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La svolta

Il congedo per infelicità segna la fine dell'equilibrio tra vita e lavoro

Antonio Gurrado

Il magnate cinese dei supermercati Yu Donglai ha deciso di concedere ai propri dipendenti un "congedo per infelicità", applicando quello che scrivevano Marx ed Engels: come per la malattia, i lavoratori potranno non lavorare quando non saranno felici di farlo

Trapela dalla Cina la notizia che il magnate Yu Donglai, fondatore della catena di supermercati Pa Dong Lai, abbia deciso di concedere ai propri dipendenti un congedo per infelicità, di fatto equiparando questo triste stato d’animo a un’infreddatura o a una gamba ingessata. Yu Donglai non è nuovo a trovate del genere: lo scorso anno aveva fatto furore la sua intemerata contro gli straordinari, che non trova etici in quanto mirano a spingere oltre l’umano lo sforzo dei lavoratori. Stavolta mira a scardinare uno dei più diffusi luoghi comuni, quello secondo cui è compito del lavoro renderci felici, realizzati, completi. Su questo principio si sono fondati per tutto il Novecento sia il capitalismo all’americana – lavorare lavorare lavorare per comprare il frigorifero, la lavatrice, l’automobile potente e la felicità individuale – sia il comunismo di stampo sovietico: lavorare lavorare lavorare per far funzionare in modo impeccabile il complesso macchinario della società e dello stato, garantendo felicità a tutti. Oggi che questi modelli ingenui sono superati, resta un diffuso complesso del lavoro felice che spinge le aziende a insistere talora pateticamente sul benessere lavorativo: ambiente accogliente, rapporti etici, benefit a iosa, sostenibilità della produzione, nominale appiattimento delle gerarchie, e tutta una sfilza di stratagemmi per attirare il lavoratore col miele del work-life balance.
 

Yu Donglai mi sembra ammettere candidamente che quest’equilibrio fra work e life non è verosimile, o si lavora o si vive, quindi l’infelicità può travolgere il lavoratore nello stesso modo imponderabile e inevitabile con cui ci si può beccare un’influenza oppure una storta. Non solo. Riconoscere il diritto di stare a casa per gli infelici, continuando a versar loro lo stipendio come se fossero in mutua, è un non so quanto consapevole corollario di ciò che Marx ed Engels avevano scritto ne L’ideologia tedesca (era il 1846 e il work-life balance non era ancora stato inventato). Secondo loro è caratteristica del lavoratore avere “una sfera di attività determinata ed esclusiva che gli viene imposta e da cui non può sfuggire”, mentre dovrebbe venirgli consentito di “perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere, fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo fare il critico, così come gli vien voglia”. Se ne deduce che bisognerebbe lavorare solo quando si è felici di farlo, e non lavorare per essere felici come ci siamo illusi fosse possibile per qualche secolo. È un modello che ottimisticamente Marx ed Engels ascrivono all’ipotetica, futura società comunista, quella in cui ognuno lavorerà secondo le proprie capacità e ognuno otterrà secondo i propri bisogni. Se oggi qualcuno andasse a svegliarli dicendo che ci si sta provando in Cina, forse non sarebbero molto sorpresi; se però si aggiungesse che a farlo è il capo di una grande azienda privata, sicuramente sì.

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