Facce dispari

Giuseppe Veraldi: una vita per il cirneco, millenario cacciatore di Sicilia

Francesco Palmieri

Agili come levrieri, con orecchie aguzze e sensibili ai fruscii. Una razza salvata dall'estinzione tra gli anni trenta e cinquanta del secolo scorso, grazie all'aiuto ricevuto da aristocratici siciliani. Intervista al presidente della Società Amatori Cirneco dell'Etna 

Curzio Malaparte rinunciò a épater le lecteur con quel suo ricorrente tremendismo quando dedicò, ne ‘La pelle’, pagine del più schietto e straziante sentimento a un cane e alla sua fine: chi ha avuto in sorte profondo legame con un compagno a quattro zampe avrebbe l’obbligo di leggerle e la cura di non rileggerle, salvo a volersi infliggere premeditata sofferenza. Febo, il cane che “aveva il manto color della luna, roseo e dorato”, era un cirneco dell’Etna, razza primitiva accertata almeno quattromila anni avanti Cristo e che secondo i pastori di Lipari cacciava la morte, sorta di dio Anubi en revenant, reminiscenza egizia traghettata dai Fenici di Cirenaica in Sicilia, dove per indulgenza o dimenticanza della storia durò in inalterata purezza.

È il cirneco d’oggi quel che era sulle monete greche, sulle sculture e nelle citazioni letterarie tra Seicento e Ottocento, agile come un levriero, dalle orecchie aguzze sensibili ai fruscii. Cirnechi conducevano il principe di Salina e don Ciccio Tumeo a scovare conigli selvatici, e “la loro patetica tensione in attesa della preda era identica a quella dei giorni in cui per la caccia s’invocava Artemide”. Cirnechi, “curati come cristiani”, accompagnarono nella caccia fatale del 23 agosto 1964 “il povero farmacista Manno” e il dottor Roscio nel giallo non giallo di Leonardo Sciascia ‘A ciascuno il suo’. L’avventura millenaria del cirneco stava per esaurirsi con l’estinzione se fra gli anni trenta e cinquanta del secolo scorso non l’avesse salvato, impegnando la sua breve vita, donna Agata Paternò Castello dei duchi di Carcaci, con la pervicacia che spinse certi aristocratici siciliani verso imprese anche dispari quali la confidenza coi fantasmi e le comete (non a caso nel ‘Gattopardo’ Tomasi nota che il principe chiamò Svelto un pianetino che aveva scoperto, come “un suo bracco indimenticato”).

 

 

Giuseppe Veraldi, classe 1950, catanzarese di nascita e modicano di adozione, è da venticinque anni presidente della Società Amatori Cirneco dell’Etna, fondata nel 1951 da donna Agata e riconosciuta ufficialmente nel 1956 dall’Enci, l’Ente nazionale della cinofilia italiana, con “lo scopo di studiare, migliorare, valorizzare e incrementare” la razza. Volto ottocentesco dal sorriso sornione incorniciato nella barba bianca, Veraldi ha coltivato la passione del cirneco anche quando girava l’Italia da ispettore di polizia penitenziaria, incardinando a Modica affetti familiari e diletti venatori.

 

Quando incontrò il primo cirneco?

Nel 1969, quando arrivai in Sicilia per lavoro, sul terreno di caccia. Mi colpì l’aspetto morfologico: bello, fiero, elegante nella rusticità. Poi ne scoprii il carattere: il cirneco obbedisce a un unico padrone e non lo tradisce mai, sviluppa un rapporto simbiotico per cui può andare a caccia soltanto con lui e bisogna addestrarlo da cucciolo. Se lo prendi adulto non s’affeziona più.

 

Qual è l’habitat della razza?

La sua massima espressione era nelle zone laviche alle pendici dell’Etna e nei terreni pietrosi tra anfratti e canaloni. Nel Ragusano si muoveva a proprio agio tra i muri a secco tipici dove venivano lasciati cunicoli per i rifugi dei conigli. Per la sua versatilità oggi il cirneco è impiegato dappertutto e con qualsiasi selvaggina, ma la specialità è stata la caccia al coniglio. Lo individuava, lo costringeva a entrare nella tana e lo segnalava al cacciatore, che a quel punto liberava un furetto con il compito di costringere il selvatico a uscire per l’ultimo atto.

 

Si utilizza ancora il furetto?

Un tempo fu l’ausiliario indispensabile dei cacciatori con la “C” maiuscola, cioè i puristi, non gli “sparafucile”. Oggi è permesso solo in alcune zone della Sicilia a causa della rarefazione del selvatico, che senza l’impiego del furetto ha più chance di salvarsi. La scarsità di conigli non è dovuta ai cacciatori, ma alle mutazioni del virus del mixoma creato in laboratorio in Australia per arginare la moltiplicazione dei conigli, che purtroppo s’è propagato anche in Sicilia. Neanche le vaccinazioni possono debellarlo, se attecchisce non c’è scampo e nelle campagne abbiamo trovato centinaia di esemplari morti.

 

 

Il cirneco è impiegato anche per altre mansioni?

È eccellente nel riporto, per la ricerca tra le macerie, per la rilevazione di droghe e esplosivi o per semplice compagnia, a patto che gli si dia la possibilità di sfogare ogni giorno la sua vivacità. Se dormicchia su un divano si guasta. È un guardiano dai sensi acutissimi ma abbaia solo se c’è un motivo. E non deve aver paura di niente.

 

L’estinzione è un rischio superato?

Fortunatamente sì. Anche se gli esemplari iscritti all’Enci non sono moltissimi, attorno ai duecento all’anno, il cirneco è presente in varie zone d’Italia e ce ne sono in Gran Bretagna, Finlandia, Russia, Stati Uniti. Nel 2021 la Regione lo ha incluso nel Reis, il Registro delle eredità immateriali della Sicilia. È il più antico cane italiano e non è l’unico gioiello cinologico dell’isola, perché altre due razze sono state salvate negli anni scorsi: lo spino degli Iblei e il cane di mànnara, ossia il mastino siciliano, Gli ultimi esemplari di spino, originari del Ragusano, furono recuperati tra le masserie e i soggetti riprodotti nella selezione vennero dati in affidamento ai pastori fino a ottenere il riconoscimento dell’Ente nazionale cinofilia italiana, che ha sostenuto anche le ricerche genetiche. È seguito il salvataggio del cane di mànnara, tipico del Palermitano: ora è la diciottesima razza nazionale registrata.

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