la storia
Diario di una desistenza di genere
“Avevi ragione tu, non sono trans”. Tre anni di sofferenza, di disagio del corpo, di ricerca e affermazione di una nuova identità e poi il figlio-figlia ha ricominciato a essere una figlia. La mamma racconta. Un manuale di sopravvivenza
La storia comincia dalla fine, da quella sera di marzo in cui Anna propone a sua figlia/figlio Niki di buttarsi sul divano per guardare una serie. Intanto sarebbero andate avanti a lavorare la coperta all’uncinetto, quei fili colorati che le tenevano insieme. Niki dice che preferisce andare nel lettone con lei. Ha 17 anni e sono solo le nove e mezzo, ma Anna non chiede perché. Da tempo ha adottato la strategia dell’ascolto, meno domande possibili. Quindi ok lettone. Niki ha bisogno di intimità con sua madre per dirle all’improvviso quello che sua madre sperava di sentirsi dire da quasi tre anni: “Avevi ragione tu. Non sono trans”.
“Il cuore mi è esploso”, racconta. “Anzi: è imploso. Non volevo, non potevo far vedere i miei sentimenti”. Il figlio-figlia aveva ricominciato a essere una figlia. “Quei due mesi che sei stata a casa dal lavoro per stare con me mi hanno salvato”, dice ancora Niki. “Sono tanto fiera di te” (ogni volta che lo racconta Anna non trattiene le lacrime anche se non è affatto un tipo da lacrime).
Fiera, aveva detto, con la -a. Fiera perché sua madre era stata capace di tenere duro per tre anni: aspettare, darsi tempo, non imboccare strade definitive. Non così duro però da mandare tutto in pezzi. Perché c’era la possibilità che tutto quel dolore, tutta quella confusione passassero. “Era l’uscita da tre anni d’inferno”, dice. “Ma non potevo travolgere tutto con la mia gioia. La scena era sua. L’ho lasciata parlare. Un fiume in piena fino alle due del mattino. Soprattutto su che cosa vuole dire essere una donna”.
La storia di Anna e Niki può essere letta come un manuale di sopravvivenza per quelle moltissime madri e quei moltissimi padri che un giorno, quasi sempre senza preavviso, si sentono dire dalla propria figlia che ha scoperto di essere un uomo (o dal proprio figlio che è una ragazza, ma succede meno spesso: la questione, otto casi su 10, oggi è prevalentemente femminile ).
“Un’altra sera, tre anni prima, ora di cena”, racconta Anna. “A un certo punto Niki ci chiede se le vogliamo bene. Certo che te ne vogliamo. Vi devo dire una cosa, fa lei. La cosa era che aveva capito di essere un maschio, e che la cosa era definitiva e indiscutibile. Aveva capito che era stata tanto male per questo, perché in realtà era un maschio, certi suoi amici l’avevano aiutata, anzi aiutato a capirlo. Non aveva nemmeno 15 anni. L’abbiamo abbracciata, è stata la prima cosa. Le abbiamo chiesto un po’ di tempo renderci conto. Al momento non riuscivo neanche a capire che cosa stesse dicendo. Di queste faccende non sapevo niente”.
(si chiama ROGD, disforia di genere a insorgenza rapida. Sono migliaia le famiglie occidentali che si ritrovano improvvisamente a farci i conti, ndr).
Nessun segnale fino a quel momento? Niente di niente?
“Si era tagliata i capelli. Li aveva sempre tenuti lunghissimi, curatissimi. Aveva cominciato a mettersi certe felpe larghe e sformate che nascondevano il corpo, le maniche lunghe per non far vedere le mani femminili. Ma a 14 anni ci sta. La pubertà è sempre stata un passaggio complicato per tutte, una vera muta. Ma è un passaggio obbligato, non si può saltare. Uscivamo dal lockdown, aveva vissuto attaccata al computer: eravamo convinti che sarebbe stata la salvezza in quella situazione di isolamento, invece lì sono nati tutti i guai. Sono sempre stata una donna decisa, sportiva, faccio snowboard, cambio le gomme da sola. Ho un maschile robusto. Anch’io da piccola in qualche modo vagheggiavo di diventare maschio. Ero molto interessata alla libertà degli uomini. Ma ho anche una notevole collezione di scarpe con il tacco. Gli stereotipi non mi appartengono. Non l’avevo mai vestita da bambolina, tenevo a freno le nonne e i vari infiocchettamenti. Però anche lei ha avuto le sue Barbie, le varie Hello Kitty, il Lego Friends, le cose di tutte le bambine. Non era mai stata un tomboy. Lei invece ci stava dicendo cose tipo: sono cresciuto da solo. Al maschile. Parlava della sua infanzia selezionando episodi a dimostrazione della sua tesi: era un maschio, l’aveva sempre saputo. La voce era metallica, da robot. Lo sguardo senza luce. Una cosa straziante e straniante. Ci ha chiesto di chiamarla da subito con un nome maschile”.
Avete accettato?
“Non abbiamo detto no, abbiamo proposto un compromesso, un soprannome che non individuasse chiaramente il sesso. Di lì è cominciato uno slalom tra le declinazioni, mai parlare troppo al femminile o troppo al maschile. Per anni siamo vissuti nel neutro con il terrore di sbagliare, elefanti in una cristalleria. La cosa importante era non tagliare i ponti. Suo padre era più bravo, non si è lasciato travolgere. Io invece stavo come un cane. Fermavo l’auto mentre guidavo per poter urlare. Non dormivo la notte nemmeno con i sonniferi. Avevo pensieri di morte. Cercavo di convincermi che in fondo lei era sempre lei, noi eravamo sempre noi. Ma non sapevo dove sbattere la testa”.
Dove l’hai sbattuta?
“Ho creato un account TikTok. Ho cominciato a muovermi online e mi si è aperto un mondo. Influencer, tiktoker, gente che ti spiega cosa dire e come fare, come comportarti in famiglia, cosa raccontare ai terapeuti per convincerli ad ‘affermarti’, come parlare della propria infanzia (tutte/i allo stesso modo). Come vestirti, come muoverti, come abbassare il timbro della voce, i trucchi per mascolinizzarti, selfie con barba e baffi finti, camicie hawaiane, che sono un indumento distintivo. Binder per schiacciare il seno, calzini arrotolati per simulare il ‘pacco’, veri e propri manuali di transizione. Tutte le ragazze raccontano le stesse cose e nello stesso modo. Sognano il momento glorioso della mastectomia. Quelle che sono già arrivate al testosterone mostrano con fierezza i cambiamenti da un mese all’altro. Il contagio sociale è questo: l’offerta di una risposta preconfezionata e in qualche modo sexy al malessere che normalmente accompagna quella transizione fisiologica che è la pubertà. Capisci che c’è qualcosa di molto storto, ma ti senti anche ottuso, retrogrado, sbagliato perché noi non abbiamo mai avuto niente contro le persone trans, tutta la nostra vita dice altro. Online l’approccio ‘affermativo’ è schiacciante. Un sacco di siti che parlano di identità di genere, della bellezza del vero sé. Di rischio suicidio se non assecondi: la formula è ‘preferisci una figlia viva o un figlio trans?’. Finché non ho scoperto che a scuola le cose erano già andate molto avanti. Era un bel po’ che Niki veniva nominata al maschile’”.
Carriera alias?
“L’istituto non l’aveva ancora introdotta. Ma nelle mail interne mia figlia era già un ragazzo. I compagni la chiamavano al maschile. Gli insegnanti. La preside”.
Nessuno vi aveva avvisati.
“Nemmeno per idea. Si tratta di un percorso normalizzato e consolidato. Nella sua classe ce n’erano altre 7 o 8 messe come lei. Idem nelle altre classi. Non si parla, si passa direttamente ai fatti, senza discussione e senza coinvolgere le famiglie”.
(“Il requisito del consenso dei genitori o del consenso di un tutore legale può essere restrittivo e problematico per i minori”; “gli Stati dovrebbero agire contro i genitori che ostacolano il libero sviluppo dell’identità di una giovane persona transgender rifiutando di concedere l’autorizzazione quando richiesta”; in generale, più si fa silenzio e meglio è. Questo il succo del rapporto ‘Solo adulti? Buone pratiche nel riconoscimento legale del genere per i giovani‘ elaborato qualche anno fa dallo studio legale Dentons per aiutare i gruppi trans a introdurre cambiamenti nella legislazione per consentire ai bambini di cambiare legalmente il loro genere, senza il consenso degli adulti né di alcuna autorità. “Ci auguriamo che questo rapporto sia uno strumento potente per attivisti e Ong che lavorano per promuovere i diritti dei giovani trans in Europa e altrove”, si legge nella prefazione, ndr).
Ma i prof? Tutti d’accordo?
“Qualcuno convintamente. Altri meno. Ma nessuno si metteva di traverso. L’andazzo è questo. Dicono che se in ogni classe hai quattro o perfino otto casi è molto difficile. La preside poi era una molto legata ad ambienti trans. Le ho chiesto di chiamare Niki con il suo nome, lei ci ha risposto che tanto a 16 anni avrebbe potuto fare quello che voleva. Sono uscita a ottenere che almeno la chiamassero per cognome. Tanti prof in verità di queste cose non sapevano niente. In seguito mi hanno ringraziato per averli aiutati a capire. Idem per i genitori. Nelle chat di classe ci sono famiglie affermative che parlano della figlia al maschile. Altri sono più cauti. E poi ci sono genitori che si dannano come noi per evitare di imboccare precipitosamente una strada che non ha ritorno.
(Più del 90 per cento dei minori a cui vengono prescritti bloccanti della pubertà per “mettere in pausa” lo sviluppo e poi decidere il sesso elettivo intraprenderanno definitivamente la transizione passando agli ormoni cross-sex e alla chirurgia di riassegnazione. Viceversa se riesci a dare tempo al tempo la grande maggioranza dei casi di minori con diagnosi di disforia finisce per fare pace, come Niki, con il proprio sesso biologico. Si chiamano desister: un recentissimo studio tedesco parla di tassi di desistenza che sfiorano il 65 per cento a cinque anni dalla diagnosi, con punte del 73 per cento nelle ragazze tra 15 e 19 anni. Tassi simili vengono riportati dalla Società Italiana di Pediatria, ndr).
Oltre agli influencer transattivisti ho incontrato online l’associazione di genitori GenerAzioneD, tutta gente che stava vivendo la mia stessa esperienza e raccontava le stesse storie. Il primo problema in comune è trovare terapeuti non immediatamente ‘affermativi’”.
Ne ha trovati?
“Un’amica psicologa mi aveva consigliato un’esperta in disforia che al primo approccio ci ha rassicurato: non tutti arrivano alla transizione. Aveva ammesso un problema di contagio sociale. Ha anche detto che eravamo genitori fantastici visto che Niki era riuscita a dircelo. Al secondo incontro chiede a Niki da quanto si sente maschio e lei rispondo da 8-10 mesi. La musica allora cambia, secondo le linee guida in circolazione sei mesi bastano e avanzano per una diagnosi di disforia. Al terzo incontro ci rimprovera di continuare a considerare Niki come una femmina e ci invita a contattare un’associazione di genitori ‘affermativi’. Intendiamoci: le persone trans ci sono sempre state. Si tratta di una minoranza con un’esperienza di vita complessa. Ma avviare alla transizione un minore nel giro di tre incontri è inaccettabile. Si rischia di rovinarlo per sempre. Io sono un medico: primum non nocere dovrebbe essere un principio inaggirabile. Serve una vera diagnosi, non ci si può basare sull’autodiagnosi di una quattordicenne. Poi per fortuna è arrivata l’anoressia”.
Per fortuna?
“Ci siamo resi conto che non mangiava. Si infilava i bocconi in tasca. Ci abbiamo messo un po’ perché i maglioni larghi nascondevano il corpo, ma poi il dimagrimento è diventato evidente. Ha perso 10 chili, aveva sempre freddo, il ciclo è sparito. Le mettevo di nascosto ricotta e omogeneizzati nel passato di verdura. Ha cominciato anche a tagliuzzarsi. Tante di queste ragazze sono piene di piccole cicatrici più o meno nascoste, le riconosci perché sono allineate, regolari. Abbiamo trovato dei disegni spaventosi con sangue, mutilazioni, mastectomie”.
Più frequentemente succede l’inverso: prima l’anoressia, poi la disforia.
“Nel suo caso è andata così. L’anoressia è stata una fortuna perché a quale punto il focus si è spostato dalla disforia sul disturbo alimentare. Ci siamo rivolti a uno specialista in questo campo e via via i legami con la psicologa affermativa si sono allentati. La stessa Niki ha manifestato il desiderio di tagliare i ponti con lei. Aveva deciso di indirizzarla a una clinica di genere per la terapia con i blocker, ma Niki non si sentiva pronta. Mi ha detto che forse quella specialista non era più giusta per lei. Credo che il punto di svolta sia stato lì. Ma ce n’è stato un altro”.
Quale?
“Quando sono riuscita a spostare lo sguardo dal mio dolore al suo. La mia sofferenza era un muro che ci separava e mi impediva di vedere la mia bambina sofferente. Ho ritrovato le forze e mi sono messa in una posizione di ascolto incondizionato. Mi sono distolta da me stessa per starle vicina facendo cose insieme, aiutandola a distrarsi dal mondo virtuale per riprendere contatti con quello reale. Amiche e amici in carne e ossa, cose pratiche da fare, curare il giardino, aiutare suo padre nel lavoro, portare pacchi alle poste. Cose che puoi toccare, che hanno una materialità, un corpo. Abbiamo anche consultato un neuropsichiatra e la prima cosa che ci ha detto di lei è stata: quanto dolore! Ci ha spiegato che la disforia era un sintomo e non la causa della sofferenza. Ci ha parlato della sua grande sensibilità, del terrore di crescere. Le ha prescritto degli antidepressivi”.
L’anoressia è passata?
“Abbastanza rapidamente. Un giorno a scuola si è quasi sentita male per essersi ingozzata di merendine. Cominciavamo a vedere la morsa che si allentava. I capelli un po’ più lunghi, le capitava di uscire senza binder, aveva perfino ricominciato a depilarsi le gambe. Se in un negozio la prendevano per ragazza non ne faceva più un dramma. Lo sguardo era meno torvo, le stava tornando la luce negli occhi. Ogni segnale mi riempiva di gioia ma mi guardavo bene dal manifestarla. Un giorno mi ha anche portato a vedere ‘Barbie’ vestita di rosa come tutte le altre ragazzine. La notte del lettone mi ha detto di avere capito che le femmine non potranno mai diventare maschi. Che è molto arrabbiata con gli adulti che avallano questa cosa, con il mondo che ti spinge a credere che quella possa essere la soluzione per tutti i mali. L’ho presa in giro: sei una Terf omofoba! Dice di avere capito di essersi auto-falsificata, di avere recitato una parte che recitava anche quando era sola”.
Una maschera protettiva.
“E’ come se si fosse procurata un alter ego che l’ha accompagnata nella transizione dell’adolescenza. Un alter ego impostore. Forse da sola, senza di ‘lui’, non ce l’avrebbe fatta. Adesso ha quasi 18 anni, l’anno prossimo farà la maturità. Tornare a scuola da desister, con la sua identità femminile ritrovata, è stata un’esperienza molto dura. Ha cominciato a cumulare assenze, lei che è la classica ragazza perfetta, studente brillante che va in crisi quando non prende 9. Da una parte c’era la consapevolezza del rischio che aveva corso, dall’altra il fatto di dover giustificare la marcia indietro. Raccontava: ‘se dici che sei trans nessuno ti chiede di giustificarti. Ma se torni sui tuoi passi devi dare spiegazioni’. E’ stata molto male: attacchi di panico, pensieri poco belli, è stata perfino ricoverata per una notte in psichiatria. Ha dovuto ricominciare con gli antidepressivi. Abbiamo deciso di prolungare le vacanze di Pasqua per darle un po’ di respiro, in accordo con la preside che nel frattempo è cambiata”.
Si è sentita una traditrice.
“Innanzitutto di sé stessa. All’inizio non voleva mollare del tutto il giro Lgbtq, poi ha addirittura buttato via la bandiera. Ci vorrà un po’ perché elabori questo lutto. E’ ancora molto destabilizzata. Ma ora è tornata a scuola vestita da ragazza”.
Se avesse cominciato la transizione sarebbe stata una detransitioner.
“Però dopo che hai preso quei farmaci le cose non tornano più come prima”.
Come mai detrans e desister vengono stigmatizzati come traditori?
“E’ un meccanismo molto simile a quello delle sette. Regole e codici molto stretti, un senso di appartenenza soffocante e punitivo. Se esci paghi un prezzo”.
Anche l’anoressia è un po’ una setta: c’è lo scambio di informazioni social, il linguaggio in codice, il pro-ana movement…
“Per le ragazze il legame tra anoressia e disforia è piuttosto stretto. Spesso sono disturbi compresenti, comorbidità, ma c’è anche questo aspetto di setta che dicevamo”.
In fondo anoressia e disforia nelle ragazze raccontano la stessa storia: il disagio del corpo, l’insopportabilità del diventare donne.
“C’è anche il fatto che sui social le ragazze si misurano con modelli di femminilità irraggiungibili. Il ritorno degli stereotipi sessisti oggi è molto violento. Riuscirò mai a diventare una vera donna? Sono abbastanza carina, abbastanza magra, abbastanza sexy per esserlo e per piacere o è meglio che mi rassegni a essere un maschio?”.
Credi che Niki sia lesbica?
“Ovviamente me lo sono chiesto. Anzi, me lo chiede lei: secondo te sono lesbica? Tante ragazze con diagnosi di disforia lo sono, nella setta c’è molta omofobia. Nel caso suo non saprei che dire, vere e proprie storie non ne ha ancora avute. Ma la cosa stramba è che lo chieda a me: sono lesbica? Non hanno le idee chiare sul sesso. Come se non ci fosse il corpo che con il suo assetto ormonale spinge naturalmente e furiosamente da una parte o dall’altra o anche da tutt’e due. Non dovresti avere bisogno di chiedere. Dovrebbe fare tutto il desiderio. Qui invece viene prima l’etichetta. C’è il bisogno di etichettare tutto, è tutto teorico e non fisico. Anche essere maschio o femmina diventa una libera performance. Sei tu che decidi, il corpo poi lo sistemi sulla base della scelta, il corpo da solo conta poco”.
Perché questa propaganda martellante? Ti sei fatta un’idea? Ormai anche i pediatri di base hanno assunto il gergo e parlano di “sesso assegnato alla nascita”. Chi spinge? Basta il business a spiegare tutto?
“Il business è tanto. A parte Big Pharma, anche l’indotto è molto fiorente, dai chirurghi che ti rimodellano il viso ai logopedisti che ti insegnano come cambiare il timbro di voce. Un mercato quotatissimo anche in Borsa. A tutto questo dai il nome di diritti, ed è fatta. Ma il vero bandolo della matassa, se ce n’è uno, non saprei. Si parla di transumanesimo, mentre lo dici ti senti un po’ complottista e terrapiattista. Ma una chiave ci deve pure essere”.