Narrazioni alternative
Contro i demoni verdi e lo stress della semplificazione
Di cosa parliamo quando parliamo di crisi climatica. Troppo spesso una narrazione all’insegna di emotività, semplificazione, catastrofismo. E come risposta, l’urgenza di soluzioni che non tengono conto della complessità, o palliativi che calmano solo l’ecoansia. Ma una storia diversa è possibile
Sulla narrazione della crisi climatica aleggia un certo ambiguo catastrofismo che non so se faccia poi bene alla causa – e lo dico perché credo che il riscaldamento globale sia di origine antropica. Una tecnica di comunicazione, indubbiamente. Scelta perché funziona nel breve periodo, serve ad accreditare gli attori oggi sulla scena come politici o influencer di domani. Ma non è detto che alla lunga (dal catastrofismo) si ottengano gli effetti desiderati, e cioè che a seguito della presa di coscienza del problema, vuoi anche per il martellamento delle azioni dimostrative, si avvii una serie di efficaci politiche globali per limitare le fonti inquinanti. Il catastrofismo, altrimenti detto retorica dell’apocalisse, insistendo sul mantra il mondo finirà domani, è già troppo tardi, è già troppo caldo, brucia tutto, abbiamo solo cinque anni, anzi tre, no, due… insomma, facendo partire ogni giorno il countdown, non predispone certo all’azione, al contrario rischia di paralizzare l’azione medesima. Controintuitivo, certo, ma se il mondo finisce domani, non è detto che possa fare qualcosa di utile oggi. Magari me ne vado a una festa perché voglio morire ubriaco e sfatto, o mi ritiro in famiglia, chiudo la porta e chi c’è c’è, chi non c’è non c’è.
Per non parlare della deresponsabilizzazione, tipo: cadono gli alberi, ma è colpa della mancata manutenzione? No, del cambiamento climatico, perché un vento così non ha mai soffiato, guarda e memoria d’uomo non si ricordava una bufera così. L’altro rischio della retorica dell’apocalisse è il vecchio “al lupo al lupo”, il mondo doveva finire domani, ma domani invece è una bella giornata…
Per non parlare della colpevolizzazione del prossimo: ci avete lasciato un mondo schifoso, è uno dei leitmotiv. Che poi, rispetto al passato tanto schifoso il mondo non è, ma la colpevolizzazione evita sia il confronto realistico col prossimo, sia la collaborazione.
Un altro pericolo insito nella retorica dell’apocalisse è quello di chiedere interventi di somma urgenza, insomma annunciare l’emergenza permanente rende non solo più probabile la nevrosi della fretta (sai che ansia che viene) ma poi, mancando la pazienza, viene difficile capire come lavorare giorno per giorno con la materia che abbiamo, le tecnologie esistenti, e senza soluzioni magiche. I procedimenti di somma urgenza richiesti sull’onda dell’emozione spesso sono dei palliativi, anche qui, funzionano sul brevissimo periodo, ma non aiutano la collettività a ragionare con lungimiranza. Ragionare, poi, significa non solo analizzare gli strumenti, testarli e misurare i risultati, ma essere consapevoli di quanto possiamo permetterci di perdere ora per ottenere un beneficio in futuro.
Questa proiezione è già difficile per le questioni normali, faccio per dire, ci impegniamo per anni per riflettere se conviene fare un mutuo oggi per possedere una casa domani. E sono cose che ci riguardano da vicino, pensate come è difficile agire oggi per salvaguardare il domani quando si tratta di cambiamento climatico, i cui effetti magari, per la complessità del clima, sono evidenti per un periodo in una parte del mondo, mentre inesistenti nell’altra parte. Pensate a come è difficile immedesimarsi nei cittadini asiatici travolti dalle piogge mentre noi ci godiamo il tepore primaverile, e pensate a come è difficile per i cittadini asiatici che stanno uscendo dalla povertà mettersi nei nostri panni, mentre, incazzosi, soffriamo un’estate calda, accendiamo il condizionatore e gridiamo alla decrescita.
Sempre a proposito di difficoltà, non è scontato fare altresì i conti con la demografia. L’occidente invecchia, in Italia c’è crescita zero, e ci sono tanti 45enni, in Africa e in India la piramide demografica è invece rovesciata. La sostenibilità ambientale è anche questione di vecchi contro giovani, di chi tira i remi in barca (perché il tempo ha potere sui nostri corpi) e chi vuole conquistare dopo tanto sbandare il suo spazio, di vecchie e tronfie energie e nuove e potenti.
Già tutto questo è difficile, pensate infine a come è difficile immedesimarsi nei ragazzi che bloccano il traffico a scopo dimostrativo e capire le loro ragioni. In questi casi, è vero c’è chi li insulta e fa battutacce (come è facile appellarli gretini), ma analizziamo le tragiche e spossanti contraddizioni. Prima di tutto, dopo esserti trovato in un blocco stradale da loro procurato devi prenderti un calmante, ma di quelli potenti, anche perché non ce la fai a leggere i loro incresciosi cartelli fatti di plastica e combustibili fossili con i quali inneggiano alla decrescita.
Poi, attribuendo tutto al cambiamento climatico perdiamo sia il senso sia il gusto per le sfumature, entrambi gli elementi richiedono analisi e attenzione, insomma razionalità, non emotività, con tutto quello che ne viene fuori. A parte che non si può attribuire tutto al cambiamento climatico, dall’incendio alla pioggia un po’ più intensa, infatti esiste la scienza delle attribuzioni (se la si consulta si vede che non tutti gli eventi catastrofali sono attribuibili al cambiamento climatico). Tuttavia gli ecologisti hanno ragione a prendersela con i negazionisti, l’Antartide si sta sciogliendo a velocità record, e c’è poco da fare, è responsabilità di noi sapiens, basta guardare alcuni grafici in cui si vede che in Antartide la deviazione standard (che è una misura statistica dello scostamento di un dato rispetto alla media) è sigma 6, cioè questo scostamento è talmente fuori dalla media che è impossibile sia per cause naturali.
Ma se tutto questo è vero, allora dobbiamo approfittarne non per negare le contraddizioni ma per animarle, con tutta la durezza necessaria. Per esempio, voi negazionisti avete vita facile, dite sempre di no, ma voi ambientalisti con i vostri slogan a chi vi rivolgete? A me? Agli altri, a tutti? Perché sapete, il vostro grido – vogliamo vivere – così spontaneo e giusto e naturale, si aggiunge e nello stesso tempo cozza, con il vogliamo vivere degli altri otto miliardi di persone che in coro dall’altra parte del mondo, gridano: certo, vogliamo vivere anche noi! Solo che magari vivere per alcuni significa andare al mare e fare foto su Instagram, per altri significa uscire dalla povertà, non avere problemi economici, godersi la vita, amare senza costrizioni sociali e tutto questo complesso di desideri per essere esaudito necessita di energia: e sapete che c’è, me la prendo, dovunque e in qualsiasi forma essa si trovi.
Insomma, il paradosso in questa benedetta questione ambientale è che è proprio la nostra voglia di vivere a lungo e con gusto – viaggiare, produrre, consumare, crepare – a determinare l’inquinamento, l’impattante costo dei nostri passi, la poca sostenibilità, dunque lo sfruttamento di risorse. Tutti vogliamo vivere ed esprimerci, è cosa buona e giusta ma non aliena da contraddizioni. Un po’ come quando sei in aeroporto e c’è un pianoforte disponibile per suonare. E’ bello sentire il prossimo che suona, bello sentire anche il secondo, ma già al terzo cominciate a sentire delle strane fitte al cuore, poi la palpebra comincia a contrarsi per via di inspiegabili tic nervosi, e infine quando il pianista successivo si palesa e suona, voi pensate qualcosa tipo: avete rotto i coglioni. Capite la contraddizione? E’ bello che tutti possano esprimersi e vivere al meglio, non così bello a lungo andare che tu debba sorbirti i desideri e la creatività di ognuno.
Questo è il mondo oggi, pieno zeppo di pianisti che vogliono esibirsi consumando risorse, pure le tue: tu lotterai sempre affinché il prossimo possa esibirsi ma di tanto in tanto pensi che il problema del prossimo sia la sua eccessiva prossimità: lo vorresti eliminare, togliergli le energie. Che dire, la vecchia e atavica lotta per l’esistenza, mors tua via mea.
Quindi, visto lo stato dell’arte, considerati gli otto miliardi di persone (cresciute di un botto, nel giro di una generazione perché, a proposito di mondo che non è proprio schifoso, abbiamo realizzato un sogno: un mondo dove i bambini non morissero più), cosa possiamo fare domani? Voglio dire, oltre ai pannelli solari messi sui tetti, come possiamo risolvere nel giro di due, tre anni, prima che il mondo bruci, la dipendenza dalle fonti fossili? Visto che ancora oggi – ci ricorda l’ambientalista Vaclav Smil – l’84 per cento dell’energia che il mondo utilizza deriva dalle fonti fossili. Fonti fossili che usiamo per vari motivi, sia strutturali sia economici. Strutturali perché i quattro pilastri che fondano il mondo moderno, acciaio, cemento, plastica e ammoniaca necessitano di fonti fossili. Economici perché quelle fonti costano ancora poco e hanno un basso know how, si tratta di scavare e bruciare, niente di che.
Noi, realisticamente, una volta finito il blocco stradale, una volta messo il like su chi con la passata di pomodoro o la vernice lavabile ha imbrattato un quadro a scopo dimostrativo e per dirci svegliatevi, il mondo brucia e voi state così calmi quando dovreste essere ansiosi come noi (una pratica di protesta difficile da capire, se scomunichiamo buttando vernice su quanto di meglio l’ingegno umano ha prodotto, sia un quadro o un’opera d’arte, e spesso a seguito di sofferenze e amarezze e privazioni, così umane, se mortifichiamo tutto questo poi come possiamo fare appello all’ingegno umano per salvare il mondo?), una volta passata l’ansia per le grida, gli incatenamenti, gli slogan, noi, appunto, che possiamo fare? Farci meno docce, prendere sempre e solo la bicicletta, comprare prodotti a km 0? Diventare come quei guru che vivono nella casetta in Canada, ci dicono di decrescere e poi si fanno pagare bene (i loro agenti e le loro agenzie evidentemente hanno diverse idee sulla questione profitto).
Non è che questa narrazione ripetuta ad libitum senza la dovuta analisi e i necessari distinguo ci impone obiettivi non realistici che finiremo per non raggiungere mai, con tutto il carico di frustrazione e rancore e accuse agli altri? E ancora, non è che questa narrazione ci parla dell’inevitabile che sta per accadere e illumina solo i nuovi profeti dell’apocalisse, del si stava meglio prima? Vecchi e nuovi profeti, bravissimi nei cahiers de doléances ma molto reticenti nel proporre alcuni utili strumenti da usare? Faccio per dire, a seguito delle preoccupazioni per il clima, del non c’è domani, dovremmo uscire dal blocco stradale con delle domande, sì, ma pure con delle risposte. Le centrali nucleari vanno considerate come soluzioni efficaci? Per me sì, ma già ai tempi, al referendum del 1987 avevo votato no all’abrogazione. O basta pronunciare a go-go la parola rinnovabili? Possiamo gridare all’agricoltura biologica ogni volta che parliamo di agricoltura, ignorando che i patogeni non sanno leggere le brochure illustrative, nemmeno capiscono gli slogan politici e hanno un solo scopo nella vita: mangiare piante e frutti? In realtà poi anche noi abbiamo questo scopo, ma noi facciamo i buffoncelli, facciamo poesia sul cibo. Insomma i patogeni vanno combattuti e quello che li combatte è una molecola chimica, quindi o bio o convenzionale, naturali o di sintesi, alla fine sempre la chimica devi utilizzare. E allora, possibile che non riusciamo a dichiararci pro Ogm e assolutamente sì, favorevolissimi a tutto il complesso delle biotecnologie, ottimi strumenti, molto efficaci per abbassare la dose di chimica e non solo? Li vogliamo sperimentare o vogliamo lamentare un attacco di ecoansia? No, perché con la sperimentazione siamo indietro di 25 anni, anche per merito degli ambientalisti. E sempre a proposito di Ogm, le arature? Ottime per alcuni versi, nocive per altri, soprattutto perché rilasciano carbonio, le arature vanno ancora perseguite, senza se e senza ma? Se volessimo ridurle dovremmo utilizzare tecniche di non lavorazione per le quali è necessario abbinare piante resistenti agli erbicidi, così si è più selettivi nel diserbo (perché puoi stimare a vista le infestanti in campo e decidere se agire o non agire a seconda della quantità di infestanti).
Ancora, troveremo il modo di modificare geneticamente quei batteri che sintetizzano l’azoto atmosferico così che possano entrare in simbiosi con tutte le piante e non solo con le leguminose, una buona possibilità per ridurre l’azoto sintetico che necessita, per essere prodotto, di alte energie (e ci vogliono purtroppo gli idrocarburi)? Si può pensare di sognare in grande? Per esempio cambiare la forma del wc e delle città (città che si accrescono e sono un coacervo di desideri e contraddizioni) per recuperare al meglio le acque reflue ed estrarre fosforo dalle nostre urine, così da farlo tornare nei campi e concimare le nostre piante? Possiamo sequestrare carbonio piantando un miliardo di piante – che poi le piante, è vero, attraverso la fotosintesi sequestrano il carbonio e lo trasformano in amido e ossigeno, ma è pur vero che durante la notte attraverso la respirazione rimettono in circolo anidride carbonica (anche se il bilancio è a favore dell’ossigeno) – oppure è il caso di sperimentare forme efficaci di sequestro di carbonio attraverso l’ingegneria ambientale?
E queste pale eoliche? Che facciamo? Perché sempre l’ambientalista Vaclav Smil ci ricorda che le turbine stesse sono l’emblema dei combustibili fossili. Grandi camion portano l’acciaio e altre materie prime sul sito di costruzione, macchine in movimento terra tracciano i sentieri, spesso in posti impervi per poi posizionare le pale: “Per una turbina da 5 megawatt, servono in media 150 tonnellate di acciaio, solamente per le fondamenta in calcestruzzo”. La produzione di acciaio è uno dei pilastri che fonda il mondo moderno e nella fattispecie necessità di un grosso quantitativo di energia: “Minerali ferrosi che hanno subìto un processo di sinteraggio e di pellettizzazione sono fusi all’interno di un altoforno caricato a carbone”. Insomma, fatti i conti, per costruire il numero di turbine eoliche utile a soddisfare la domanda di energia da qui al 2030 – secondo i calcoli di Smil – c’è bisogno di 600 milioni di tonnellate di carbone. E questo senza considerare altri indispensabili processi. Come per le turbine eoliche così è anche per tante altre pratiche, ritenute di primo acchito sostenibili e che gridiamo di volere senza se e senza ma nei cortei.
In questo bailamme, per mitigare la temperatura, per abbassare la dose di schifezze che buttiamo nell’aria allo scopo di alimentare il nostro benessere e il pianista che è in noi, riusciremo a scegliere e selezionare una classe dirigente che sappia qualcosa di energia? Che non confonda energia con elettricità o costi con prezzi (come Elly Schlein e tutti gli altri, che però perlomeno non si professano ambientalisti). In fondo, è l’energia che muove il mondo, prima ancora dell’amore, dunque l’energia dovrebbe essere il nostro primo interesse. Ma per affrontare il tema energia bisogna avere abbastanza energia per affrontare la complessità.
La complessità è solo l’altra parte del problema, il rimosso delle narrazioni catastrofiste, che non riguardano solo la narrativa ambientale e si sono diffuse ovunque, un vero inquinante. Con i loro slogan a effetto, perturbanti, ci abituano in realtà a una narrazione semplificata e propongono, spesso, soluzione tout court, anche queste a effetto, progetti ambiziosi quanto irrealistici, progetti che hanno il solo scopo di calmare l’ansia che la precedente narrazione ha messo in circolo: sono meccanismi di potere dove c’è uno che annuncia profeticamente la fine, e un altro che si mette a pregare. Queste narrazioni ci disabituano alla complessità della realtà, a maneggiare soluzioni di compromesso, ad aprirci al ventaglio delle possibilità, e ci tolgono la pazienza necessaria per studiare, collaborare, sperimentare, testare, e soprattutto affrontare il demone che è in noi, la nostra testardaggine, la difficoltà a cambiare idea, la convinzione tutta moderna che abbiamo un pianista interiore che deve poter esprimersi senza prima validare la sua creatività.
Il demone è forte perché raccontiamo storie così semplificate che non fanno altro che alimentare la sua smania e il suo potere: è il vero problema della modernità, il rischio di perire è più intellettuale che fisico, o meglio se il mondo avrà fine (ma tanto prima o poi finirà), se accelereremo la nostra dipartita e se soffriremo inutilmente lo dovremo alla nostra predisposizione per le storie semplici e le soluzioni ad effetto.
Il problema della modernità è l’esponenziale moltiplicazione di narratori (qui inteso in senso lato, l’intellettuale, l’opinion maker e le migliaia di pianisti) che accarezzano il nostro demone: e cioè risolvere tutto velocemente, anche con modalità magiche e poco epistemologiche, meno fatica facciamo, meno energia sprechiamo. Il problema della modernità, dunque, prima ancora del cambiamento climatico, dell’energia, della politica, sono le storie.
Su noi sapiens sono stati scritti innumerevoli trattati, saggi e riflessioni. Però, più che questioni ontologiche, è interessante capire che noi siamo quello che siamo perché siamo delle storie ambulanti. La nostra coscienza è essa stessa una storia ambulante, basta considerare la quantità di volte che ci troviamo a confabulare, nel tentativo di far tornare i conti.
Non so se è opportuno parlare di salvezza (fa tanto retorica dell’apocalisse), ma guadagneremmo tanto, in termini di consapevolezza dei problemi, conoscenza e ricerca delle soluzioni, se imparassimo a raccontare e ad ascoltare storie più complesse. Non è facile, perché le storie sono fatte per rispondere al nostro demone. Sono bacchette magiche, fonte di illusioni e sogni, ed è sempre stato così, ma ora tutto è più semplificato e di conseguenza a tutto si presta meno attenzione.
Nella mia famiglia si raccontava spesso questa storia: a Piedimonte Matese, piccolo paese agricolo alle falde del massiccio del Matese, c’era un contadino che aveva una vacca molto magra e malmessa e andò al mercato per venderla. Prova e riprova, non ci riesce, e ci credo: era così magra che nessuno si avvicinava, finché arriva Ciccio Capa Tosta, uno straordinario venditore, una testa dura insomma, e Ciccio, siccome è Capa Tosta si mette in testa di vendere lui la vacca di mio nonno, così, per sfida. E comincia a urlare, a invitare la gente ad accorrere per osservare le straordinarie, uniche caratteristiche di questa vacca, che siccome è magra non spreca energia e produce latte saporito, una vacca unica al mondo che solo pochi contadini esperti possono davvero avere, ecc. Tanto si sbracciò, tanto disse che qualcuno si fece avanti per acquistare la vacca, ma il contadino nel frattempo, ascoltando Ciccio Capa Tosta guardava la vacca con occhi diversi. Per lui ora quella vacca era la migliore che esisteva e decise di non venderla: se la tenne per sé e si convinse che il latte che produceva quella vacca era profumatissimo e buonissimo. Ovviamente questa storia veniva usata per sfottere i poveri contadini sempliciotti di una volta, e invece non riguarda solo loro, ma tutti noi, noi benestanti, evoluti, intelligentissimi abitanti dell’occidente: la storiella, infatti, mette in luce sia il potere delle storie, sia il loro pericolo. Le storie hanno una doppia faccia, è un attimo che si gira pagina, possono essere convincenti o subdole, ingannevoli o illuminanti. Siccome noi umani siamo storie ambulanti, ogni volta che riflettiamo su noi stessi e sulle scelte sentimentali, politiche, ambientali, dovremmo riflettere su come raccontiamo le storie. In fondo, il senso della nostra vita è tutto lì, nelle storie.
Nessuno sa chi è stato il primo a inventare le storie e si sono fatte molte ipotesi, gli antropologi esaminando le comunità preletterate hanno individuato due tipologie di storie diverse, quelle diurne e quelle notturne. Le storie diurne riguardavano i racconti di ordinaria amministrazione, chi fa cosa e come bisogna farla, questa cosa. Le storie notturne sono diverse: illuminati dalla luce del fuoco che trasfigura il volto, gli anziani raccontavano vecchie storie, imprese, battaglie, esperienze varie. Si drammatizza il racconto, per dare il peso giusto alla testimonianza e ovviamente si ascolta, perché apprendere è fondamentale, se mai mi dovessi trovare in una situazione simile saprei come uscirne: ascoltare, apprendere potrebbe fare differenza tra essere vivi o morti. Può darsi che le storie, nelle modalità e finalità che ritroviamo ancora oggi, vengano da quei fuochi e da quelle notti e portino oltre al racconto di un avvenimento anche una morale. Ciò vuol dire che servono a orientare, e per orientare ci vogliono delle regole, e le storie in ultima analisi fanno emergere dei comandamenti: non fare questo altrimenti… oppure fai questo altrimenti… Ascoltare, imparare, essere rassicurati, sapere come uscire da una brutta situazione in alcuni momenti, passati e presenti, è servito tantissimo e ancora serve. Diciamo che le storie rassicurano, placano le ansie o mettono ansia, da qui il potere e da qui il pericolo. Da qui la vacca magra creduta speciale, da qui la vacca magra che a forza di crederla speciale finisce che muore.
Fabrizio Benedetti è un neuroscienziato e da anni studia l’effetto placebo (quando dopo la somministrazione di un farmaco inefficace, acqua e zucchero, provi una sensazione di benessere). Benedetti quando spiega l’effetto placebo ti fa vedere un video dove viene chiesto a un malato di Parkinson di toccare delle spie quando si accendono. Naturalmente non riesce. Poi arriva un’infermiera che si avvicina a lui, lo accarezza, gli parla con voce suadente, e gli dice che ora gli somministreranno un farmaco nuovo, molto efficace e niente, gli danno invece acqua e zucchero, un placebo. Ma lui sorprendentemente quando ripete il test riesce a toccare tutte le spie. Se ne ricava che il nostro cervello è predisposto ad accogliere le buone aspettative e le storie preparano il terreno. I nostri neurorecettori, stimolati dall’aspettativa che la storia propone, producono le endorfine e ci sentiamo meglio. Solo col potere della parola la vacca magra diventa speciale – pensate al potere delle dichiarazioni d’amore, a quello degli slogan politici e pubblicitari. Pensate alla continua produzione di storie e allo stress che i nostri neurorecettori ne ricavano.
Se chiedi a Benedetti, scusa ma perché non curiamo tutto col placebo, lui ti dice: ma che stai a di’, a parte che il placebo fornisce un effetto benefico sui sintomi, li allevia, ma non cura la causa, ma poi l’effetto varia da soggetto a soggetto, se io sono predisposto a credere, l’effetto sui di me sarà più grande rispetto a te che invece sei scettico. Come dire, l’effetto vacca magra creduta speciale potrebbe funzionare da soggetto a soggetto, ed è vero, con le parole ti induco a credere che hai una vacca speciale, ma tutto questo a lungo andare, non rende speciale davvero la vacca. Se poi sei scettico per natura il placebo proprio non attacca e la vacca non la compri. Poi è anche vero che il placebo dura una ventina di minuti, mentre il farmaco invece ha un effetto misurabile su tutti, e si aggira intorno alle due ore, tranne la morfina che è potente e dura a lungo.
Però pensate al dilemma che ne viene fuori, anche Benedetti ci ha riflettuto: se per esempio arriva un mago e ti fornisce un amuleto grazie al quale starai meglio, e veramente hai un piccolo beneficio, chi sono io per dirgli di non usare quell’amuleto? E se al contrario io deludo tutte le aspettative del paziente, alzando la sua consapevolezza, non rischio così facendo di abbassare la necessaria empatia, fondamentale per attivare una risposta al farmaco? Perché una delle caratteristiche di noi umani che Benedetti ha scoperto studiando il placebo è che anche un farmaco vero, la cui efficacia è stata testata, anche questo farmaco va annunciato, altrimenti potresti non provare nessun giovamento (tranne la morfina, funziona lo stesso, annuncio o non annuncio): insomma per avere un effetto benefico un po’ devi crederci alle storie, ma allo stesso tempo, se ci credi troppo ottieni un effetto malefico, e se non ci credi affatto, nemmeno si instaura quella predisposizione d’animo che ti fa accogliere la voce dell’altro che magari poi si riflette su di te, o grazie alla quale puoi raccogliere il testimone della storia e portarlo più avanti.
Rebus sic stantibus, ogni volta che raccontiamo una storia si pone lo stesso dilemma: come fare a costruire narrazioni che non alimentino un blando effetto placebo, quelle cioè che soddisfano le aspettative del lettore senza fornirgli un reale miglioramento? Come, al contrario, costruire delle storie capaci di leggere la realtà, a costo di deludere le aspettative, ma senza perdere la necessaria fiducia, il patto narratore-lettore, senza il quale non puoi nemmeno cominciare a raccontare?
La risposta dovrebbe essere: buttiamo via tutto lo storytelling imperante e non solo quello ecologista. Se vogliamo dare senso alla nostra vita e certo salvare l’ambiente (e sarebbe una grande opera collettiva di ingegno) conviene studiare i problemi con serietà e valutare le opzioni realisticamente disponibili. Ci vogliono storie che accolgano e ci facciano capire nonché studiare la complessità in cui siamo immersi. Forse così avremo una leva per provare a sollevare il mondo e liberarlo da quei demoni che ci fanno credere di risolvere le cose senza nemmeno capire cosa dobbiamo risolvere.
Politicamente corretto e panettone
L'immancabile ritorno di “Una poltrona per due” risveglia i wokisti indignati
Una luce dietro il rischio