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Mille chilometri a piedi con solo uno zaino, simbolo di fatica e scoperta interiore
Mollare tutto e andare per Cammini. Lo zaino è pesante sulle spalle, ma, allo stesso tempo, la testa è leggera per pensare indisturbati: passo dopo passo, camminare diventa un rito di resilienza e crescita personale
Siamo zaino e portatori di zaino. Viviamo per caricarne uno e svuotarne un altro. Lo teniamo in spalla ma ci siamo anche dentro. Chi ha viaggiato con uno zaino conosce il livello di amore e odio che si instaura con un manufatto del genere. Parliamo di una cosa che porti come una croce, che trascini come un peccato originale, che proteggi come un’ostia consacrata.
Per la maggior parte di quelli della mia generazione, i sessantenni ossessionati dall’idea che il tempo passa e non perdona, lo zaino è protesta, controcultura, totem di un come eravamo. Per quelli che sono venuti dopo è perlopiù un attrezzo desueto, quasi da barboni o comunque una cosa poco pratica, poco igienica, da tenere nel ripostiglio. Per me – e per un manipolo di altri camminatori di ogni latitudine generazionale – lo zaino è il catalizzatore di uno strano tipo di libertà, quella che scaturisce dalla reazione tra la scomodità e la solitudine, tra l’anarchia di un sentiero selvaggio e il rigore di una mappa tracciata.
Sono un camminatore laico nel senso che pur percorrendo Cammini che spesso hanno ispirazione e origini religiose, sono discretamente refrattario all’aspetto mistico. Quindi non sono un pellegrino ortodosso, non colleziono le “credenziali”, i cartoncini sui quali vengono apposti i timbri delle tappe che attestano il compimento del pellegrinaggio. Nei Cammini di Santiago all’arrivo, mostrando questi pieghevoli, si riceverà la compostela cioè il documento dell’avvenuto pellegrinaggio, una roba a metà tra la benedizione e il certificato di frequenza di un corso professionale. Punti di vista, il mio dio non si occupa di raccolte di bollini.
Negli ultimi anni ho percorso migliaia di chilometri tra Cammino del Nord, Cammino portoghese, Francigena italiana e vari altri itinerari (quest’estate farò il Cammino francese). E l’ho fatto da solo, con uno zaino di una decina di chili, seguendo percorsi che comportano mediamente tappe di 26-28 chilometri al giorno.
Non vi dirò della preparazione fisica che serve per affrontare 700 e passa chilometri in meno di un mese. Vi dirò invece della vera impresa alla quale non siete preparati sino all’ultimo minuto: stipare in uno zaino da cinquanta litri tutto quello che vi servirà per quei giorni di passione. La regola più diffusa è quella del tre: tre magliette, tre paia di calze, tre mutande eccetera; un solo paio di scarpe e sandali leggeri per la sera. Per tutto il resto c’è un panetto di sapone di Marsiglia.
I teorici della fisica applicata alla scarpinata dicono che il peso ideale dello zaino dovrebbe attestarsi sul dieci per cento del peso corporeo, acqua inclusa, ma se siete ben allenati un paio di chili in più ve li potete concedere.
La parte del corpo che richiederà la massima cura e dalla quale dipenderà la riuscita dell’impresa sono i piedi. Vanno tenuti sempre ben lubrificati con vaselina o burro di karitè per evitare la formazione di bolle e piaghe. Saranno loro a condurvi in un mondo dove tutto è lento, in uno strano incantesimo di passi e silenzi, di pietraie e salite, di sentieri deserti e pensieri affollati. Un rito antichissimo eppure dirompente, quello della solitudine intermittente, della conoscenza analogica.
In questi luoghi del movimento rarefatto c’è chi fugge, c’è chi cerca, c’è chi semplicemente vaga libero, pronto intercettare impulsi sconosciuti (è il mio caso). È una sensazione che ho provato poche altre volte, in corrispondenza di situazioni più o meno estreme, e che mi ha sempre dato la spinta che non sapevo di cercare. Forse ci si abitua a tutto, alla fatica, agli effetti speciali, persino al sentimento. Alla curiosità mai.
Uno degli effetti più dirompenti è quello sul rapporto coi nostri pensieri: ogni mattina se ne indossa uno e lo si accarezza, stropiccia, consuma per tutta la giornata senza che nessuno ci disturbi: quando mai ci potrebbe capitare una cosa simile in una giornata ordinaria? Me ne sono accorto subito, nel mio primo Cammino, quello del Nord. Scarpinando per i sentieri scoscesi del primo tratto nei Paesi Baschi, ero concentrato sulle pietre viscide, sui torrentelli di fango, sulle cadute da evitare. Da queste parti la pioggia d’estate è un fenomeno frequente a causa dei sistemi nuvolosi dell’oceano Atlantico che vengono bloccati dalla Cordigliera Cantàbrica e che danno origine al Favonio (il Föhn) che spinge le masse umide verso l’alto innescandone la condensazione. Ergo, piove spesso anche in estate, e per giornate interminabili. Intanto uno cammina, fatica, sta concentrato sul terreno come se dovesse censire le pietre. E pensa. Si pensa. Pensavo in modo completamente diverso dal solito. E’ come se finalmente mi avessero tolto quel freno a mano di cui non mi rendevo conto. Come se il grande manovratore del mio cervello si fosse preso le ferie e avesse lasciato il comando a un anarchico pacificato, giovane, e pure un po’ fuso.
Credo che i Cammini siano una delle più potenti centrali mondiali produttrici di pensieri. E poi macinando suole ti rendi conto che se hai vissuto, c’è sempre un rimedio noto a problemi ignoti, o meglio che c’è sempre un’occasione per capitalizzare quel po’ di buono che hai messo in saccoccia. Basta trattarsi bene, che si sia da soli o in compagnia. Un esempio di buona cura di sé e del prossimo, lo danno molti spagnoli che disseminano il Cammino di piccoli aiuti: dal nulla, magari nel mezzo di un sentiero isolato, spuntano banchetti con acqua, frutta e qualche genere di conforto a disposizione di chiunque. Perché esiste un senso di comunità che non ha a che fare coi confini geografici o le adunate elettorali.
Andando avanti, giorno dopo giorno, un Cammino diventa un’esperienza senza precedenti per un fenomeno di addizione. Ed è un effetto strano perché di solito si diluisce in un mood che è invece di sottrazione (meno orpelli di vita, vestiti, comfort). Si sommano due forze diverse. Da un lato la fatica accumulata ed esasperata dalla mancanza di recupero. Dall’altro una soave forma di assuefazione alle cose che normalmente disturbano, tipo la pioggia, il fango, un muscolo che duole.
La fatica, come i maratoneti sanno bene, crea dipendenza. Le endorfine liberate durante uno sforzo prolungato sono una droga naturale che snebbia le idee, fertilizza la creatività, pompa autostima. In un Cammino non c’è competizione: la fatica è un investimento, non un dazio da pagare. Quando uno comincia a camminare non sa se ce la farà a percorrere tutti quei chilometri – nessuno lo sa – però sa che dovrà far fruttare ogni passo con quel maledetto zaino che affatica più le spalle che le gambe.
I Cammini di Santiago sono i più belli e i meglio curati. Si svolgono tutti su itinerari dedicati, quasi sempre lontani dalle strade e dalle auto. Sono ben forniti di segnaletica e, tranne i tratti più selvaggi, presentano molti “punti acqua” in cui rifornirsi. Inoltre molti esercizi commerciali offrono convenzioni vantaggiose per i pellegrini.
Nella “senda litoral” del Cammino portoghese – una meravigliosa striscia di quasi duecento chilometri di passerelle di legno sulle dune delle spiagge affacciate sull’Oceano Atlantico – molte località turistiche offrono un servizio di biblioteca aperto a tutti, con ombra e comode sedie per riposarsi sfogliando libri e giornali. E poi docce gratis, acqua potabile in ogni lido.
La Francigena italiana, dal colle del Gran San Bernardo a Roma, è invece molto diversa. Bistrattata da chi si occupa per mestiere di turismo e cultura, è bellissima malgrado tutto. Ha passaggi di traffico pericolosi, ha comuni che se ne fregano dei viaggiatori, ha tappe dove non c’è nulla da mangiare e da bere in agosto (mica a febbraio). Ma ha soprattutto un patrimonio umano pazzesco, tanti piccoli centri arroccati in posti impossibili, un campionario di ospitalità su base volontaria ineguagliabile, un assortimento di storie, sacrifici, scommesse che diventano tesoro non appena varcano la soglia del ritegno familiare, della discrezione paesana.
Ho camminato nel buio della notte senza luna senza mai aver paura di perdermi e ho goduto di una pizza nel posto più improbabile per una pizza, ho costeggiato ettari di terra coltivata a pomodori e ne ho mangiato il giusto per rimanere al di sotto della quota umana possibile, ho schivato tir per chilometri. Ho capito che siamo abituati a detestare le zanzare solo perché non conosciamo il potere demoniaco delle formiche e soprattutto delle mosche delle nostre pianure assolate. Con certe temperature nell’estate padana (ed era il caso di fargliela fare a quelli lì ’sta Padania a patto che col caldo restassero tutti confinati nella loro bella terra indipendente), ti stupisci di scegliere se l’ultimo goccio della borraccia deve andare sulla testa rovente o nella gola arsa. E se provi a usare Google Maps cedendo alla pigrizia tecnologica anziché fidarti delle mappe su carta, nella maggior parte delle volte finirai in un sentiero cieco, meritatamente sperduto.
In questi anni di chilometri lento pede ho incontrato storie affascinanti, molte delle quali varrebbero un libro o un film. O una preghiera, per chi ci crede. C’è il giovane olandese indeciso tra le sue due passioni: la musica o la finanza. È in cammino per capire quale sarà il destino che lo aspetta, e non si stia qui a banalizzare che potrebbe fare entrambe le cose perché nella sua visione non esiste il pannicello caldo. O note o numeri. Fresco di laurea, ha un buon aggancio per un destino che passa da Wall Street e chissà dove va a finire. Ma c’è un problema, un problema a sei corde: la chitarra jazz che suona divinamente…
C’è il grafico pubblicitario spagnolo, felicemente sposato e altrettanto felicemente da solo in cammino, che insegue un’idea di cui non ha idea. Una specie di hippy con iPhone e sandali che tace per tutto il giorno e parla soltanto la sera, dopo un paio di birre, generalmente per ribadire un suo mantra: non fare bene un mestiere che non ti piace. C’è una ragazza francese che lungo questi chilometri sta decidendo il destino suo, della sua famiglia e di una comunità. Ha un buco nero da colmare o da richiudere. Nella vita di chi racconta credo che non ci sia nulla di peggio che dover scovare l’orrore nella bellezza, e la vicenda di questa donna mi accompagnerà per sempre. Lei, per via di una storia di abusi e orrori familiari, si è trovata improvvisamente di fronte a una scelta drammatica e dovendo prendere una decisione che incendierà un bosco di esistenze ha detto: vado a farmi mille chilometri, ne parliamo al mio rientro.
In un cammino l’ambito muscolare ha una sua preponderanza, ma per parlare di resistenza bisogna andare oltre la dimensione fisica, estendersi a una determinazione ordinaria delle piccole cose. Ad esempio la scorsa estate per le ventotto tappe in Portogallo ho dormito ogni sera in un posto diverso (per scelta non alloggio negli albergue dei pellegrini). È così che mi sono ritrovato in pensioni sperdute e in case affollate, ho alloggiato in hotel da Psycho e in antiche dimore di nobili decaduti. Ho cenato in ristoranti e in bettole, ho combattuto estenuanti battaglie contro le molle di materassi ribelli, ho bevuto nello stesso posto ottimi vini e acqua al limite del potabile. Inoltre ho succhiato 42 ghiaccioli pur detestando i ghiaccioli, ho svuotato e riempito lo zaino ogni sera e ogni mattina, come se sgranassi un rosario, cercando di smarrire solo il superfluo: alla fine ho perso solo un pezzo di sapone di Marsiglia e non ci ho dormito una notte come se mi fossi privato di un reperto prezioso. Nelle pieghe del mio corpo ho assorbito tanta di quella vaselina che, al rientro, ho rischiato di cenare per mesi con le cinture di sicurezza per non scivolare dalla sedia. Ho lavato magliette, calze, pantaloncini, mutande ogni santo giorno (per la precisione ogni santo pomeriggio) con la diffidenza di uno che a casa fa tutto-proprio-tutto ma che guarda la lavatrice come uno di CasaPound un nero comunista e pure gay: calze, magliette e mutande (tre, tre e tre) pur essendo uguali ormai li riconosco e li chiamo per nome come una mamma coi suoi gemelli.
Infine l’isolamento. L’esercizio di resistenza più difficile, ergo quello che dà maggiori soddisfazioni, è quello contro il virus di ordinarietà inoculato dalla vita cittadina. Si molla tutto e si va. Si rivaluta l’olfatto come senso per esplorare il mondo che ci scorre intorno. Ma soprattutto si comprende che c’è un’importante eccezione per noi dilettanti della determinazione che tendiamo a impegnarci in tutto, anche in ciò che ci fa male. Un passo dopo l’altro, nella fatica e nella calura, con la borraccia a secco e le gambe dolenti si impara a lasciar correre: ha ragione l’hippy spagnolo, molto spesso è inutile far bene qualcosa che non ci piace. Si va e basta. Perché? Perché il miglior modo per rispondere a certe domande è non porsele. O al limite metterle in fondo a uno zaino e sperare di seminarle per strada, come un pezzo di sapone di Marsiglia.
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