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Generi

Perché i maschi sono in crisi

Andrea Graziosi

Denatalità, invecchiamento, immigrazione scolpiscono la nuova modernità in cui viviamo. Ma il drastico mutamento del rapporto tra i sessi che durava da millenni è ancora più rilevante. E in politica spiega anche l’ondata reazionaria e nazionalista nelle elezioni degli ultimi anni. Un'indagine

Nel 2016 Trump ottenne la presidenza anche grazie a un vantaggio di 24 punti tra gli uomini, che saliva a 30 tra quelli bianchi, il più grande divario di genere in mezzo secolo di exit poll. In quello stesso anno il voto maschile garantì il successo della Brexit, nei sondaggi svedesi una percentuale di uomini doppia rispetto a quella delle donne sosteneva l’estrema destra, e la situazione era simile in Germania est o in Corea del sud. Quattro anni dopo il vantaggio di Trump cominciò a manifestarsi anche tra afroamericani e “latini”, e tra gli uomini privi di istruzione superiore esso era ancora più grande: già nel 2016, per esempio, i bianchi con al massimo un diploma avevano votato per Trump il 35 per cento in più che per la Clinton, mentre tra i votanti con un college degree la distanza si annullava. Nelle elezioni di midterm del 2022, poi, il 66 per cento dei lavoratori bianchi votò repubblicano e solo il 32 per cento per i democratici, e le presidenziali del prossimo autunno peggioreranno forse le cose.
 

Si tratta anche del riflesso sulla politica americana della disintegrazione di un mondo basato su ruoli sessuali che confinavano la donna in una posizione subordinata, una disintegrazione che rappresenta la più grande rivoluzione di una storia umana che pure ha vissuto negli ultimi duecento anni cambiamenti straordinari. È su questi ultimi che si è di regola appuntata l’attenzione degli studiosi. Penso a modernizzazione, urbanizzazione e fine del mondo contadino, esplosione demografica e suo rapido rovesciamento, o alla straordinaria e variegata ondata di costruzioni statali che ci ha regalato anche (ma certo non solo) i nostri regimi liberaldemocratici. Ad essi si sono aggiunti negli ultimi decenni i grandi mutamenti che stanno scolpendo la nuova modernità in cui viviamo (che chiamerò per comodità il “Moderno maturo”), come la denatalità, l’invecchiamento e un’immigrazione che pone fine a un’omogeneità etnica europea costruita anche con deportazioni e stermini.
 

Sono fenomeni che alimentano nei paesi in cui il Moderno maturo si è affermato un bacino “reazionario” diverso da quello di una volta – che si coagulava attorno a ceti privilegiati – perché composto da anziani con poco futuro e spesso soli, nonché da strati frustrati e emarginati dalla modernità, che non difendono privilegi ma reagiscono a un futuro che sembra cupo. Ma il velocissimo, drastico mutamento del rapporto tra i sessi che durava da millenni è un fenomeno ancora più rilevante perché tocca tutti. È un mutamento che pone fine a un’evidente ingiustizia ma che proprio per questo, nella parte del mondo dove è più avanzato, tocca direttamente, peggiorandolo, lo status di una metà della popolazione fino a pochissimo tempo fa privilegiata. Mio padre, uno scienziato comunista che sosteneva quel mutamento ma non era privo di ironia, già un paio di decenni fa scherzava sul suo “sfortunato destino”: sono nato quando tutti gli uomini, anche i più umili, avevano tre serve, la madre, la moglie e la figlia, e invecchio in un mondo dove un professore emerito benestante può al massimo contare su una signora delle pulizie a ore. La sua osservazione era acuta anche perché coglieva il fatto che i più colpiti dalla liberazione delle sottomesse erano gli strati maschili più poveri, che dall’essere uomini traevano maggior conforto e vantaggi. Questa liberazione provoca quindi sentimenti che spingono su posizioni reazionarie, motivate anche dalla difesa del privilegio, una buona parte degli uomini, specie quelli con poca istruzione, dei paesi avanzati.
 

Purtroppo i dati italiani a questo proposito non sono facilmente reperibili e meriterebbero per questo un’indagine sistematica. Uso quindi soprattutto quelli di studi americani, come Of Boys and Men di Richard Reeves o The End of Men di Hanna Rosin, entrambi molto discussi ma che fanno vedere con chiarezza fenomeni importanti e di grandissimo interesse.
 

La prima cosa che balza agli occhi, ed è confermata sia da altri studi che da quello che succede in Italia, è che la modifica dei rapporti tra i sessi è accompagnata e moltiplicata dalla rapidissima emersione di un gender gap a favore delle donne nel campo dell’istruzione. Nel 1972, quando negli Stati Uniti fu approvata la Title IX law che promuoveva la parità nell’istruzione superiore, gli uomini prendevano il 56,5 per cento dei college degree.
 

Nel 1982 il gap era già chiuso e nel 2019 la situazione si era ribaltata, con le donne al 58,5 per cento. Si tratta di un divario maggiore di quello di classe o di “razza”, approfondito dai migliori voti conseguiti dalle donne. Sempre negli Stati Uniti, nel 2009 il gruppo più in basso del Grade Point Average, che influisce sull’accesso al College, era composto da un 64 per cento di ragazzi e un 36 per cento di ragazze, un dato che si ribaltava a favore delle seconde, 34 a 66 per cento, nel gruppo con la media più elevata. Pare le cose andassero così anche mezzo secolo fa, ma allora buona parte delle ragazze non proseguiva gli studi e quindi non c’era bisogno delle pratiche di “azione positiva al contrario” cui ricorrono oggi informalmente buona parte degli atenei americani per evitare di diventare dei pink campus. Il fenomeno è particolarmente acuto nei college di élite e nelle ammissioni a master e dottorati, che sono più selettive e dove quindi la preponderanza femminile sarebbe altrimenti ancora maggiore.
 

Tra chi non si iscrive al college, non riesce a finirlo, o non riesce a prendere nemmeno un diploma delle superiori, gli uomini sono invece più delle donne. Sono dati che trovano riscontro in tutti i paesi del Moderno maturo. Dietro gli ottimi risultati conseguiti dalla Finlandia nei test PISA c’è per esempio un 20 per cento di donne e un 9 per cento di uomini che ottengono il voto più alto, e anche qui la situazione si ribalta nella fascia più bassa dove prevalgono i secondi. In Corea del Sud, nel 2021, aveva un titolo di istruzione superiore il 76 per cento delle donne e il 65 per cento dei maschi tra i 25 e i 34 anni, e nei paesi OECD la situazione era simile, con rispettivamente poco più del 50 e del 40 per cento.
 

Come ho già scritto e testimoniano i dati di Alma Laurea, una forte divaricazione tra studenti e studentesse si verifica anche in Italia dove, tranne che in poche discipline, le donne studiano di più e meglio degli uomini. Nel 2021 esse rappresentavano quasi il 60 per cento dei laureati e riportavano di regola i voti migliori, un fenomeno anticipato da quanto accade alle superiori. Tra quanti saranno tagliati fuori dai redditi stabili e relativamente più elevati garantiti dall’istruzione superiore prevalgono invece i maschi, solo alcuni dei quali trovano poi successo negli affari, nella musica, nello sport ecc. Resta però il fatto che le percentuali degli uomini che non posseggono le qualità richieste dall’istruzione moderna sono rilevanti.
 

Nessuno è finora riuscito a spiegare il fenomeno in maniera soddisfacente. È stata fatta l’ipotesi di più lento sviluppo cerebrale e psicologico, una causa forse vera ma non sufficiente. Ed è stato sottolineato il ruolo del testosterone, il fattore naturale che potenzia l’aggressività, la predisposizione al rischio e l’appetito sessuale maschili (ricordiamo che gli uomini commettono il 95 per cento degli omicidi e la stragrande maggioranza degli atti di violenza che accadono nel mondo). Tra alcuni studenti maschi dei college si è diffusa anche l’idea che “le donne siano più intelligenti” oltre che “molto più motivate, indipendenti, tenaci e capaci di vivere nel futuro” di giovani che tendono a vivere nel presente.
 

Ma forse la spiegazione sta nel fatto che il Moderno maturo basa la mobilità sociale su istruzione, educazione e autocontrollo: tranne che per pochissimi grandi ricchi, istruzione e buone maniere predicono il futuro status socieconomico dei giovani più delle condizioni delle famiglie da cui provengono. Ciò spinge automaticamente verso la marginalizzazione una parte rilevante dei giovani uomini, il cui tipo di capacità (energia, forza e anche aggressività) questa modernità non sa come incanalare e usare. Il Moderno maturo sarebbe insomma in media una società più adatta alle donne di quelle che lo hanno preceduto, così come le donne sembrano più adatte ad esso, un fenomeno che alcuni acuti osservatori avevano già cominciato ad osservare ragionando nel XIX secolo sulla vita urbana rispetto a quella rurale.
 

Naturalmente si parla di gruppi e, appunto, di medie, e ci sono gruppi maschili che mantengono forti posizioni di potere e controllo (come non ricordare a proposito gli studi di David Reich, secondo cui il Dna antico degli indoeuropei si concentra in “ammassi stellari” con un unico antenato maschio, ammassi che testimoniano dello straordinario impatto sulle generazioni successive di pochi individui che controllavano buona parte della riproduzione, un dato confermato dalla straordinaria numerosità della discendenza di Genghis Khan e che richiama gli studi dei naturalisti sulle bande di alcuni primati?).
 

Ma sembra certo che rilevanti gruppi maschili hanno a che fare con problemi che è ragionevole definire “strutturali” perché dipendono dalla nuova struttura della nostra società, problemi che sono emersi con velocità sorprendente, a sua volta legata alla velocità della modernizzazione. Nel 1955, nel suo discorso all’apertura dell’anno accademico dello Smith, un college femminile di élite, Adlai Stevenson, lo sfortunato candidato democratico alla presidenza, ricordava alle giovani laureande il loro ruolo cruciale nel “tenere in piedi” i loro mariti, riempendo di senso la loro vita. Tre anni dopo Arthur Schlesinger Jr già parlava di The Crisis of American Masculinity, criticando la supremazia maschile, e nel 1971 la femminista Gloria Steinem, che nel 1955 aveva ascoltato da studentessa il discorso di Stevenson, tenne lei la prolusione allo Smith, parlando di Dio come di una donna, sottolineando il significato politico dell’orgasmo femminile e definendo il matrimonio un’istituzione disegnata “per la soggiogazione della donna” (cosa peraltro denunciata, perché largamente evidente, dalle prime femministe e da John Stuart Mill più di un secolo prima e in seguito ripetuta per decenni dal progressismo internazionale).
 

In 16 anni, almeno a sinistra, il discorso pubblico si era quindi ribaltato come stava succedendo meno radicalmente e con qualche anno di ritardo in Italia. La realtà ci mise un po’ di più, ma già nel 1999 Susan Faludi registrava la netta perdita di status degli uomini (ma sarebbe stato meglio dire di una parte degli uomini) e nel 2012 Hanna Rosin avrebbe proclamato che “il periodo lungo 200.000 anni in cui gli uomini hanno dominato è giunto alla fine”. In effetti se ancora negli anni Settanta, il decennio della grande svolta, la tipica Smith graduate si sposava entro un anno dalla laurea, 50 anni dopo solo la metà di esse è sposata a 35 anni.
 

La velocità con cui ciò è accaduto è di per sé un fattore potente di cambiamento, e potenzialmente di conflitto, soprattutto se ricordiamo che quegli stessi decenni sono gli anni del grande invecchiamento di società i cui abitanti hanno conquistato circa 20 anni di vita in più. Ciò però vuol dire che nel mondo convivono oggi generazioni ciascuna delle quali, malgrado adattamenti ed eccezioni, vive nel tempo in cui si è formata. Se per esempio ancora alla fine degli anni 90 la grande maggioranza degli italiani di più di 45 anni leggeva e scriveva con difficoltà (fino alla riforma del 1963 quasi l’80 per cento smetteva di studiare dopo la licenza elementare), vi sono oggi milioni di persone formatisi in un’era definita da ruoli sessuali tradizionali e, come recita il Talmud, vediamo come siamo, non come è. Viviamo dunque in una società fatta a strati e composta di mondi e tempi diversi, inclusi quelli degli immigrati, mondi che certo evolvono e comunicano tra loro, ma in cui il peso del passato c’è, conta e va capito. Vi sono quindi molti difensori di un vecchio ordine, anche tra le donne, e ragazzi che ne sono a conoscenza anche perché lo vivono. Allo stesso tempo un mondo nuovo si va disegnando negli strati più giovani, che anticipano il futuro in cui saranno maggioranza.
 

Lo fanno anche sperimentando un gender gap di tipo diverso. Torniamo ai dati americani. In un contesto segnato dopo il 1979 da un aumento del divario tra i salari operai medi e i proventi del 10 per cento più agiato della popolazione (i primi sono passati dal 54 al 42 per cento dei secondi, un dato fortemente influenzato dal calo dei salari degli uomini che hanno solo un diploma), i redditi femminili sono cresciuti del 25 per cento. In quello stesso 1979 moltissime donne uscivano dal mercato del lavoro verso i 30 anni, per via dei figli: la loro carriera si spezzava e anche quando e se tornavano al lavoro i loro redditi restavano inferiori a quelli maschili. Nel 2019 le curve dei salari maschili e femminili erano quasi identiche, con una molto più piccola concentrazione dell’impiego femminile nei salari più bassi tra i 20 e 30 anni. Per quelle che restano al lavoro l’uguaglianza è ormai a portata di mano, e peraltro già raggiunta negli anni Novanta rispetto agli uomini afroamericani. Si è parlato per questo di 50 anni segnati da una great gender convergence e se le donne guadagnano ancora l’82 per cento della media maschile (rispetto al 63 per cento nel 1979), la causa sta nella nascita dei figli che ha conseguenze negative dal punto di vista lavorativo. Tra chi non ha figli il gap non esiste, e senza interruzioni di carriera si guadagna in maniera uguale. Ma ciò vuol dire che nel nostro “modo di produzione” è radicato un potente incentivo a non fare figli, che tende a generare problemi giganteschi in un assai prossimo futuro, un fenomeno su cui torno nelle conclusioni.
 

Sempre nel 2019 le donne erano il 47 per cento della forza-lavoro e la crescita più vistosa si era verificata tra quelle sposate con figli, saltate dai pochi punti percentuali del 1970 al 75 per cento del totale. Senza di loro la crescita dell’economia statunitense sarebbe stata di gran lunga inferiore: nel 2015 il Council of Economic Advisers ha sostenuto che tutti gli aumenti di reddito sperimentati dalle classi medie dal 1970 in poi sono dovuti alla crescita di guadagni femminili che, specie nelle famiglie coi redditi più bassi, avevano compensato le perdite dei maschi (significativamente, l’eccezione era rappresentata dal quintile coi redditi più alti). Tre donne su 10, il doppio che nel 1981, guadagnano oggi più dei loro mariti e le donne sono il principale sostegno del 41 per cento delle famiglie americane. Si tratta spesso, ma non solo, di madri single che, specie nei quartieri poveri, vedono negli uomini un’altra persona da sfamare e accudire.
 

L’incrocio della linea di “classe” (meglio: di reddito e istruzione) con quelle di genere, colore e cultura (intesa anche come comportamenti) – linee che talvolta si intersecano e contraddicono ma più spesso si rafforzano l’un l’altra, approfondendo le faglie – ha prodotto altri fenomeni di grande interesse. Essi ricordano, in qualche modo, quelli che si verificavano nelle aree plurilingue dell’Europa centro-orientale (ma naturalmente le società “plurali” hanno avuto e hanno confini ben più vasti, dal medio oriente all’Asia meridionale), dove a produrre effetti simili erano lingua, religione e nazionalità.
 

Le giovani afroamericane rappresentano la nota positiva: esse prendono un diploma più spesso dei loro colleghi maschi, vanno di più al college e nella fascia di età tra i 25 e i 29 anni detengono più titoli post-graduate dei maschi bianchi. Le donne nere sono però andate peggio delle bianche, le vere vincenti di questi decenni: nel 1979 le prime guadagnavano quasi come le seconde, oggi il 21 per cento in meno. Ma se i redditi dei giovani uomini neri aumentano con l’età molto più lentamente di quelli dei loro pari bianchi, le ragazze nere hanno ora tassi di mobilità ascendente inter-generazionale simili a quelli delle bianche. Più in generale, il gender gap è tra gli afroamericani ormai decisamente favorevole alle donne, e questo anche senza tener conto della catastrofe che si è verificata tra i maschi neri delle famiglie disagiate. Tra questi ultimi il 25 per cento di quelli nati negli anni Settanta era stato in prigione almeno una volta prima di aver raggiunto i 35 anni, più del doppio di quanti non si fossero sposati. 
Non sorprendentemente, perciò, metà delle donne nere che allevano un figlio lo fanno senza un marito o un convivente, un dato molto più alto di quello di bianche e latine: rispetto alle bianche, per esempio, le madri nere hanno tre volte più probabilità (il 52 rispetto al 16 per cento) di essere genitrici sole e quasi la metà di vivere con uno sposo (41 e 78 per cento).
 

Arriviamo così alla segmentazione di comportamenti culturali che disegnano un panorama talvolta sorprendente. Alla moda della hook-up culture, e quindi del sesso facile tra i giovani dei ceti superiori o in ascesa sociale, corrisponde un aumento inaspettato delle percentuali dei giovani che fanno sempre meno sesso e lo fanno più tardi, specie, ma non solo, nei ceti bassi e medio-bassi, un fenomeno presente anche in Italia malgrado quel che ci si aspetterebbe.
 

Il dato che fa più pensare è però quello relativo ai matrimoni: in America, dove ancora nel 1971 solo l’11 per cento delle nascite avveniva fuori da essi, si è giunti a un 40 per cento che varia tra il 70 per cento delle nere e il 28 per cento delle bianche. In Italia si è passati dal 3 per cento del 1964 a più del 30 per cento e vi sono grandi paesi come il Messico dove si supera il 60-70 per cento. La maternità non coincide quindi più col matrimonio e, significativamente, il crollo più vistoso è avvenuto nelle classi inferiori, unendo alla differenza di genere quella sociale e rafforzando la seconda attraverso la prima, come dimostra quanto è avvenuto in America. Qui il tasso dei matrimoni tra le persone istruite e relativamente agiate è oggi poco più basso di quello degli anni Settanta, ma è diminuito del 20 per cento tra chi possiede solo un diploma, accrescendo le differenze economiche: i “laureati”, che guadagnano di più, vivono più spesso in famiglie che hanno due redditi, mentre molti diplomati, che guadagnano di meno, restano più frequentemente single e ne hanno a disposizione uno solo. La tipologia della famiglia è diventata così un’importante faglia della stratificazione sociale americana.
 

Il fenomeno ha riflessi importanti sul rapporto tra genitori e figli, incluso quello delle coppie divorziate (ricordiamo che negli Stati Uniti in due casi su tre sono le donne a chiedere il divorzio), le quali per ragioni simili sono relativamente più numerose in certe comunità e nelle fasce di reddito superiori della popolazione. Se infatti un divorziato ha dei diritti in merito alla custodia dei figli (custodia che i giudici non affidano più automaticamente alle madri), i genitori non sposati non ne hanno, a meno di un riconoscimento della paternità che non sempre avviene. Specie tra le fasce di reddito più basso, le madri sole sono quindi ancora le uniche detentrici della custodia e il 40 per cento dei padri privi di diploma vive separato dai figli, di contro al 7 per cento di quelli con un college degree.
 

L’essenza della grande rivoluzione sta quindi nel fatto che molti uomini, specie tra quelli dei ceti meno istruiti e meno agiati, hanno perso la loro posizione di sostegno della famiglia, di mariti e di padri: hanno cioè perso ruolo e potere laddove le donne hanno perso una posizione anche, benché non solo, sostanzialmente servile. In altre parole, almeno nelle società più moderne, il modello basato sulla dipendenza economica delle donne dagli uomini (che non era però vero nelle società contadine, dove le donne erano subordinate, ma lavoravano eccome) è stato spezzato dalla indipendenza economica femminile. Con esso è venuta meno la giustificazione discorsiva di uomini legittimati dal “provvedere per la propria famiglia”, un discorso che gli permetteva di pensare di esserci per i figli anche quando c’erano assai poco. È così bruscamente diminuito il senso di “utilità” di certi maschi, ma non è ancora emerso un nuovo modello di mascolinità più convincente e attrattivo.
 

Aumentano così gli uomini soli e gli uomini soli (che come sappiamo sono spesso anche più poveri e meno istruiti) hanno una salute peggiore, più alti tassi di disoccupazione e relazioni sociali più povere di quelli sposati. Già nel 2014 i giovani maschi tra i 18 e i 25 anni che vivevano coi genitori erano più di quelli sposati o che convivevano con un partner, un rapporto che si invertiva tra le donne della stessa età; e la percentuale degli uomini americani che dichiarano di non avere amici è salita dal 3 per cento del 1990 al 15 per cento nel 2021. È una crescita certo influenzata dall’invecchiamento, ma sembra che in generale, specie ma non solo dopo una certa età, gli uomini tendano a essere solitari (si può a proposito guardare un divertente ma triste sketch del Saturday Night Live).
 

C’è chi ha legato questa costellazione di fattori e un più generale senso di fallimento maschile alla vertiginosa crescita di quelle che sono state battezzate deaths of despair, cioè per droga o suicidio, i tre quarti delle cui vittime sono uomini e non solo negli Stati Uniti (del fenomeno si preoccupa per esempio oggi il Labour britannico). La correlazione non è provata: sappiamo del quasi monopolio maschile sulla violenza e tradizionalmente gli uomini si suicidano più delle donne in tutto il mondo. Ma questo gap è in crescita in tutti i paesi avanzati, tra i celibi americani le morti per droga sono raddoppiate tra il 2010 e il 2020 e si tratta comunque di fenomeni rilevanti, oltre che tristi, di cui purtroppo, come scrive Reeves, i democratici non amano discutere. Se Trump nel 2016 strumentalizzava quelle morti parlando di un American carnage (un termine criticato dai progressisti ma accolto dai ceti bianchi meno abbienti) nel 2018 le linee guida dell’American Psychological Association decretavano che “la mascolinità tradizionale – improntata alla competizione, al dominio, all’aggressività e allo stoicismo (evidentemente ritenuto un disvalore da estensori ignari del progresso rappresentato dalla Stoà) – è nel suo complesso dannosa”. Il riferimento, nemmeno troppo implicito, era al termine spregiativo “toxic masculinity”, nato qualche anno prima, poco usato fino al 2015 e poi esploso con Trump e il MeToo nel 2016-17. Una mascolinità basata anche sulla natura oltre che sulla cultura veniva così patologizzata rendendo i singoli responsabili, rifiutando di riconoscere “le basi biologiche delle differenze sessuali” e spingendo una parte considerevole degli uomini a destra.
 

Anche quando si cerca di evitare questo risultato, la debolezza dell’analisi – causata da una disattenzione, che sembra ancora più rilevante in Italia – sfocia in proposte deboli, per migliorare le quali occorrerebbero studi e dibattiti approfonditi. Reeves pensa per esempio a far entrare i ragazzi a scuola un anno più tardi delle ragazze, per ridurre il gap nella tempistica dello sviluppo. La soluzione non convince, anche perché tratta (e implicitamente stigmatizza) una categoria invece di guardare agli individui, e ci si chiede quale sarebbe semmai l’effetto di un ritorno mai obbligatorio e mai per tutti a classi separate, che alcuni studi indicano avere effetti positivi. Più ragionevoli sembrano la proposta di incentivare l’istruzione tecnica e professionale e quella di avere più insegnanti maschi alle elementari e alle medie, contraddetta tuttavia da una realtà che si muove velocemente in direzione opposta. Negli Stati Uniti gli insegnanti maschi, complessivamente in veloce diminuzione, erano nel 2021 l’11 per cento alle elementari, il 28 per cento alle scuole medie inferiori e il 40 per cento alle superiori (nei college, dove il peso del passato è più forte anche per ragioni di età, le donne erano invece il 47 per cento, e in aumento). In Italia la femminilizzazione del corpo è ancora più spinta: le donne sono il 96 per cento dei docenti di ruolo statali alle elementari, il 78 per cento alle medie inferiori e il 66 per cento a quelle superiori.
 

Il dato induce a ragionare anche sulle preferenze, e non solo sulle discriminazioni, che regolano la distribuzione dei sessi nelle occupazioni. In un passato recente, e anche molto recente, la discriminazione quando non l’esclusione era la regola. Ma oggi le preferenze contano e non si può identificare la sconfitta della discriminazione con l’obiettivo di raggiungere la parità assoluta tra persone che hanno inclinazioni diverse, anche ma non solo per cultura. La vicenda delle materie STEM (Science, technology, engineering and mathematics) è indicativa. Le donne ne sono state a lungo emarginate, la loro percentuale è oggi in crescita (negli Stati Uniti dal 10 per cento del 1980 al 25 per cento del 2019) ed è probabile che facendo leva su incentivi già oggi molto forti la si possa ancora migliorare.
 

Ma le preferenze legate al sesso esistono anche nel campo degli studi e del lavoro, e andrebbero rispettate a meno di evidenti segni di discriminazione, che non possono essere rappresentati solo da percentuali che presuppongono una uguaglianza che è giusto affermare come valore morale e politico, ma che non può equivalere a un’imposizione. È per esempio iniqua una distribuzione che vede le donne passate da meno del 40 a quasi l’80 per cento degli psicologi professionisti, come è accaduto negli Stati Uniti tra il 1980 e il 2021, ed è iniqua e quindi da combattere politicamente e moralmente la femminilizzazione del corpo docente delle scuole italiane? Sono esempi che sarebbe facile moltiplicare (per esempio, sempre negli Stati Uniti tra gli addetti ai servizi sociali gli uomini si sono dimezzati, passando dal 40 al 20 per cento) e che riguardano in prospettiva anche professioni di prestigio come avvocati e medici. In Italia per esempio, la maggioranza dei medici sotto i 55 anni sono donne, un dato che si ribalta nelle fasce più alte di età: è una sproporzione che va combattuta o, ancora, sono anche preferenze da rispettare?
 

Il problema resta quello di come conciliare la fine benvenuta della famiglia autoritaria e della subordinazione delle donne con una nuova organizzazione che riconosca un ruolo diverso da quello del passato anche agli uomini, e specie a quelli tra essi che non “amano” studiare. Ed è un problema che è urgente risolvere, almeno discorsivamente, se si vuole ostacolare la crescente radicalizzazione reazionaria delle società del Moderno maturo, anche perché la forte leadership femminile della destra europea lascia capire che, a paradossale conferma delle tendenze di cui abbiamo parlato, quegli uomini – e non solo loro – sono pronti a farsi guidare da donne forti e intelligenti, che hanno infranto la barriera di genere.
 

Il punto di partenza non può che essere discorsivo: le differenze e le differenti esigenze vanno riconosciute e occorre capire come affrontare le sofferenze, ricomprendendole in un programma propositivo, cosa non facile ma indispensabile nei confronti degli uomini come lo è per gli altri potenti “meccanismi reazionari” che funzionano all’interno di quelle società, dall’invecchiamento, alla solitudine, alla reazione a una diversificazione non gestita prodotta da un’immigrazione indispensabile, ecc. L’unico strumento è quello di una politica alta che sappia parlare a tutti, abbandonando le vecchie categorie e rifiutando di essere definita dal nemico, come succede a chi fa dell’“anti” la sua guida. Occorre piuttosto vedere il nuovo e elaborare risposte e strategie per esso. Il rischio è quello di essere altrimenti travolti in un “occidente” invecchiato e indebolito da una ondata reazionaria e nazionalista, delusa e arrabbiata, tipica di chi ha perso prestigio e potere, un’ondata che le elezioni degli ultimi 15 anni registrano con impressionante regolarità.
 

Sullo sfondo c’è il problema più grande: come conciliare la nuova struttura sociale e i nuovi “ruoli di genere” con la ripresa della natalità e almeno il rallentamento dell’invecchiamento e quindi dei suoi effetti? Si tratta evidentemente di uscire dal presente circolo vizioso per cui se si fanno figli diminuisce il reddito di chi li fa, se non li si fa alla fine cede quello di una collettività che va in crisi. L’impressione è che al di là di necessari e ragionevoli incentivi, si tratti sostanzialmente di un problema di mentalità. Se così fosse, gli aiuti materiali – indispensabili per rallentare la denatalità – servirebbero meno di quanto si speri a risolvere il problema, come l’esperienza sembra tra l’altro indicare. Ci sarebbe piuttosto bisogno di un grande riorientamento ideale che riconosca e ricompensi la natalità. Finisco rispondendo a una domanda postami dalla mia lettrice preferita: sì, la nuova modernità mi piace molto perché è più libera e più giusta, ma penso che se non riusciremo a renderla sostenibile, che vuol dire “produrre” in qualche modo il numero di figli necessari, non potremo evitare l’oscurità che già comincia ad avvolgerci.

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