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Nel “Gattopardo” e non solo

Bendicò, il cirneco e altri cani: un'apoteosi letteraria

Francesco Palmieri

La Sicilia fa da levatrice a questo immaginario, ed ecco l’umanizzazione della più antica razza canina italiana, i paragoni di Bufalino, la metafora del mastino Bargello di Sciascia

Il più curioso paragone lo azzardò Gesualdo Bufalino nella penultima pagina dell’agrodolce zibaldone Il malpensante: “Tutto sommato le professioni più nobili, medico, prete, filosofo, poliziotto, non fanno che proporsi gli stessi scopi d’un cane cernieco in un bosco: stanare la selvaggina”. Non molti, al di qua dello Stretto, avranno capito di primo acchito a chi si riferisse lo scrittore, anche perché la grafia di quel nome, trasposta dal dialetto alla pagina, è stata spesso mutevole. Il cirneco dell’Etna è la più antica razza canina italiana e se lo hai visto una volta non lo confondi più: corpo slanciato simile al levriero, coda robusta e mobile come un frustino, orecchie dritte e aguzze sensibili ai fruscii, muso triangolare dal finissimo olfatto e manto fulvo. Oppure, per dirla più poeticamente con le parole di Curzio Malaparte che un esemplare di cirneco possedette, e che gli possedette il cuore, il suo pelo è “color della luna, roseo e dorato”.

  

Non la consueta luna argentea o bianca, piuttosto quella dell’Odissea, quella affacciata sul selvaggio mare di Lipari o su certe notti estive filtrate dai lampeggi del vulcano, o la luna accomodata nel cielo reduce dell’arsura diurna sul “paesaggio arcaico e inesorabile”, dominato dal sole assolutista che addormenta e brucia, come lo descrive Salvatore Silvano Nigro richiamando le pagine in cui lo raccontava Giuseppe Tomasi di Lampedusa tramite il vasto e rassegnato umore di don Fabrizio principe di Salina. Il Gattopardo, ossia il “Principe fulvo”. Colore, appunto, con cui il cirneco si presenta in tutte le sfumature trascorrenti dal sabbia al cervino, e per cui si distingue da lontano quando si fa compagno al cacciatore di conigli selvatici, mentre guizza veloce come un’intuizione tra pendii e rocce laviche, mai levando il naso da terra a differenza dei pointer e dei bracchi, che indagano gli odori nel vento. Loro sono cani che arrivano dal continente europeo, il cirneco ha invece praticato rovescio percorso, risalendo in Sicilia dall’Africa e più precisamente – qui si svela il mistero del nome storpiato – dalla Cirenaica grazie ai commerci plurimi e infaticabili dei fenici.

 
Risale a quattromila anni prima di Cristo la sua arcaica presenza, e non è una illazione dilatata: lo attesta la numismatica, lo confermano i ruderi archeologici, lo mostra agli scettici qualunque immagine del dio egiziano Anubi dalla testa di cane, che presiede al trapasso verso il mondo di là. Se la smemoratezza è anche una specie di indulgenza, la Storia che tutto tende a travolgere o inghiottire si dimostrò riguardosa verso questa creatura primitiva, dimenticandola in Sicilia quasi immutata ma con una scadenza genetica fissata alla metà iniziale del secolo scorso, quando il sangue del cane faraonico si stava disseccando a causa degli inevitabili incroci e della rarefazione di soggetti puri. C’è tuttavia un filo tenace che stringe alla storia dell’isola i suoi Gattopardi, anche quando sembrano soppiantati da “iene e sciacalletti”, anche dopo che la pelle consunta del cane Bendicò, l’alano compagno inseparabile del principe di Salina, malinconica chiave del capolavoro di Tomasi, venne gettata da una finestra per l’immondezzaio, rampando nell’aria in un estremo istante di tristezza senza più mitologia. Questo tenace filo tra la vita e la morte, tra il tutto cambia e il tutto resta uguale, trasse dagli anni Trenta ai Cinquanta del Novecento un’altra aristocratica, donna Agata Paternò Castello dei duchi di Carcaci, a votare la sua non lunga esistenza alla salvezza del cirneco, al suo recupero riproduttivo, alla codificazione di una morfologia e di un carattere, alla fondazione di una Società amatori della razza e infine al suo ufficiale riconoscimento da parte dell’Enci, l’Ente nazionale della cinofilia italiana. Con la stessa pervicacia di donna Agata, don Fabrizio se ne saliva nella notte sull’osservatorio astronomico di casa a decifrare le stelle, acchiappare comete per la coda e omaggiare con il nome di “un suo bracco indimenticato”, predecessore di Bendicò, un pianetino che aveva scoperto e al quale diede l’appellativo di Svelto. Cose da Gattopardi, perché di primordiali cirnechi e astri minori così remoti il magnifico progresso potrebbe forse fare a meno. E invece loro, i Gattopardi, non vi rinunciarono. 

 
I cani continuavano a vederli anche quando non c’erano più, ne incontravano l’anima di notte come accadeva ai cugini di Tomasi, i fratelli Piccolo di Calanovella nella villa di Capo d’Orlando: l’elegante Casimiro percepiva netta al buio la sagoma di un suo cane morto nove anni prima e praticava assieme ai germani, Lucio il poeta e Agata la botanica, la pietas minore ma non infima verso le bestiole che avevano arrecato compagnia alla routine domestica, istituendo per loro un cimiterino tuttora visitabile affinché non finissero dispersi nel pattume come avvenne alle conciate spoglie di Bendicò. E con Alì, Pascià, Mamoud e tante altre creature riposano sotto la rispettiva lapide Puck, il cagnolino prediletto di Lucio, e Crab, il grosso spaniel del cugino Tomasi. Cose da Gattopardi quando ancora non erano di moda, né morbosi, gli affetti verso le anime minute a quattro zampe né anelavano a sdolcinata stravaganza, ma alla delicata intimità con la natura di cui s’intrisero sovente anche le prove letterarie.
 

È una delicatezza che diventò rigo, capoverso, pagina per mano di un assiduo corrispondente epistolare di Lucio Piccolo, lo scrittore palermitano Antonio Pizzuto, il quale dedicò tutto un capitolo del suo primo romanzo, Signorina Rosina, alla morte della gatta Camilla avvenuta negli anni in cui sia lui sia Tomasi si apprestavano a essere i “rifiutati” dal mondicino editoriale italiano (l’opera di Pizzuto uscirà nel ‘57, Il Gattopardo postumo nel ‘58). Si ritrova tra gli appunti per il libro la dettagliata cronaca dell’agonia della bestiola in uno stile puntiglioso da “mattinale”, che tradisce il passato di questore di Pizzuto (cominciando dai riferimenti temporali sul foglietto autografo: Roma, 24.4.54 h. 21.15…). E Camilla “che era bellissima” sarà difatti sepolta nel giardino della scuola di polizia in via Guido Reni 31 (alle ore 17.45). “Presto vi sarebbero sbocciati i fiori; col tempo diverrà un fiore lei stessa, la farfalla ne diffonderà il polline: un giorno potrebbe trapassare in una ciliegia, tornar viva”. È questa degli scrittori siciliani una pietas peculiare verso la dolente sorte degli animali amici, di stampo quasi più indiano che cristiano. Il grande orientalista Giuseppe Tucci spiegò un giorno che il dolore si manifesta per queste creature “nel suo modo assoluto”, a causa della mancanza del ragionamento o della fede da cui gli umani attingono risorse di sopportazione e di rassegnazione. Gli animali sperimentano al contrario la loro sofferenza “nella sua infinità e solitudine” e possono soltanto digerire il proprio karma senza accumularlo. Cioè, è un dolore che non serve a niente. Come quello degli dèi. Lo intuisce anche il Principe fulvo nella giornata di caccia con il leale organista di Donnafugata, Ciccio Tumeo, nel momento di apparente contraddizione in cui spara a un coniglio selvatico e ne avverte simultanea compassione mentre i grandi occhi neri del selvatico morente, già “invasi rapidamente da un velo glauco”, lo fissano “senza rimprovero” ma “carichi di un dolore attonito rivolto contro tutto l’ordinamento delle cose”. Lo sguardo acuminato di Tomasi, mentre mette sulla carta la scena del principe carezzante con “pietosi polpastrelli” la piccola preda, considera che “don Fabrizio e don Ciccio avevano avuto il loro passatempo”, però “il primo anzi aveva provato in aggiunta al piacere di uccidere anche quello rassicurante di compatire”. A Donnafugata s’era appena votato per il farsesco plebiscito sull’unità d’Italia, ma sulle sue colline desolate il tempo venatorio era rimasto uguale ai giorni “in cui per la caccia s’invocava Artemide”, ignaro della successione di sovrani e dinastie. Costituiva perciò rifugio necessario, più che spietato diletto, per il principe travolto dalla Storia. Gli sospendeva l’ineluttabile agonia del proprio mondo corteggiando il Mito, nell’illusione di fermare l’attimo tra le nebbie smarrite dei greci o dei fenici che un giorno avevano depositato persino l’avatar di Anubi sulle sponde dell’isola, traversando l’indaco mare “ancor più minerale e infecondo della terra”. È questa la fascinazione della “arcaicità vivente” testimoniata dal cirneco, che assorbì linfa dal tempio consacrato al dio Adranon nei pressi dell’Etna e sorvegliato da quei cani, festosi coi visitatori ma implacabili con i malvagi e i menzogneri; la assorbì dalle effigi sulla monetazione collezionata da un ennesimo aristocratico, il settecentesco Gabriele Lancillotti Castelli principe di Torremuzza, generoso donatore di rarità alla Biblioteca Nazionale di Palermo. È una fascinazione che agguanta da piccoli, come ricorda lo psichiatra Carmelo Zaffora, nato a Gangi nelle Alte Madonie poi trasferitosi a Catania, cultore del cirneco e possessore anche di un raro esemplare nero che prende, quando attende al riposo, l’imperturbabile postura di Anubi potenziata dal notturno mantello. “Il primo cirneco che incontrai apparteneva a un falegname che era anche cacciatore, lo ammiravo da piccolo passando davanti alla sua bottega per andare a casa dei nonni”, rievoca Zaffora. “La posa statuaria di quel cane trasmetteva il senso di una divinità che ancora ignoravo, ma me ne lasciò un imprinting che mi avrebbe spinto, tanti anni dopo, a possedere i cirnechi anche se non vado a caccia, ad apprezzarne l’indole arcaica, persino feroce quando affrontano le donnole o i serpenti”.

 
Scienziato umanista come c’erano una volta, poeta e pittore, Zaffora ricorda che il dio Anubi “pesava il defunto ponendo su un piatto della bilancia il suo cuore e sull’altro una piuma per verificare che si pareggiassero, quale giudice garante della rettitudine dei trapassati. Una metafora che allude al governo delle passioni che agitano l’esistenza, simbolica missione che tra gli animali solo al cane poteva essere affidata perché attiva un circuito di emozioni, sviluppa l’affettività e le modalità comunicative, dona un’esperienza che fluidifica i sentimenti e favorisce la guarigione psichica, quando sulla bilancia il cuore alleggerito dai sentimenti negativi non pesa più della piuma”. Sul piano meno sottile dell’aspra quotidianità rurale, il cirneco è stato nei secoli “strumento di lavoro e sussistenza”, perché “fino agli anni Cinquanta del Novecento la caccia serviva ai ceti più poveri per integrare l’alimentazione. Con una lepre o un coniglio si sfamava una famiglia”. Compagno del cirneco, ausiliario del cacciatore fu ed è, nelle zone dell’isola dove è ancora consentito, il furetto addomesticato che s’infila nella tana individuata dal cane per costringere il coniglio a sortirne, ma è una pratica limitata dalla rarefazione del selvatico, cui hanno contribuito assai più dei fucili i virus del mixoma creati in Australia per debellare la proliferazione di conigli e propagatisi purtroppo fino a noi.

 

Iscritto nel 2021 nel Reis, il Registro delle eredità immateriali della Sicilia (ma perché un cane sia reputato “immateriale” chissà), il cirneco ha attraversato lo Stretto e i confini italiani, qualche esemplare si trova persino in Finlandia e negli Stati Uniti e forse un giorno la caccia al coniglio sarà un ricordo preservato nella letteratura e questa razza perdurerà vocata solo all’umana compagnia. Resterà però per sempre, col nome di Romeo, il cirneco che nel Gattopardo accoglie il gesuita padre Pirrone nei periodici ritorni alla casa materna di S. Cono, il “paese piccino piccino” del Palermitano, l’esigua Itaca senza Penelope del prete dove il cane rappresenta la continuità della memoria, perché “era il trisnipote rassomigliantissimo di un altro cernieco compagno suo nei violenti giochi” (e Giorgio Bassani, riguardando il romanzo per la pubblicazione ma ignorando il nome della razza, lo storpiò a sua volta in “cerviero”, come può constatare chi possieda una tra le prime edizioni del libro).

  
Resterà, il cirneco, immortalato nel giallo non giallo di Leonardo Sciascia A ciascuno il suo, per la tragica caccia in cui soccombono nell’agguato (lo scrittore precisa pure la data dell’immaginario duplice omicidio: 23 agosto 1964) il dottor Roscio e l’incolpevole farmacista Manno, padrone di una muta di cani che dopo il delitto se ne tornano soli a sera nel paese “in branco serrato e così misteriosamente ululando che tutti (poiché tutti, si capisce, li videro e sentirono) ne ebbero un brivido di pauroso presentimento”. Simili ad Anubi, testimoni di un doppio trapasso, ne riportarono notizia alla piccola comunità di provincia orfani del farmacista che li curava “come cristiani” e ne sapeva distinguere le singole voci e lo stato, “se di allegria o di malanimo o di cimurro”.
 

Farà cenno all’antica razza, nuovamente, Bufalino nel romanzo Qui pro quo, tramite l’io narrante Esther Scamporrino, quando osserva che un avvocato le passa davanti “con occhi di cane cirneco”. Supponendo che questo per la maggioranza dei lettori sia un rimando piuttosto opaco, peschiamo altrove esposizione più esplicita del dettaglio: l’occhio del cirneco “è vivo, dimostra scaltrezza e intelligenza, e ha l’iride gialla sfumata di bruno”. Poche parole che lumeggiano il paragone bufaliniano, tratte da una monografia pubblicata nel 1897 a Catania con firma del dottor Mario Migneco e ristampata poco più di un mese fa a cura dell’allevatore Giuseppe Palazzolo. Migneco, medico specialista in malattie veneree, nativo di Augusta, fu padre di Maurizio, veterinario nella cittadina di Adrano, che perseguendo la passione di famiglia avrebbe aiutato la duchessa Paternò nel salvataggio della razza. Il Migneco senior in quell’opuscolo, che ottenne recensioni in Francia e in Inghilterra, scrive a tratti del cirneco come se alludesse a un cristiano, anticipando le attenzioni dello sciasciano farmacista Manno: “È intelligentissimo, vigilante, d’indole espansiva nella giovinezza, e cupo nella vecchiaia; è ardentissimo nell’amore, molto mordace, e sebbene snello e di apparenza delicata, è dotato di molta forza”. Malgrado il pregevole lavoro, il dottore prese anche un granchio sostenendo che il cirneco discendesse dal lupo siciliano, ma si oppose giustamente alla sua derivazione dal Canis Pecuarius censito ai primi dell’800 da un altro studioso, Giuseppe Antonio Galvagni. La descrizione di questo rustico, massiccio animale di cospicua taglia coincide con le caratteristiche di un’altra varietà canina di recente riscoperta: il mastino siciliano o cane di mànnara, diciottesima e ultima razza italiana riconosciuta solo nel 2017 dalla cinofilia ufficiale. Si trova traccia anche di questo scontroso guardiano sfogliando le pagine migliori della letteratura siciliana. Perché probabilmente è al molossoide pecoraio che fa riferimento Sciascia ne Il giorno della civetta, quando sviluppa l’incontro fra il capitano dei carabinieri Bellodi e questo “bel bastardo, di pelo marrone e con piccole mezzelune viola sugli occhi gialli” (per molto tempo il mastino siciliano fu confuso coi meticci o liquidato come “bastarduni”, anche per biasimarne l’imprevedibile temperamento). La sua peculiarità è nel nome, Barruggieddu, con cui lo richiama e riconduce alla quiete il vecchio padrone che lo tiene legato a un albero e sconsiglia al capitano di accarezzarlo: “‘È cattivo: una persona che non conosce, magari prima si fa toccare, la fa assicurare e poi morde. È cattivo quanto un diavolo’”. L’ufficiale, che viene da Parma, s’incuriosisce tuttavia per il nome: cosa vuol dire Barruggieddu? “Vuol dire uno che è cattivo” è la risposta, ma persino il brigadiere, che è siciliano, non afferra l’etimo dialettale. Allora “il vecchio disse che forse il nome giusto era Barricieddu, o forse Bargieddu: ma in ogni caso significava malvagità, la malvagità di uno che comanda: ché un tempo i Barruggieddi o Bargieddi comandavano i paesi e mandavano gente alla forca, per piacere malvagio. ‘Ho capito’ disse il capitano ‘vuol dire Bargello: il capo degli sbirri’. Imbarazzato, il vecchio non disse né sì né no”.

  
È una lezione di storia di Sicilia con cui Sciascia illumina, grazie al ringhioso animale, la mente di Bellodi, “cane della legge”, uomo del Nord, idealista ex partigiano in una Italia che nel 1960, data di svolgimento del romanzo, va celebrando il centenario dell’unità o dell’annessione, consacrata da quel referendum farsa con cui a Donnafugata, ma non solo, i voti del “no” erano scomparsi misteriosamente suscitando un ingenuo sfogo di Ciccio Tumeo nella giornata di caccia col principe malinconico, quando a morire non è solo l’innocente coniglio carezzato dai polpastrelli di don Fabrizio. Un secolo dopo quel giorno, il rimuginante capitano Bellodi sarebbe risalito con la mente ancora più indietro dei garibaldini e dei Borbone, verso le penombre dei tempi spagnoli, pensando ai “‘cani del Signore’, che erano i domenicani”, e alla “’Inquisizione’: parola che scese come in una vuota oscura cripta, cupamente svegliando gli echi della fantasia e della storia”. “Pensieri, pensieri che sorgevano e si dissolvevano nella vampa in cui il sonno da sé si consumava”.

  

Fantasmi, fantasmi nelle notti vegliate in giacca e cravatta dai Casimiro Piccolo che dialogano con gli spiriti a quattro zampe, perché nella rappresentazione immaginale e letteraria la Sicilia riserva un posto peculiare ai cani, ed ecco gli occhi di cirneco, la sua umanizzazione, la pelle tarlata di Bendicò, i paragoni di Bufalino, la metafora del mastino Bargello, l’astro intitolato a un bracco, la posa statuaria del cane di un falegname che impartisce a un bambino di Gangi l’idea del dio egizio prima ancora di apprenderne l’esistenza e sì da indurlo, nella maturità, a riservargli un posto nel suo vasto giardino. Perché si può piegare a un moto circolare d’affetto anche l’ottusità dei calendari.

  
La distanza, nel tempo o nello spazio, non sempre è lontananza. Persino quando la latitudine si divarica dalla Sicilia a Torino, e anche se i decenni trascorsi ne hanno mutato le fattezze, nulla toglie che “il povero senatore in veste da camera era stato un giovane dio”: così l’ultimo dei Corbera di Salina, che è sempre lui, Tomasi (sempre lui, il Gattopardo), propone nel racconto capolavoro Lighea l’amore immortale tra un mortale, l’insigne grecista Rosario La Ciura, e una sirena. C’è, fedele compagno del senatore e genius loci del suo appartamento in un “vecchio palazzo malandato”, un grande boxer cui è dato il nome mitologico di Eaco, figlio di Zeus e di una ninfa, sovrano dei mirmidoni. “Questo, Corbera, per chi sa comprenderlo”, gli dice il senatore indicando il cane, “rassomiglia più agl’Immortali, malgrado la sua bruttezza, delle tue sgrinfiette”. È ancora un cane che funge da guardiano discreto, come quello che custodisce il sonno senza tempo dei sette dormienti di Efeso nella sura coranica della Caverna. C’è un cane che veglia sui vagheggiamenti del vecchio studioso, curioso di sapere da Corbera “se la Sicilia è ancora come ai tempi miei, immagino che non vi succeda mai niente di buono, come da tremila anni”. Finirà tutto, oppure tutto comincerà per La Ciura, con un tuffo nel mare per rincontrare la sirena che aveva amato da ragazzo durante tre settimane nelle acque aurorali di Augusta. La sua scomparsa notturna da un piroscafo nel Mediterraneo, supposto suicidio o semplicemente “caduta in mare”, doveva forse essere, nelle intenzioni di Tomasi, un volo opposto a quello della pelle annosa e polverosa di Bendicò. È ciò che tutti spereremmo, anche se purtroppo non ne siamo mai così sicuri.

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