Giorgia Meloni con Viktor Orban - foto via Getty Images

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Patrioti in conflitto con i padri: il caso dei leader della destra europea

Nicola Mirenzi

Non solo Giorgia Meloni, ma anche Marine Le Pen e Viktor Orbán. Riflessi di un rapporto travagliato tra i genitori e figli dei grandi leader dei partiti di destra in Europa

La patria è la terra dei padri e patrioti sono coloro che la difendono, custodendo il lascito di chi li ha preceduti. Ma, per una circostanza tutta da interrogare, i patrioti che stanno dando l’assalto all’Europa – Marine Le Pen, Giorgia Meloni, Viktor Orbán – hanno con i propri padri rapporti complicati, conflittuali, di rifiuto, tragici, come un tempo fu per i figli rivoluzionari degli anni Settanta che in famiglia iniziarono la propria sommossa. Tra Jean-Marie Le Pen e la figlia Marine – uno fondatore del Front National, l’altra eletta capo del partito dopo le sue dimissioni – tutto cominciò con il sangue. La notizia la diede un martedì di fine settembre 2014 il settimanale L’Express. Nella casa della famiglia Le Pen, a Saint-Cloud, il dobermann di Jean-Marie aveva sbranato la gattina bengalese della figlia. Lei abbandona immediatamente la casa paterna, dove viveva. Lui, sempre più insofferente di non comandare più, accentua gli attentati all’immagine della figlia, ricordando a tutti il padre che ha. Fino a dire che “le camere a gas sono un dettaglio della storia”. Sommersa dallo scandalo, Marine decise che per non finire sbranata come la sua gattina avrebbe dovuto cacciare il padre dal partito e chiedere all’assemblea degli iscritti di togliergli la carica di presidente d’onore. Così fu. “È doloroso quello che è successo con mio padre”, disse. “Ma credo che in casi del genere la figlia debba cancellarsi davanti alla responsabile politica”. Dopo la decisione, il commento di Jean-Marie fu di una precisione psicologica e politica smagliante: “Non era Freud che consigliava di uccidere il padre?”.
 

Il dobermann di Jean-Marie che sbrana la gattina di Marine. Poi l’espulsione: “Non era Freud che consigliava di uccidere il padre?”

 
È grazie a quest’assassinio simbolico che domenica, al primo turno delle elezioni legislative, il Rassemblement National (questo, dal 2018, il nome assunto dal vecchio Front National) potrebbe fare un altro passo verso il governo, ruolo che alla destra radicale francese è sempre stato precluso. Sarebbe il compimento di una traversata iniziata per liberarsi dalle scorie del partito fondato nel 1972 da Jean-Marie Le Pen. Un processo definito dai politologi “dédiabolisation” (de-demonizzazione) e avviato da Marine nel 2011, quando è stata eletta presidente del partito. Con il particolare che il diavolo di cui sbarazzarsi era suo padre: interprete talentuoso della storia della Francia reazionaria, inventore di un partito che ha scorrazzato nella politica francese seminando il panico tra i democratici.

 

Qualsiasi cosa si pensi di lui, è innegabile la forza del suo personaggio. Orfano a quattordici anni, Jean-Marie era figlio di un pescatore bretone. Il padre, una notte del 1942, afferrò nella rete da pesca una mina. La tirò su insieme alle sogliole, l’esplosione lo uccise. Il piccolo Jean-Marie venne adottato dallo stato francese. Cercò di arruolarsi nelle forze armate che combattevano l’invasore nazista due anni più tardi, ma venne respinto per la giovane età. Partirà volontario per l’Indocina, alla fine della Seconda guerra mondiale, dove la Francia stava combattendo per arrestare l’impossibile: la decolonizzazione, processo che – a differenza del Generale De Gaulle – non accetterà mai. Scrisse che “la Francia è governata da pederasti come Sartre, Camus, Mauriac”. Tutta gente che, a suo parere, voleva indebolire la nazione francese con la fiacchezza e la resa.

 

Durante la terribile guerra d’Algeria rivendicò di aver usato la tortura contro i prigionieri, “per necessità”. L’ex moglie, Pierrette Lalanne, raccontò che quasi ogni sera finiva per fare a botte con qualcuno. Durante una rissa, prese il pugno che gli fece uscire l’occhio dall’orbita. Andò per anni in giro con una benda, come un pirata, alimentando il mito della sua pericolosità. Nella sua lunga carriera politica, iniziata a 27 anni con l’elezione all’Assemblea nazionale, ha contestato “la verità rivelata” dei lager, assolto i collaborazionisti dei nazisti, denunciato “l’internazionale ebraica” e “l’ideologia mondialista”, professato la propria fede nell’“ineguaglianza delle razze” e, poi, è stato talmente anti-americano da trasformarsi in filo arabo al fianco di Saddam Hussein e, addirittura, simpatizzante dell’islam.
  

È uccidendo questo “diavolo” che Marine Le Pen ha reso possibile la crescita dell’angioletto che oggi presiede il suo partito, Jordan Bardella, in corsa al doppio turno delle elezioni legislative (il secondo si terrà il 7 luglio) per diventare il primo capo di governo della destra radicale, mentre lei rimane “candidata naturale” alla presidenza della République. Ventotto anni, carriera politica supersonica, volto limpido e rassicurante: Bardella è nato da una coppia di genitori separati poco dopo la sua nascita. La madre, figlia di emigrati piemontesi, vive a Saint-Denis, sobborgo complicato appena fuori Parigi. Il padre, più facoltoso, gestisce distributori di bevande e caramelle. Anche lui per metà italiano. Così il giovane Bardella cresce a cavallo tra due mondi: quattro giorni a settimana nel postaccio in cui risiede la mamma, gli altri tre insieme al padre, nella casa di Montmorency, una ricca cittadina della Val-d’Oise.

 

Il dettaglio è che quando inizia la sua ascesa politica costruisce il proprio profilo intorno al quartiere difficile in cui ha vissuto con la madre, dove si mescola la criminalità, la droga, l’immigrazione islamica, la miseria, la violenza, la rabbia, l’angoscia del nulla. Eccolo raccontare la “paura di morire per una sigaretta”, i “dieci euro sul tavolo a fine mese”, dicendo: “Faccio politica per tutto quello che ho vissuto lì, affinché non diventi prerogativa di tutta la Francia”. In un’inchiesta del Monde si scopre, invece, che grazie ai soldi paterni ha studiato nelle scuole private, è andato in viaggio a Miami a diciotto anni, ha ricevuto in regalo una smart grigia, l’appartamento quando ha finito di studiare, i bonifici sul conto prima di cominciare a guadagnare. Tutte cose che chi cresce nelle banlieue si sogna. Ma che Bardella omette sistematicamente nel racconto politico che fa di sé stesso. Sbarazzandosi così del padre. Piuttosto singolare per un patriota.
 

Bardella racconta sempre l’infanzia a Saint-Denis, sobborgo complicato fuori Parigi, ma tace sui soldi paterni che nelle banlieue si sognano


Scrive Marcello Veneziani ne La cultura della destra che costitutivo della sensibilità politica della destra è “l’apertura verticale nel segno del Padre”, scritto in lettera maiuscola, perché “da Padre eterno diventa poi Pater familias e Patria”. Mentre “valore della sinistra è la fratellanza, nel segno di una solidarietà orizzontale, orfana ed egualitaria”. Si capisce allora che qualcosa di potente deve essere successo se anche in Italia i discendenti del Movimento sociale di Giorgio Almirante hanno “lasciato la casa del padre” con il congresso di Fiuggi del 1995 e sono giunti a identificarsi nei Fratelli d’Italia. Nella storia personale di Giorgia Meloni, raccontata nella sua biografia Io sono Giorgia, il nome del padre è il nome di un’assenza, il ritratto di un uomo che avrebbe preferito non farla nascere. Racconta Meloni che, quando sua madre rimase incinta di lei, il padre “aveva le valigie pronte per andarsene lontano”, la relazione era finita. Alla mamma dicevano che non avrebbe avuto senso mettere al mondo un’altra bambina in quella situazione. “Quando mia madre fu dimessa dall’ospedale dopo il parto”, racconta, “lui non ci venne neppure a prendere”. Poi, partì per le Canarie con una barca di nome Cavallo Pazzo. “La percezione di una padre che non c’è più, che si dissolve, è forse una ferita più profonda di un padre che muore, perché in quel caso puoi sperare che ti guardi dal cielo, mentre quando se ne va sei costretta a fare i conti col suo fantasma”.
 

Meloni decide che non avrebbe più voluto avere a che fare con lui dopo due episodi. Il primo risale all’ultima estate che lo andò a trovare in Spagna insieme alla sorella Arianna. Lui partì, lasciandole con la compagna, che “non fece esattamente i salti di gioia”. Al ritorno “invece di scusarsi fece un discorso di cui non voglio ripetere le parole, ma diciamo ci fece capire che non eravamo in cima alle sue priorità affettive”. Il secondo episodio è il giorno del suo tredicesimo compleanno. Il padre le manda un telegramma. “Buon compleanno” scrive. “Firmato: Franco”. Non papà: “Franco”. Come un amico. Un conoscente. O forse un passante. È per questo che “quando è morto – scrive con dolore Meloni – la cosa mi ha lasciato indifferente.”.
 

Il padre di Meloni era un uomo di sinistra, “ateo impenitente”. Lei però dice di aver scelto la destra prima di conoscere le sue idee politiche. Ma quanto ha contato la sua storia nel radicarla nella parte che scelse d’istinto? La risposta si può solo ipotizzare. Quel che è certo è che, subito dopo la vittoria delle elezioni politiche del 2022, il quotidiano spagnolo Diaro de Mallorca pubblicò la notizia che il papà era stato arrestato nel 1995 con 1.500 chili di hashish e poi condannato a nove anni di carcere per narcotraffico. Si montò un can can sul fatto, nel tentativo di gettare un po’ di fango anche su di lei, che, all’epoca dell’arresto, aveva reciso da tempo i rapporti con il padre. Il peggio però venne da un’inchiesta di “Report” che, raccogliendo la testimonianza del pentito Nunzio Perrella, accreditava l’ipotesi che il padre di Meloni fosse un uomo del boss Senese e che il giorno in cui lo fermarono al porticciolo di Minorca, con il suo carico di droga, stava lavorando per la camorra. Il can can fu ancora più rumoroso. Il Domani scrisse che nella società del padre c’era anche un certo Raffaele Matano, all’epoca in affari anche con la madre di Meloni e il suo compagno. La presidente del consiglio sapeva di tali rapporti? Questo si domandarono alcuni giornali e televisioni, cioè se le colpe del padre dovessero ricadere sulla figlia. Lei rispose: “Non ne sapevo nulla”. Ma poi domandò anche. “Avete ravvisato degli illeciti in questi fatti di vent’anni fa? Qualcosa per cui valga la pena riaprire vecchie ferite?”. Perché il padre – questo padre assente, questo padre con cui non aveva a che fare da quando aveva tredici anni, questo padre che lei sapeva benissimo “non era una brava persona” – torna nella vita di Meloni come un fardello, una presenza che non smette di rincorrerla, una maledizione.
 

Ma anche con i suoi padri politici i conti sono ancora aperti. Nel suo partito con la fiamma nel simbolo il nome di Giorgio Almirante lo si può pronunciare solo per ricordare che andò ai funerali di Enrico Berlinguer. Come se l’unico modo per rivendicare la sua eredità stia nell’elogio di quel gesto cavalleresco, mentre, per tutto il resto, il Movimento sociale meglio non nominarlo, se non per prendere le distanze. Ma anche con l’altro padre, quello più prossimo, Gianfranco Fini, il rapporto è tutt’altro che pacificato. È stato lui l’uomo che la volle alla guida dei giovani del partito di Alleanza nazionale e poi nel quarto governo Berlusconi come ministra della Gioventù. Eppure Fratelli d’Italia nasce in opposizione proprio a Fini. “Ha tradito la destra”, disse Meloni. E anche di fronte alla notizia che alle ultime elezioni ha votato per lei, la presidente del Consiglio ha escluso un gesto che mettesse fine alle ostilità. Come se il conflitto, per lei, non fosse ancora finito.
 

Almirante lo si può pronunciare solo per ricordare che andò ai funerali di Berlinguer. Ancora oggi il rapporto di Meloni con Fini non è pacificato


A tutt’altra sinistra di quella di papà-Meloni apparteneva, invece, il padre di Viktor Orbán, un ingegnere meccanico che entrò nel Partito socialista dei lavoratori ungheresi nel 1956, l’anno dell’invasione sovietica. Era un uomo violento. In un’intervista di fine anni Ottanta, il figlio racconta che quando il padre lo picchiava, cosa che accadeva di frequente, “urlava che avrei dovuto tenere le mani abbassate” per potergli facilitare il lavoro. Secondo Orbán, l’esperienza delle botte ha fatto crescere in lui il disprezzo di sé e una sorta di “inclinazione un po’ schizofrenica”. “Riuscivo a guardarmi dall’esterno. Come se non fossi io”. Piccoli cenni di rivolta erano scattati più tardi di fronte a regole ottuse. “Mi diceva che non potevo uscire dopo le 9. Io gli dicevo che invece sarei uscito. Lui insisteva. Io pure. Finché mi avvicinavo alla porta e lui iniziava a picchiarmi come un pazzo”. La vera sollevazione però avviene quando crolla il Muro di Berlino e in Ungheria si celebra, dopo 31 anni, il funerale di Imre Nagy, il primo ministro comunista espulso dal Partito e diventato la bandiera della rivolta contro il dominio sovietico. Orbán prende la parola davanti a migliaia di persone e dice che il partito del padre ha strappato “il futuro alla gioventù”, ha chiuso in una bara non solo “i giovani assassinati, ma anche la gioventù dei prossimi venti o forse più anni”. Dunque era ora che si prendessero ciò che gli spettava. Una rivolta il cui esito – l’Ungheria di oggi – non rispecchia in pieno le speranze liberali del tempo. Ma quel che conta, in questo caso, è osservare il movimento dei figli contro i padri, motore di ogni reale rivolta. Come nel caso di Marine Le Pen e Giorgia Meloni: è la destra europea, oggi, la forza della ribellione contro l’Europa così come è stata disegnata dai Padri Fondatori. Ed è legittimo domandarsi se i patrioti contestano il padre per ristabilire un’autorità ancora più forte della sua, oppure perché colgono un sentimento diffuso di insofferenza alle regole di un gioco a cui ci si è stancati di giocare. Ma a questa domanda solo uno bravo potrebbe rispondere.
 

Con il crollo del Muro, Orbán prende la parola e dice che il partito del padre, quello socialista ungherese, ha strappato “il futuro alla gioventù”

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