responsabilità anagrafiche
Noi quarantenni diventati responsabili del grande compromesso generazionale
Fenomenologia di una fascia d'età troppo spesso sottaciuta, per la quale il pensiero esistenziale è un lusso ed è finita per diventare un'eccezionale incassatrice di colpi sempre nuovi
Si dovrebbe parlare di noi. Quelli che non interessano a nessuno. Abbiamo visto due secoli, l’uno contro l’altro disarmato ma con parecchia crisi economica e noi lì in mezzo a cercare di studiare, trovare lavori, amori e affitti stabili.
Ci siamo rassegnati a farci chiamare come più garba ai più giovani, Millennial, X, non s’è capito bene dove dobbiamo metterci e se stiamo dando fastidio. Più facili gli estremi, li trovi subito sulla cartina geografica sociale: da una parte i boomer, gli ottusi imbecilli, gli orrendi privilegiati, dinosauri inquinatori padri nostri e certa origine di tutti i mali del mondo. Dall’altra i venti-quasi-trentenni smarginati, tutti i guai sono i loro, infelici, senza amore, woke, senza figli perché Milano costa, in burn out e turn over per vedere se al prossimo lavoro l’ambiente è migliore, cosa-ci-avete-fatto-stronzi!
Lì in mezzo, in educato silenzio e con una rassegnazione nuova di zecca, eccoci. C’è una force tranquille, anzi una fragilité tranquille di inizio quarantenni con una caratteristica riconoscibile e nessun attributo evidente: ci svenano di tasse, tasse a perdita d’occhio, tasse che ci hanno ridotti così alle vacche magre che non c’è tempo di fare nessuna rivoluzione, siamo troppo preoccupati per il mutuo. Pensiamo sempre al mutuo. E nel frattempo pure al piano pensione, perché saremo i primi che non l’avranno, pur pagandola profumatamente.
Il New York Times ci aveva pittati qualche tempo fa: "Sebbene possa sorprendere le persone che continuano a usare il termine “millennials” come scorciatoia sintattica per “giovani fastidiosi”, loro – quarantenni si trovano sul crinale della vita noto come mezza età, tradizionalmente associata a ginocchia sempre meno affidabili e angoscia per il fatto che questo sia tutto quel che rimane".
Ma figurati se ci preoccupa un poco di angoscia esistenziale, ce la pigliamo volentieri, abbiamo visto di peggio, ci hanno addestrati alla noia analogica, quella senza internet e senza i genitori preoccupati di fare i bravi genitori e intrattenerci con attività diversificate per espandere la mente. Il carattere si formò nei pomeriggi vuoti dell’adolescenza estiva, tre mesi a casa senza fare niente e dovevi pure stare contento, eri in vacanza. Il pensiero esistenziale per noi è lusso. La giovinezza pareva promettere bene, all’inizio del 2000. Arrivò l’internet democratica ma la rivoluzione economica lo stesso non si fece, ci tirarono invece lo scherzo della Lehman Brothers mentre – a un po’ meno di trent’anni, più ingenui dei pesci di porto – cercavamo di dare tutto gas ai primi lavori. La precarietà di allora aveva i denti. Lo stage non era mai pagato, per la pratica professionale pagavi tu loro, perché pure le spese di viaggio dovevi rimetterci. I giovani non erano ancora pochi di numero, perciò se ne faceva macelleria. Oggi sono molto ricercati ovunque, che belli i giovani. Noi decademmo proprio a “poveri fessi”. Pure la disoccupazione ha cambiato faccia: i posti vacanti sono dappertutto, se vai al nord si cambia lavoro come camicia, lascio questo ma dopodomani ne ritrovo un altro, con più ore da remoto. Volendo forzare un paragone, è uno state d’autunno come sugli alberi le foglie, intorno al 2010 si stava sulle assi senza chiodi sopra il cornicione. Dopo il 2008 il primo-lavoro-non-dei-sogni divenne il primo miserrimo lavoro pagato quasi a caramelle – c’è la crisi, dottoressa dovrebbe saperlo.
O questo o niente, ci dissero. E noi prendemmo questo.
Ma non eravamo ancora così infelici da non farci tentare dalla speranza. Pensammo bene di non lamentarci. Never explain never complain. Lamentarsi è venuto di moda solo ultimamente, prima parevi un pigro, o una piattola, o comunque non garbavi.
Chissà chi ci credevamo di essere. Ottimisti, studiosi, pronti a essere poveri. Non ci siamo persi, abbiamo faticato il doppio pur sapendo che avremmo ricevuto in cambio meno della metà. Non siamo noi la generazione più depressa della storia perché non abbiamo avuto i cinque minuti di tempo libero e tregua necessari per deprimersi.
E così siamo diventati eccezionali incassatori. E quindi eccezionali ideatori di soluzioni impossibili a problemi sempre nuovi. Non aspiriamo al “va tutto benissimo”, ma al “non succede niente”. E così ci siamo salvati.
Adesso ci riconoscete, non tanto perché le generazioni nuove non sanno bene come chiamarci e come trattarci. Non sanno nemmeno se siamo ancora giovani o no. Ci riconoscete. Siamo quelli che fanno da filtro tra sessantenni con la rogna che comandano per anzianità e ventenni che si sentono maledetti e oppressi dal mondo. La mutazione sociale ci ha fatti diventare responsabili del grande compromesso generazionale, quelli del “cerca di capirlo” in azienda, a mediare, a spiegare come si fa a turno ai primi e ai secondi con allenata cordialità. Ci ascoltano tutti perché conosciamo il mondo veloce dei giovani e ci orientiamo anche nel mondo lento dei vecchi. Ogni tanto mi chiedo che avremo in cambio, se tutta questa mitezza non sia alla fine solo un difetto, o se bisogna continuare finché di tutta questa pazienza non si senta l’effetto cumulativo.
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