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L'invenzione della forchetta e il debito che abbiamo nei confronti del Medioevo

Roberto Volpi

Un'epoca di mille anni non può essere ridotta a una semplice parentesi nella storia: un'analisi critica di un millennio pieno di luci e ombre, guerre e conquiste ma e che sicuramente non deve essere idealizzato perché la realtà vissuta dalle persone era ben diversa dalle nostre rievocazioni

Abbiamo un debito col Medioevo. Così ci stiamo adoperando a pagarlo con tanto di interessi, anno dopo anno, a tassi crescenti perché composti, e dunque senza neppure la certezza di riuscirci. Ce la meritiamo, una condanna così per un debito così. Intanto, e in primissimo luogo, un debito di datazione. Un’epoca di mille e passa anni dal V al XV secolo si può chiamare con il nome di un intermezzo, di una parentesi, di una pausa nel corso della storia? Medio, come a dire un posizionamento, un segnaposto. E poi un debito, che dalla datazione obbligatoriamente deriva, di mai compiuta sistematizzazione. Il Medioevo è il Lungoevo in tutti i sensi lungo. Di tempi, luoghi, eventi, storie, culture e civiltà. Impossibile riassumerlo sotto un’unica etichetta, se non al costo di inevitabili affastellamenti che piuttosto che semplificare ingarbugliano la visione d’insieme. Dice: ma bisogna pure datare, inquadrare, collocare avvenimenti, vicende, personaggi, popoli. E lo abbiamo fatto male, com’è evidente.
 

Com’è altrettanto evidente che il tempo di riparare è tramontato da un pezzo. Il Medioevo inizia con una cortina di tenebre che cala sull’Europa, crollata Roma si perde il latino, si disimpara a scrivere, a comunicare, ci si inselvatichisce nell’Europa che ancora non è. E finisce con un sipario che si alza sul mondo nuovo scoperto dall’Europa di là dall’Oceano. Nel mezzo, di tutto di più. Ma se ci furono errori e debiti, ed ecco fare capolino l’eterogenesi dei fini, a guadagnarci fu proprio lui, esso, l’Evo. Il Medioevo. Perché nel grande guazzabuglio ognuno può pensare di pescare il suo Medioevo, quello che più gli aggrada, gli garba, lo attrae, lo stuzzica o lo inquieta, lo coinvolge e sconvolge, se proprio non lo terrorizza. Perché naturalmente il Medioevo è anche questo: “Ebbrezza del carnaio”, dice Duby. “Il gusto del sangue. Distruggere, e la sera il campo disseminato di cadaveri: ecco la modernità dell’XI secolo”. Secolo, quest’ultimo, iconico per eccellenza: il Mille. Di passaggio, oltretutto, tra alto e basso medioevo. E allora via, ciascuno alla ricerca del suo Medioevo con la certezza, e qui è il bello, di trovarlo. Perché non c’è viaggiatore d’oggi, scrittore o lettore, studioso o discepolo che sia, che attraversi il Medioevo senza trovarvi quel che sperava. E dunque epoca, in questo multiforme apparire, attrattiva quante altre mai. La controprova sta nel fatto ch’è tutto un fiorire di ricerche ed esperti e pure di corsi e cattedre universitarie di medievistica e dintorni. Un boom che la storia degli altri Evi lo vede col binocolo
 

Il fascino del Medioevo è tutto nella sua sterminata incompiutezza, che si dirama in tutte le direzioni possibili, in ogni direzione promettendo scoperte e novità e, diversamente dal composito e squinternato quadro generale, pure compiutezze. E anticipazioni di quel che sarà. Nel Medioevo sembra ormai risiedere, a leggere e ascoltare dai giornali alle tv, dalle riviste ai saggi, la radice di tutto: filosofia e teologia, cosmologia e astrologia, fisica e matematica, arte e letteratura, scienze e medicina e via via fino alla filologia. Se si toglie la pedagogia, di fronte alla quale il Medioevo arretrò come un vampiro che vede il crocifisso – a meno di non considerare vergate e schiaffoni mezzi adatti all’educazione dei più piccoli, come pure i nostri avi di allora, educatori in primis, pensavano caldamente – niente dello scibile umano già non alberga in nuce tra le pieghe del Medioevo. Non in modo compiuto, si capisce. Ma niente gli fu neppure estraneo. E se vai a sceverare non trovi forse l’opera, il carteggio, il ragionamento, la definizione, l’invenzione, la formula, l’assioma, la congettura, l’ipotesi che introduce a questo o a quello, che anticipa o almeno apre la strada a teorie e discipline che spaziano da un capo all’altro del sapere, della cultura, dell’umana creatività? Per questo il Medioevo è il campo da gioco preferito da studiosi e improvvisatori, da competenti e avventizi, da primedonne e neofiti: ciascuno, ovviamente in proporzioni variabili secondo capacità e competenze personali, può trovarvi la nicchia nella quale assestarsi e cercare di piantare una propria, personalissima bandierina.
 

Terreno di incursioni di tutti i tipi, dunque, il Medioevo. E ovviamente di fraintendimenti. Per andare in materia di fraintendimenti a pescare che più lontano non si può, nientemeno che in un romanzo famoso, un successo planetario degli inizi del secondo decennio dei Duemila, “La verità sul caso Harry Quebert”, di Joël Dicker, siete pregati di ascoltare. “Vedi Marcus”, dice dunque questo Harry Quebert, astro di prima grandezza della letteratura nordamericana al suo allievo preferito e scrittore a sua volta: “Io so esattamente che tipo sei: un piccolo presuntuoso di prima qualità, convinto che Montclair sia il centro del mondo. Un po’ come gli europei del Medioevo prima di prendere una nave e scoprire che le civiltà al di là degli oceani erano quasi tutte più sviluppate della loro, cosa che cercarono di dissimulare a furia di massacri”. Ora, non c’è neppure bisogno di argomentare che in questa frase si affollano, a voler essere buoni, un bel po’ di banalità che sembrano partorite dai cervelli parecchio confusi di quegli universitari, discepoli e discenti, woke di insuperabile conio, impegnati in attività di cancel culture et similia. Il nostro, non contento della sua sterminata varietà, zeppa anche Colombo e Magellano e Cortés e compagnia viaggiante nel Medioevo; età che considera a tal punto buia da fare dell’Europa la cenerentola tra le civiltà del tempo, massacrate dalla stessa Europa, par di capire, anche per curare un complesso di inferiorità nei loro confronti. Che, per dirne una, i conquistatori/devastatori europei con cavalli e preti al seguito non incontrassero tracce di scrittura nelle civiltà che fino a non troppi anni indietro si era soliti definire precolombiane, roba che oggi si rischierebbe la forca ad azzardare altrettanto, non turba le ideologiche schematizzazioni di Harry Quebert alias Joël Dicker. Ahi, perché qui nell’arretratezza medievale dell’Europa era pur sempre fermentata, per fermarsi al capolavoro sommo, la Divina Commedia nel tempo stesso in cui gli aztechi macellavano sui loro alti altari mica i tori dei poemi omerici, i bambini e le vergini, piuttosto. Ma insomma, questo per dire che il Medioevo si presta a tante e perfino opposte letture per indeterminatezza di confini e ovviamente di competenze che a esso si applicano.
 

E con ciò arriviamo al centro del discorso odierno sul Medioevo, che pare essere piuttosto questo: che le letture e le interpretazioni da variegate si sono uniformate, sono diventate più omogenee; e da tendenti alle tinte più scure hanno gradualmente virato in direzione di colorazioni decise sì, accese, anche, violente perfino, ma tutte e sempre vive e vivaci e ricche di storia e novità. Insomma, oggi come oggi Medioevo è bello. È bello anche nel brutto, per intenderci. Ed è esattamente qui che non si può concordare. Il Medioevo non fu bello. Non per gli uomini e le donne che lo abitarono. Per gli uomini e le donne di allora la vita fu una miseria. Né valgono a rovesciare le cose le abissali diversità di nascita e censo, ricchezza e cultura. I signori morivano per ingozzarsi di selvaggina e libagioni, o non piuttosto pugnalati e avvelenati. Ma morivano. E se non proprio giovani, certamente non vecchi. Non come mosche, d’accordo; una mortalità del genere spettava agli strati più umili, al popolino, alle plebaglie, ai lavoratori delle terre infauste in cui seminavi uno e con le tecniche di allora raccoglievi quattro dovendo reimpiegare uno per continuare il ciclo – e questo quand’erano annate buone, altrimenti era la fame. La fame sempre in agguato, dietro l’uscio, aprivi ed entrava il soffio gelido della carestia. Esistenze segnate al massimo grado da incertezze e paure di ogni tipo. Paure delle guerre, delle malattie, della fame, del buio, del nemico, dell’altro, del domani, dell’aldilà. Di sera si aggrumavano stretti i contadi attorno ai castelli feudali; le municipalità serravano le porte delle mura; le ronde scandivano le ore come le liturgie dei monaci nei conventi; nessuno che si azzardasse a mettere un piede fuori di casa, giusto il prete per i sacramenti, ma se proprio la morte incalzava; non certo il medico, che del resto non curava.
Si mettevano al mondo, sovente lasciando la pelle nel parto, sei-sette figli per averne due in età adulta a sostenere non già vecchiaie, che non ce n’erano come le intendiamo noi, ma vite che nel quinto decennio erano già piegate e piagate dagli sforzi di un’esistenza grama e ingrata dalla quale ci si separava senza rimpianti sperando di andare incontro al meglio piuttosto che al peggio, che del resto non era così facile da immaginare.
 

Che, poi, in questa ordinarietà si riuscisse a vivere e anche a gioire, ad assaporare scampoli di serenità e felicità, è pacifico. Se la normalità è quella bisogna pure prenderle le misure e acconciarsi. Gli standard essendo bassi, si godeva di quel di più che a volte si presentava – e che tale era, un di più, solo in relazione a quegli standard; preso a sé difficilmente lo si sarebbe potuto definire in tal modo.
 

Il Medioevo fu dunque lo stadio della barbarie? “Era uno stadio differente dal nostro; e se fosse migliore o peggiore non è qui la sede per discuterne”, dice Norbert Elias troncando la discussione sul nascere ne “La civiltà delle buone maniere”, un formidabile, innovativo saggio del già lontano 1936 che si snoda alla ricerca del processo di civilizzazione. Un processo, fatto di comportamenti e sensibilità, di regole e prescrizioni, che si svela soprattutto, e prima di tutto, a tavola. È nel corso del XVI secolo, e dunque svoltato appena il Medioevo, spiega Elias, che il concetto di “courtoisie” viene lentamente abbandonato a favore del sempre più frequente, e impegnativo, concetto di “civilité”. Non che nel Medioevo non ci fossero regole e prescrizioni genericamente intese di civiltà. Il Medioevo, anzi, “ci ha lasciato numerosissime testimonianze di quello che, di volta in volta, veniva considerato un comportamento adeguato alla società” e “anche allora le prescrizioni relative allo stare a tavola ebbero un ruolo particolare”.
 

Ma ci sono due cesure tra il Medioevo e ciò che seguirà, che distinguono con nettezza un prima da un dopo. Una cesura è perfettamente databile, per Elias: il 1530, quando appare un piccolo saggio di Erasmo da Rotterdam, “De civilitate morum puerilium”. Saggio di enorme successo con le sue 130 edizioni accertate entro la fine del XVIII secolo, preso a modello in lungo  e in largo, si rivolge espressamente, e in ciò sta la novità, a formare i giovani nell’“externum corporis decorum”, ovvero nel decoro fisico esteriore. “L’atteggiamento del corpo, i gesti, l’abbigliamento, l’espressione del viso, il comportamento ‘esteriore’ di cui parla il saggio”, scrive infatti Elias, “sono espressione di ciò che sta all’interno dell’uomo nella sua totalità”. Ed ecco allora la cura minuziosa con cui vengono impartite istruzioni come “Non essere il primo ad avventarsi sul vassoio appena portato” o “Non immergere nuovamente nel sugo il pezzo di pane già addentato”; per non dire di altre come “dal naso non deve scendere il moccio” o “sputa voltandoti di lato, per non spruzzare alcuno” che parrebbero fatte apposta per scandalizzare, annota Elias, “gli uomini civili di un’epoca successiva”. Ma che pure, se vengono declinate con tanta ostinazione evidentemente implicavano agli occhi di Erasmo una necessità alla quale non pensava di potersi sottrarre. Società per questi aspetti anch’essa in via di transizione, dunque, per potersi allontanare dal Medioevo dei vassoi comuni in cui i cibi, a partire dalla carne, vengono presi direttamente con le mani, il Rinascimento necessitava di uno strumento che quando apparve suscitò una disapprovazione generalizzata, tanto sembrava stravagante e ricercato. Tant’è che il suo uso richiese secoli per generalizzarsi: la forchetta. Cosicché è facile capire che non era la scarsità delle stoviglie a imprimere il suo sigillo sul tempo, ma il fatto che delle stoviglie non si avvertisse il bisogno.
 

Educazione, a partire da quella di bambini e fanciulli, e forchetta, dunque. Eccoli i pilastri della civiltà delle buone maniere e segnatamente dello stare a tavola che s’imporrà solo a partire dalla fine del Medioevo. Tutt’altro che una pura faccenda di etichetta. Gli ambienti comuni, specialmente osterie e locande, annotano viaggiatori del tempo, “sono surriscaldati, tutti sudano, esalano vapori e si asciugano il sudore” con le stesse mani che poi immergono nei piatti comuni alla ricerca, sfruculiando nell’unto, del pezzo di carne migliore. È una questione di igiene, concetto largamente sconosciuto nel Medioevo. Lavarsi le mani, pulirsele col tovagliolo, usare la forchetta. L’approssimazione, a essere benevoli, del Medioevo attorno a certi comportamenti si misura ancor prima che sul piano estetico su quello delle malattie infettivo-contagiose, delle infezioni gastro-intestinali, delle diarree infettive: tutto un rosario di micidiali infettività che spedivano direttamente all’altro mondo. Il Medioevo, ecco, ne sapeva molto di tutto ciò. Troppo. Un troppo che non gli può essere abbonato.

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