l'analisi
Così il volontariato è diventato liquido
In sei anni l’Italia ha perso per strada 900 mila volontari. Ma la crisi riguarda soprattutto le organizzazioni più strutturate, quelle piccole tengono, quelle micro aumentano. I giovani vogliono ancora impegnarsi, ma a modo loro
L’ultima botta l’ha data l’Istat poco tempo fa, con l’aggiornamento del Censimento permanente delle Istituzioni non profit. Che ha confermato il trend anticipato l’estate scorsa: in sei anni, l’Italia ha perso per strada 900 mila volontari. Erano 5 milioni 520 mila nel 2015, sono scesi a 4 milioni e 616 mila a fine 2021. Il 16 per cento in meno, abbondante. Un’emorragia. E se qualche esperto invita a prendere il dato con le molle, perché quelle “di prima” erano stime eccessive e tante associazioni hanno iniziato a contarsi sul serio solo dopo la riforma e l’introduzione del Runts (il Registro unico per gli enti del terzo settore), nessuno nega che la tendenza ci sia, sia marcata e sia in atto da tempo. Da prima del Covid, che pure la sua zavorra l’ha aggiunta.
Il picco era arrivato nel 2016, quando a impegnarsi gratis nel non profit era il 10,7 per cento della popolazione. Poi si è invertita la marcia. “Mentre continua a crescere il numero di enti e di dipendenti (arrivati rispettivamente a quota 363 mila e 870 mila), i volontari diminuiscono”, ricordava tempo fa su Avvenire Vanessa Pallucchi, portavoce del Forum del Terzo settore. Non sarà crisi nera, insomma, ma un segnale di stanchezza sì. Da affiancare a un altro: il calo riguarda soprattutto i “grandi”, le organizzazioni più strutturate (l’80,5 per cento di quelle con almeno 30 volontari, misura l’Istituto di ricerca). Quelle piccole tengono, quelle micro aumentano. Segno che molte persone continuano a fare del bene – o vorrebbero farlo – ma in maniera più spontanea, meno propensa a inquadrarsi in turni, continuità, impegni fissi. Insomma, in una forma che da un po’ di tempo è diventata popolare tra gli addetti ai lavori: il volontariato liquido.
Tra chi si occupa di questo mondo, è un tema ricorrente: riempie incontri, convegni, ricerche. Una delle più citate riguarda la Toscana, terra di volontariato da sempre. L’ha realizzata Andrea Salvini, sociologo dell’Università di Pisa, si intitola La differenza dei potenziali e analizza a fondo la propensione dei toscani al volontariato. A fronte del calo di chi lo fa in Ets e affini (da 344 mila a 258 mila volontari tra il 2019 e il 2021), c’è non solo una quota di 145 mila toscani che si dà da fare fuori da realtà organizzate, ma una fetta cospicua di popolazione (510 mila persone) che si dice disponibile a dare una mano gratis, a patto, però, di avere flessibilità sui tempi (30,8 per cento), innovazione nelle associazioni (19,3 per cento), valorizzazione delle proprie competenze (19,1 per cento). “Il volontariato in organizzazione” oggi è “solo una modalità tra le molte possibili, di realizzazione identitaria e personale”, si leggeva nella presentazione della ricerca: “Le statistiche cominciano a raccontare dell’esistenza di un fenomeno diverso, più confacente alle sensibilità attuali: quello chiamato ‘personale’ o ‘fai da te’, e comunque non svolto in organizzazioni”. Oppure, se preferite, “individuale, episodico, temporaneo, discontinuo”, in cui “prevale l’iniziativa personale”, come scrive il sociologo Paolo Tomasin in Giovani e comunità locali, rivista di Orizzontegiovani (osservatorio con base in Trentino).
Ce n’è abbastanza per chiedersi “Volontario, dove sei?”, come ha fatto tempo fa Vita, il mensile (con annesso ecosistema di sito, newsletter e convegni) dedicato al Terzo settore. In copertina qualche tempo fa aveva quella domanda-appello, all’interno una lunga inchiesta firmata da Riccardo Bonacina, il fondatore della rivista. Che oggi, alla luce dei nuovi dati Istat, rilegge assieme al Foglio il fenomeno e, soprattutto, le cause. “Una, banale, è la demografia: su quel fronte è in corso una glaciazione, altro che inverno. Le nuove generazioni si assottigliano”. Mentre, sul lato opposto, si allungano i tempi della pensione, e quindi cala il potenziale di anziani in buona salute e con le giornate libere, da sempre zoccolo duro del volontariato italiano. Ma è solo il primo fattore, il più evidente. Ce ne sono altri, più sottili da misurare, ma altrettanto pesanti. La crescita stessa del settore, per esempio, ha finito per alzare l’asticella dell’impegno: “Negli ultimi anni il volontariato ha avuto bisogno di professionalizzarsi”, osserva Bonacina: “Chiede meno spontaneità e più formazione”. È comprensibile, perché la realtà in cui si opera è sempre più complessa: ma è un fattore che pesa. “Spendere tempo per una causa è anzitutto un gesto di libertà dell’individuo, che si mette insieme ad altri per aiutare qualcuno o per risolvere problemi. Se per farlo devo imbucarmi in ore di corsi, formazione e incombenze burocratiche, ci penso due volte”.
Eccola lì, un’altra parola chiave: burocrazia. “La riforma del Terzo settore era necessaria, ma ha finito anche per appesantirci un po’”, dice al Foglio Luigi Paccosi, fiorentino, presidente del Cesvot toscano e vicepresidente nazionale di Csvnet (la rete nazionale di Centri servizi per il volontariato): “Ci sono più controlli e più passaggi legali. Una burocratizzazione che è andata a discapito soprattutto delle piccole associazioni. Tanti dicono: ma chi me lo fa fare?” L’idea di un volontariato più semplice, “senza troppi legami né orpelli da sostenere”, nasce anche da qui.
E porta dritti ad altri fattori, che Bonacina riassume così: “Individualismo e disintermediazione. È cambiata la propensione all’uso del tempo: si sta meno insieme e si fanno più cose per conto proprio. E non c’è più l’adesione massiccia di una volta a identità precise, a simboli e divise”. Le grandi organizzazioni del Novecento, quasi sempre cattoliche o di sinistra, con cui ti ritrovavi a impegnarti in una mensa per i poveri o in una raccolta fondi per i bambini del Terzo mondo in maniera naturale, perché lo facevano i genitori o gli amici, attirano molto meno. “Mentre ci sono sempre più mobilitazioni di scopo, non identitarie”.
È evidente soprattutto per i giovani, che anche in questo settore sono la quota più difficile da inquadrare. Nel mondo del volontariato tradizionale, scarseggiano. La fascia tra i 24 e i 34 anni è quella che subisce il calo maggiore, anche nelle rilevazioni più recenti. Ma sull’altro fronte, quello del “fai da te”, te li ritrovi di colpo in prima fila, a frotte. Soprattutto se si tratta di temi che sentono più loro, come l’ambiente (le folle dei Fridays For Future). O di dare una mano per un’emergenza che li colpisce, come è capitato con gli “angeli del fango” planati in Romagna dopo l’alluvione, felici di darsi da fare alla faccia dei tanti stereotipi sui “giovani d’oggi”. Secondo Openpolis, non solo nel 2022 si sono registrati segni di ripresa cospicui tra i più giovani, ma i 14-24enni sono in assoluto “la fascia più impegnata in associazioni per i diritti, l’ecologia e la pace”.
Più che crisi, quindi, è un cambiamento. I giovani vogliono impegnarsi, ma a modo loro. Se glielo chiedi, te lo dicono pure e ti spiegano il perché. Valentina Foschi, 30 anni, neo responsabile italiana di iRaiser (un software per il fundraising digitale), dirige The Good Social, progetto nato assieme a tre coetanei “per aprire le porte del settore alle nuove generazioni e portare un po’ di cultura del Terzo Settore sui social”. Tra i suoi ultimi lavori c’è un sondaggio, fatto con Italia Non profit e pubblicato a settembre 2023, su Millennials e Gen-Z: l’esperienza delle nuove generazioni nel Terzo Settore. Cosa ne esce? “Sta cambiando molto la narrazione del perché si sceglie di fare volontariato”, dice Foschi al Foglio: “Siamo stati abituati a una cultura del ‘lo faccio per aiutare chi ha bisogno’ come aspetto primario. Invece le nuove generazioni ci raccontano motivazioni che mettono al centro il proprio io”. Vogliono anzitutto “fare un’esperienza che mi aiuti a crescere come individuo” (22,3 per cento), a “sentirmi parte della collettività” (16 per cento), a “sviluppare nuove competenze” (12,3 per cento). A migliorare sé stessi, insomma.
“Sicuramente siamo più esigenti dei nostri predecessori, a volte anche troppo”, dice la Foschi: “Ma nella mia generazione c’è una spinta interiore diversa da quello dei boomers. Soprattutto su certi temi, come i diritti umani o la questione ambientale, non c’è bisogno di troppe parole per coinvolgerci. Non devi spiegarmi perché è giusto aiutare i bambini in Africa o togliere la plastica dal mare: ma che esperienza mi proponi se mi offri di farlo con te, nella tua associazione?”. La conclusione è secca: “Le organizzazioni devono mettersi l’animo in pace: è la società che cambia e bisogna cambiare. A loro tocca capire come”.
Bella domanda. A cui è quasi inevitabile rispondere per tentativi. C’è chi prova con i corsi di people raising (“raccolta volontari”, come si usa per le raccolte fondi), disciplina abbastanza diffusa tra i formatori del settore. Chi cerca collaborazioni con il mondo profit (il volontariato d’azienda è in crescita: secondo Unioncamere si fa già in più di 4 mila imprese italiane e altre 21 mila sono pronte a promuoverlo tra i dipendenti). Chi organizza campagne di comunicazione, anche a livello locale. “Con il Cesvot, quattro anni fa, ne abbiamo fatta una: ‘Passa all’azione, diventa volontario’”, racconta Paccosi: “L’idea ci era venuta anche per via della ricerca di Salvini e di quelle frotte di persone che stanno lì, sulla soglia”. Il risultato? “Ne abbiamo intercettate un migliaio. Hanno dato la disponibilità, sono state smistate su varie associazioni, a seconda dei loro interessi. Ma di quei mille, dopo un po’, ne sono rimasti duecento”. Perché? “Lo abbiamo chiesto a chi se n’è andato. E sono venute fuori risposte che ci interrogano: ‘Certe associazioni sono rigide, non accoglienti, fanno le cose sempre allo stesso modo…’”. Paccosi dice che ne è nata “una riflessione comune. Ma uno deve perderci tempo su queste cose: cercare strade nuove, cambiare sistemi”.
Qualcuno ha rivoluzionato i turni, per aprire slot flessibili o proporre forme di ingaggio più sporadiche, su misura per i “volontari liquidi”. “La Croce Rossa, per dire. È un’organizzazione centenaria: avrebbe tutti i motivi per dire ‘abbiamo sempre fatto così e funziona’”, racconta Bonacina: “Eppure durante il Covid non ha avuto paura di fare una call per volontari a tempo, chiedendo un impegno di qualche mese. Ha funzionato”. Come per Caritas, che a novembre ha lanciato un appello online destinato ai 18-35enni per aiutare le aperture straordinarie del Refettorio ambrosiano: impegno richiesto solo per due mesi, sold-out in pochi giorni. Altri hanno aperto la “sezione giovani”. Altri ancora i giovani li hanno messi nel direttivo, per statuto. Ma la strada è lunga. “Ci sono fondatori di opere storiche che non si tolgono mai di mezzo, anche quando la governance chiede aria fresca”, dice ancora Bonacina: “Ma se ti muovi, devi farlo sul serio. Se metti degli under 30 nei Cda devi dargli responsabilità reali, non poltrone simboliche”.
In fondo, quello che vogliono i giovani dalle associazioni, dice la Foschi, “è una comunione d’intenti: vengo a fare, ma mi devi spiegare esattamente che cosa, con quali obiettivi e con quale progetto”. Cosa che non sempre succede, anzi. “Troppo spesso gli Ets finiscono per concentrarsi sui propri bisogni o desideri (nella fattispecie quelli dei componenti), divenendo autoreferenziali, distaccati dal tessuto in cui si opera”, osserva ancora Tomasin. Mentre bisognerebbe “rimettere al centro della propria attività la comunità con i suoi bisogni e desideri e non l’organizzazione”.
Ecco, “rimettere al centro la propria attività”. Forse, più che una questione di riorganizzazione, di “come fare”, la rivoluzione dei volontari può essere un’occasione per ripensare “perché” lo si fa. Una domanda di significato da riconquistare nell’esperienza. Perché mi può aiutare fare il volontario? Che cosa mi dà, cosa posso trovarci? In quel numero di Vita c’era un intervento di Johnny Dotti, imprenditore sociale e formatore, che dopo aver lanciato una provocazione (“ma il volontariato organizzato è ancora in grado di generare vocazioni di altruismo? Di proporre esperienze che facciano capire che l’altro mi riguarda?”), aggiungeva una riflessione: “Il volontariato non è una cosa che fai nel tempo libero, ma è un pezzo del tuo cuore che fa i conti con la vita, tua e degli altri. Oggi c’è un problema di senso, non di funzione. E i ragazzi se siamo portatori di senso lo sentono subito, se siamo portatori di funzione scelgono altro”.
Alla fine, forse è questa la strada più semplice per “trasformare la crisi in opportunità”, come dicono i manager, e vivere nell’era liquida senza affogarci dentro: andare a fondo della propria esperienza, recuperare il punto di partenza. “Ogni realtà del non profit nasce dalla stessa scintilla: ci si mette insieme per rispondere a un bisogno”, dice Bonacina: “Vale per tutti, grandi e piccoli: il volontariato è qualcosa che ti giochi sempre assieme agli altri. A chi mi dice che non sa come andare avanti, in genere rispondo: ‘Ragazzi, tornate all’origine. Che è sempre grandiosa, bella. È qualcosa da non dare per scontato, da riprendere e raccontare sempre. Perché è la molla più vera”.
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