Screenshot preso dal film Malèna di Giuseppe Tornatore (2000) 

Il caso

Meglio licenziati per molestie o per scostumatezza semplice? Ardua sentenza

Ester Viola

In Inghilterra un uomo è finito in tribunale per aver detto "carina" a una collega. Da noi una cosa del genere non è mai successa: noi paesani d’Italia abbiamo solo i licenziamenti per scemità, che è una buona notizia

L’indignazione è come la pazienza, bella virtù ma si esaurisce con l’uso. Cancellazioni, processi per direttissima, revoche morali dei Nobel per infamia della matriarca, tribunali locali popolari – le quaestiones perpetuae che si facevano i romani in mezzo alla strada duemila anni fa – fino ad arrivare allo strascino, quando ti prendono per i capelli in pubblico e ti tirano per terra finché non cambi idea. Ogni tanto penso grazie a dio che la gogna è social e nessuno si fa male. Il preambolo finisce qui, succede che leggo sul giornale la seguente notizia: per i tribunali inglesi dire a una ragazza che è nice sul luogo di lavoro può configurare sexual harassment. Come si traduce nice dall’inglese? Carina? Perché, sostiene il giudice, può generare un ambiente intimidatorio.
 

Una discreta domanda è se da noi una cosa del genere è mai successa o è nel regno delle possibilità. Ho chiesto a qualche altro avvocato e la risposta collettiva è no. Forse nice detto da un collega poteva finire – a certe condizioni e tirato per la giacchetta – al whistleblowing, ovvero al canale segreto di segnalazione illeciti in azienda per violazione del codice etico. La ragazza avrebbe scritto “avances indesiderate dal signor Rossi in data xy”, e forse (molto forse) si sarebbe trovato il modo di rampognare il moscone zotico, ché gli passino le vampate. Questo nell’ipotesi ottimistica, perché sarebbe più probabile l’archiviazione. “Ciao, stai bene oggi” non è una frase da malintenzionati. Non si configura né reato né creazione di ambiente intimidatorio.
 

Un caso vagamente parente l’ho letto anni fa, sul licenziamento di un dipendente che aveva scritto “milf” in un commento su Facebook a una collega. Era interessante la sentenza perché c’era una doppia e tripla antilingua che Calvino se la sognava, e un vanzinismo sublime sottotraccia. Era come uno di “Yuppies” finito in tribunale, immaginare Christian De Sica alla sbarra e Jerry Calà giudice: “Invero la volgarità dei commenti lasciati in visione per 15 giorni all’intero pubblico di Facebook [potenzialmente visibili dal circa miliardo di utenti del social network] appare ictu oculi e non sembra meritare molte argomentazioni, se non quella relativa all’acronimo milf (madre che mi vorrei scopare, secondo il sito Wikipedia): la locuzione, lungi dal descrivere ‘avvenenti signore dai 40 anni in su’ (pag. 6 dell’atto introduttivo) è ormai divenuta sinonimo di pornostar al termine della carriera, con evidente caratterizzazione negativa, sia in relazione all’attività del soggetto, sia all’età avanzata in relazione alla professione medesima. Peraltro l’acronimo è stato accompagnato da pesanti battute proprio sulla scarsa attività sessuale delle donne che, pur essendo dedite al meretricio, avrebbero comunque necessità di pagare somme di denaro per intrattenere incontri carnali con uomini”.
 

In Italia non è harassment ma scostumatezza semplice. Ti licenziano per lesione del vincolo fiduciario. Vuol dire che anche comportamenti estranei all’ambito lavorativo, ma idonei a determinare una perdita delle reciproche stime in relazione agli aspetti legati al rapporto di lavoro, possono portare a sanzioni disciplinari e al licenziamento. È di quindici anni fa la prima sentenza che ci avvertiva di stare attenti. Tribunale di Monza, Sez. IV, n.770/10: “Coloro che decidono di diventare utenti [di social network] sono ben consci non solo delle grandi possibilità relazionali offerte dal sito, ma anche delle potenziali esondazioni dei contenuti che vi inseriscono: rischio in una certa misura indubbiamente accettato e consapevolmente vissuto”. Noi paesani d’Italia abbiamo solo i licenziamenti per scemità, pensateci come a una bella notizia.

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