Rapporti alla mano /11
La pubblica amministrazione digitale tra nuove tecnologie e burocrazia
Il settore pubblico di fronte alla rivoluzione 2.0: un passaggio lento, che vede l’Italia in ritardo rispetto al resto d’Europa. Il passato e i caratteri di fondo della nostra Pa pesano sulla transizione. Numeri e dati
Con quanta velocità riesce la pubblica amministrazione italiana a tenere il passo con la principale rivoluzione tecnologica che stiamo vivendo, la digitalizzazione? Per avere un metro di misura, parto dalle competenze digitali dei cittadini, per poi considerare il tasso e la velocità di digitalizzazione dei servizi pubblici. Il rapporto Istat, “Cittadini e competenze digitali”, con dati al 23 giugno 2023, permette di misurare i livelli di competenza digitale degli italiani, individuati dal “Digital Competence Framework 2.0”, il quadro comune europeo di riferimento per le competenze digitali.
A fronte dell’obiettivo fissato per il 2030, dell’80 per cento di cittadini (utenti di Internet negli ultimi tre mesi e tra i 16 e i 74 anni) con competenze digitali almeno di base, nel 2021 tale quota a livello europeo era pari al 53,9 per cento. Ma i divari tra paesi europei sono forti. In fondo alla graduatoria si colloca la Romania con il 27,8 per cento, preceduta dalla Bulgaria (31,2 per cento), dalla Polonia (42,9) e dall’Italia (45,7). Insomma, siamo messi male. E il quadro peggiora se si considerano i divari regionali interni.
Il rapporto Istat su “Competenze digitali e caratteristiche socio-culturali della popolazione: forti divari” (20 dicembre 2023) segnala che le competenze digitali sono caratterizzate da forti divari associati alle caratteristiche socio-culturali della popolazione. “Nel 2023 il 61,7 per cento dei ragazzi di 20-24 anni residenti in Italia che ha usato Internet negli ultimi tre mesi ha competenze digitali almeno di base. Tale quota decresce rapidamente con l’età per arrivare al 42,2 per cento tra i 55-59enni e ad attestarsi al 19,3 per cento tra le persone di 65-74 anni”.
La digitalizzazione della pubblica amministrazione
Passiamo alla digitalizzazione della pubblica amministrazione. L’Agenzia per l’Italia Digitale - Agid, nel rapporto su “La spesa ICT nella pubblica amministrazione italiana” (Report 1/2023) nota che la spesa per le tecnologie di comunicazione e informazione - ICT dell’amministrazione italiana “mostra una progressiva crescita che testimonia il proseguimento del percorso verso la digitalizzazione intrapreso dagli enti già a partire dal 2019. Nel 2021 si rileva la crescita più significativa, dopo il rallentamento registrato nel 2020 per effetto della pandemia Covid-19 che aveva determinato un rallentamento degli investimenti. Il tasso di crescita del 10,1 per cento complessivo è sostenuto da un incremento della spesa in tutti i settori della PA”. I settori che segnalano aumenti maggiori sono quelli della istruzione, dell’agricoltura e della sanità.
Un altro indicatore negativo è segnalato dal Dipartimento per la transizione digitale, secondo il quale gli enti aderenti alla Piattaforma digitale nazionale dati - Pdnd, al 23 maggio 2024, erano 6.532, di cui 6.422 enti pubblici. Pochi, se si considera che gli enti della pubblica amministrazione sono molti di più: basti dire che i soli comuni sono circa 8.000.
Questi indicatori sono confermati dai dati europei. Il “Rapporto della Commissione europea sullo stato del digitale al 2023” segnala che la digitalizzazione italiana dei servizi pubblici per i cittadini e le imprese è al di sotto della media europea di ben 9 punti, nonostante i recenti miglioramenti nella disponibilità di infrastrutture e nella intergovernabilità dei sistemi.
Va aggiunto che sono molto contrastanti i dati relativi alle piattaforme digitali. L’utilizzo della piattaforma PagoPa è crescente. Molto diversificata è l’alimentazione del Fascicolo sanitario elettronico da parte dei medici e delle aziende sanitarie, mentre gli indicatori di accesso dei cittadini al fascicolo sanitario elettronico sono tutti molto bassi, salvo che per le regioni Lazio e Piemonte.
Altro fattore negativo è l’interoperabilità. Secondo i “Risultati del Censimento permanente delle Istituzioni pubbliche” dell’Istituto nazionale di statistica - Istat al 2023, “le istituzioni che detengono banche dati che sono state rese interoperabili o che potrebbero essere rese interoperabili sono 3.407, pari al 28,5 per cento delle unità rispondenti. Una amministrazione su sei detiene banche dati che sono state rese interoperabili e quasi una su quattro detiene banche dati che potrebbero essere rese interoperabili. La maggiore propensione all’interazione digitale tra pubbliche amministrazioni, cittadini e imprese si registra presso le amministrazioni dello Stato e organi costituzionali o a rilevanza costituzionale, con il 40 per cento di istituzioni che ha banche dati già rese interoperabili e il 48,6 per cento che ha banche dati che potrebbero essere rese interoperabili in quanto utili per lo svolgimento di compiti istituzionali di altre pubbliche amministrazioni. A seguire Regioni (29,3 per cento e 39 per cento) e università (28,2 per cento e 63,4 per cento). Di contro, la quota più elevata di istituzioni che non detengono banche dati già rese o da rendere interoperabili si registra presso le comunità montane e unioni di comuni (87,2 per cento), presso gli enti pubblici non economici (84,9 per cento) e presso istituzioni appartenenti ad altra forma giuridica (90,3 per cento)”.
La digitalizzazione delle amministrazioni locali
Secondo il rapporto Istat “Pubblica amministrazione locale e ICT”, “nel 2022 l’86,4 per cento delle Regioni e il 70,4 per cento dei Comuni consentono di svolgere “online” l’intero “iter”, dall’avvio alla conclusione, di almeno un servizio pubblico locale. È in forte aumento, dal 34,3 per cento del 2018 al 54,2 per cento, l’utilizzo di servizi di “cloud computing” da parte delle PA locali. Sette amministrazioni locali su dieci non hanno una gestione codificata degli eventi di sicurezza ICT. Il 74,0 per cento delle PA locali accede a Internet tramite connessioni veloci (almeno 30 Mbps, Megabit per secondo), mentre raddoppia (35,8 per cento) rispetto al 2018 (17,4 per cento) la diffusione di quelle ultraveloci (almeno 100 Mbps)”.
Nonostante che aumentino il numero di dipendenti che hanno seguito corsi di formazione in materie informatiche; il numero di comuni che dànno accesso ai servizi “online” con l’identità digitale/Spid (60,2 per cento con la carta di identità elettronica); la quota di amministrazioni locali che si connettono a Internet con la fibra ottica (77,2 per cento nel nord-est); il numero di enti locali che usano pc desktop e pc portatili; il numero di uffici autonomi di informatica, specialmente nelle regioni; la quota di amministrazioni locali nelle quali il personale ha partecipato ad attività formative in ICT (si passa dal 16,9 per cento del 2018 al 23,9 per cento del 2022); l’utilizzo di servizi di “cloud computing” e i livelli di disponibilità dei servizi offerti “online” dalle amministrazioni locali, l’89,1 per cento delle amministrazioni locali utilizza comunque strumenti analogici (timbri, firme, sigle) nella protocollazione, è ancora limitato l’utilizzo di intelligenza artificiale e analisi di “big data” e sono poche le amministrazioni che si preoccupano della sicurezza informatica.
Il peso del passato sul progresso della digitalizzazione
Come ha osservato Alessandro Natalini nell’acuto saggio intitolato “Come il passato influenza la digitalizzazione delle amministrazioni pubbliche”, pubblicato nella “Rivista trimestrale di diritto pubblico”, fasc. 1 - 2022, p. 95 ss., il peso del passato e i caratteri di fondo del sistema amministrativo italiano pesano sull’agenda della trasformazione digitale. Le eredità del passato che hanno maggiormente contribuito a tracciare il sentiero del cambiamento digitale sono state essenzialmente cinque. “La prima legacy è legata alla frammentazione istituzionale e alla mancanza di adeguate forme di coordinamento orizzontale e verticale che caratterizzano da decenni il sistema amministrativo italiano”. “La seconda eredità è costituita dal fatto che l’attenzione ai rischi indotti dallo sviluppo delle tecnologie informatiche (privacy e cybersecurity) non è proporzionale a quella della loro effettiva diffusione negli apparati pubblici.
Questo eccesso di cautela inizialmente ha frenato la digitalizzazione anche se ha portato nella seconda metà degli anni Novanta alla costituzione del Garante per la privacy”. “La terza eredità riguarda il fatto che la politica di digitalizzazione è stata finalizzata essenzialmente a mettere a disposizione delle burocrazie maggiori dotazioni informatiche. Solo a partire dal 2014 è stata effettivamente praticata una concreta progettualità volta a sviluppare applicazioni che migliorino in modo radicale i servizi resi a cittadini e imprese”. “La quarta eredità concerne il rapporto di subalternità del settore pubblico rispetto a quello privato. La questione affonda le sue radici nella incapacità delle amministrazioni pubbliche di formulare proprie strategie di trasformazione digitale e di individuare la strumentazione tecnologica di cui necessitano per attuarle”. “La quinta legacy è legata alla carenza di competenze digitali nel settore pubblico che si è evidenziata in occasione della pandemia con il passaggio molto improvvisato dal lavoro in presenza al lavoro da remoto”.
Un’amministrazione lenta e contraddittoria
Questa rapida analisi di alcuni indicatori dei modi in cui le amministrazioni pubbliche italiane hanno affrontato la rivoluzione tecnologica costituita dalla digitalizzazione conferma due caratteristiche del settore pubblico. Da un lato, questo accetta l’utilizzazione di modificazioni tecnologiche lentamente, in ritardo rispetto alle altre amministrazioni europee. Dall’altro, il settore pubblico opera con velocità diverse e quindi presenta divari interni, sia per l’assenza di coordinamento delle politiche, sia per l’incapacità delle stesse amministrazioni di seguire le “best practices”.
L'Italia e le istituzioni sotto la lente dei numeri: Rapporti alla mano, di Sabino Cassese
generazione ansiosa