punti di vista
Che pena il cinismo dell'utopia accampato nelle università e nelle chiese
La pace in cui possiamo sperare è quella che si dà quando la forza a disposizione dei diritti è superiore a quella degli oppressori
Poco conta se si tratta del ritorno di incubi scolastici o di passioni giovanili, ma i confronti formali e informali cui ho partecipato in questi ultimi mesi, per strada o in università, in ambienti politici o in spazi ecclesiali, confronti con il passare delle settimane sempre più accesi, mi hanno fatto tornare in mente un interrogativo che con sorpresa avevo incontrato in Kant. Anche la più rigorosa delle filosofie, anzi forse soprattutto quelle, deve fare i conti con la speranza e, soprattutto, deve saper discerne ciò che merita di essere sperato e ciò che non lo merita.
Immanuel Kant definì con chiarezza il programma della modernità. Esso consiste nel tentativo di rispondere a tre domande, un tentativo cui l’intelletto obbliga se stesso.
La importanza delle prime due domande è ancora oggi facile da comprendere. Esse suonano: cosa posso conoscere? Cosa debbo fare?
Meno facile, invece, è diventato comprendere il significato della terza domanda: in cosa mi è lecito sperare?Lo scettico si crogiola nel suo non sperare. Altri, all’opposto, si rincorrono nella gara a chi spera di più: perché porre limiti alla speranza? Tuttavia, lo sperare fino in fondo solo quanto è realisticamente sperabile il non prestare invece alcun ascolto a speranze fittizie fa la differenza. Fa la differenza perché smaschera il cinismo e la complicità con il male tanto di chi non spera quanto di chi si illude.
E’ nei momenti drammatici della storia che il significato e l’urgenza della terza domanda kantiana diventano evidenti. E’ nei momenti di crisi acuta che la terza domanda kantiana si impone. E’ in momenti come quello che stiamo vivendo che la domanda sulla speranza penetra in noi come una lama calda nel burro. Di fronte alla guerra che ci attanaglia, dai campi dell’Ucraina alle efferatezze di Hamas, dalle spiagge di Gaza al Golfo di Aden, diventa chiaro quanto sia importante chiedersi in cosa è lecito sperare?
Oggi di nuovo la speranza deve battersi non solo contro il cinismo dei cinici, ma anche contro il ben più subdolo e pericoloso cinismo degli utopisti. Se occorre avere uno stomaco forte per digerire il menefreghismo e lo spregiudicato servilismo dei cinici sfacciati (“Franza o Spagna purché se magna”), basta invece distrarsi solo un attimo per ritrovarsi abbagliati dall’utopia. Il cinismo che dai primi viene platealmente sbandierato, dai secondi – gli utopisti – viene iniettato nella pubblica opinione dopo essere stato infiocchettato di ideali e di promesse al cui fascino è difficile resistere.
Come si fa a non essere d’accordo con lo stop al commercio delle armi? Come si fa a non essere d’accordo con chi chiede di fermare una guerra? Come si fa non essere d’accordo od almeno a non ammirare chi invita a porgere l’altra guancia?
Eppure, pensandoci un attimo, si comprende che smettere di vendere armi a chi non ne ha è il modo migliore per facilitare le cose a chi le armi le produce in casa e poi le usa contro i più deboli. Pensandoci un attimo, si comprende facilmente che c’è chi la guerra la comincia aggredendo e chi la guerra è costretto a farla per difendere i propri diritti, e che chi difende i propri diritti – ovunque lo faccia – sta difendendo anche i nostri. Né è difficile intuire che chi abusa del detto evangelico non sta affatto porgendo la propria guancia, ma sta chiedendo ad un altro di porgere la sua e di farlo per la seconda volta.
La speranza non ha paura di domande scabrose: fino a qual limite fornire armi? Fino a qual limite combattere per i diritti? Se fosse realistico immaginare un luogo del mondo libero dal male od un momento della storia libera dalla violenza, sarebbe giusto prestare ascolto agli utopisti ed ai loro consigli. Invece, l’unica cosa che possiamo realisticamente sperare è che, debitamente attrezzati, si riesca a limitare i danni del male messo in atto da altri e si induca chi trama violenza a non trovare conveniente perseguire i propri piani malvagi. Per queste ragioni è ingenuo, o sospetto, chiedere al diritto di disarmarsi: può mai esservi rispetto del diritto dove manca la credibile minaccia di una sanzione adeguata?
Che dire, infine, del male che si produce mentre si cerca di resistere ad altro male, ad esempio nel caso della reazione di Israele ai crimini scellerati di Hamas? Ciò che rende la sanzione accettabile è che essa sia efficace e che non causi un male maggiore di quello che vuol contrastare e sperabilmente eliminare, e che la via che volta per volta si sceglie per arginare un male sia sempre la meno cruenta di quelle effettivamente a disposizione.
In Europa non avremmo la libertà che oggi abbiamo se in guerra non avessimo sconfitto nazisti e fascisti. E’ su quella vittoria che poi abbiamo costruito la Alleanza atlantica e la Unione europea ovvero soggetti capaci di reagire efficacemente alle dittature ed alla loro naturale imperialismo. Questo – Nato e Ue – è ciò che ci ha consentito di sconfiggere l’Unione sovietica ricorrendo solo a pressioni e minacce credibili ovvero spargendo infinitamente meno sangue di quello che fu necessario spargere per sconfiggere nazisti e fascisti.
In breve, dato che è anche realistico, è legittimo difendere un ordine globale non certo perfetto, ma certamente molto migliore di quello che la Russia di Putin cerca di imporre, spalleggiata dalla Cina di Xi e dai rispettivi vassalli. Nel difendere quel po’ di libertà e di giustizia che ci siamo acquistati nulla è di maggior conforto del fatto che chi là cerca la libertà sogna di venire di qua mentre chi tra di noi si fa voce di Putin e di Xi ben si guarda dal trasferirsi di là.
Nulla però preoccupa di più dello spettacolo offerto dal cinismo dell’utopia che si accampa nelle università e nelle chiese, ovvero in quelle che furono le fucine della speranza nella libertà e nei diritti e che oggi, invece, sempre più spesso si riducono a megafoni dell’utopia e del suo subdolo e perfido cinismo.
Sinché dura la storia umana, la pace in cui possiamo sperare è quella che si dà quando la forza a disposizione dei diritti è superiore alla forza a disposizione degli oppressori: pax opus iustitiae. Persino il cristiano non è sottratto a questa condizione di lotta, interiore e pubblica, anzi gli è chiesto di prendervi parte sino all’Ultimo Giorno.