ancora Montebello, la parola che da Napoli arriva a TikTok, a sua volta rimbalza in tivù. Si ritrova “in quei programmi di stampo defilippiano che vanno da ‘Temptation Island’ a ‘Uomini e donne’”. Là dove l’ospizio si amalgama all’istituto dell’infanzia. Là dove TikTok mondializza i nostri affetti e i nostri modi di dire. Che malessere.
Dietro le quinte
Spontaneità e vanità. Non possono che stare insieme – è evidente – in forza dello sceneggiato. L’autentico, abbiamo capito, si recita a soggetto. E pure la moda – ha raccontato Fabiana Giacomotti sul Foglio – approda su TikTok in chiave finto-autentico ma pure per travaso di “contenuti sponsorizzati”, da Valentino a Bulgari (che mostra il dietro le quinte di un processo artigianale di creazione di gioielli, collezione “Mediterranea”).
Focalizzando però gli hashtag, l’italiano “Dietro le quinte” (oltre 4 miliardi di cancelletti) è all’incirca l’omologo dell’inglese “Get ready with me”: vestiti con me, vestiamoci insieme, teniamoci per mano e andiamo in passerella. A riprova che non è il decennio del perfettismo, questo, ma della condivisione. E che la moda non fa eccezione.
PS. Al capo opposto della passerella, in ogni caso, c’è la sciatteria (di cui tutto il social risente). Ovvero l’hashtag “goblin mode” che, dall’Italia all’anglosfera, fu scelto dall’Oxford Dictionary come parola dell’anno 2022, e che indica appunto lo stile trasandato. Autentico. In altre parole, l’ostensione del pigiama, della tuta acetata e del cibo surgelato da sgranocchiare sul sofà. Che ti fa prendere like per commiserazione (autentica).
BookTok Italia
Gruppi di lettura, trame condivise, finanche gli Amici della domenica. Quelli che vendono, hanno venduto, si preoccupano di vendere, ci sono tutti. Da Roberto Saviano a Erin Doom. Tutti che scrivono, leggono, poi cancellettano. E pare quasi l’editoria – tra gli altri – il segmento che più subisce il social cinese.
Il settore più sfranto le prova tutte. Compreso l’elettroshock dei quindici secondi. Tanto che “BookTok” (140 miliardi di click) – dopo LGBT+ – è persino diventato una sezione delle librerie Feltrinelli. “E’ l’hashtag di tendenza”, leggiamo sul sito, “che ha dato vita al club del libro più grande al mondo”.
“BookTok Italia” conta oggi 2 miliardi di visite. Ed ecco. Qui i libri li si legge insieme, come in una repubblica delle lettere. Tra gli altri, spicca Megi Bulla (@labibliotecadidaphne) che organizza dirette dove ognuno legge un libro diverso, ma “insieme”. Per non dire ancora del romance – quel genere che mescola il fantasy al rosa – e che oggi, sulla base dei trend, suggerisce agli editori trame da commissionare a giovani scrittrici.
Cenacoli online e creatività universale. Dall’illuminismo al romanticismo – per dirla con Christopher Lasch – il libro letto a mille voci, scritto a mille mani, spiega il “culto romantico” dell’autentico come massima “cultura del narcisismo”. Come massimo sceneggiato in cui siamo tutti coinvolti e tutti co-autori di uno scrittore cui resta solo la faccia – carina ma non bellissima – sul suo profilo. Così, mentre Elena Ferrante si toglieva la maschera e diventava Erin Doom, mentre noi snob eravamo su Instagram e ignoravamo il romance, con TikTok si realizzava un grande sogno italiano. Quello di diventare scrittori senza essere lettori. Non più fessi ma furbissimi.
generazione ansiosa