La morte di Giulio Cesare

Magazine

La Realpolitik dell'assassinio

Siegmund Ginzberg

L'eliminazione mirata del leader nemico è una pratica antica quanto la guerra. E prima che militare è una questione politica. Dai romani, passando per Attila e fino alla recente morte del capo di Hamas Ismail Haniyeh: una rassegna

I romani stavano trattando con Attila quando passarono a un piano B: assassinarlo. Nell’estate del 449 una delegazione dell’Impero romano d’oriente aveva lasciato Costantinopoli, diretta alla regione del basso Danubio che era in mano degli unni. La delegazione era guidata da Massimino, alto funzionario imperiale. E accompagnata dallo storico Prisco. Dobbiamo a Prisco la narrazione di quegli avvenimenti. Nel contempo il principe scita Edicone, braccio destro di Attila, veniva ricevuto alla corte dell’imperatore.
 

L’eunuco Crisafio, l’uomo più potente a corte, di fatto il vero capo del governo, aveva fatto visitare a Edicone il palazzo. Questi era rimasto meravigliato dalla ricchezza e magnificenza. Poi Crisafio aveva invitato l’inviato di Attila a un banchetto a tu per tu. Gli aveva chiesto se era in grado di avvicinare Attila. Alla risposta affermativa, gli aveva detto che sarebbe diventato tanto ricco da permettersi lussi analoghi se fosse riuscito a uccidere il suo capo. Gli aveva precisato che la proposta aveva il consenso dell’imperatore Teodosio II. Edicone aveva accettato. Ma una volta di ritorno Edicone s’era preso paura e aveva spifferato tutto ad Attila. Montato su tutte le furie, Attila aveva scritto una lettera minacciosa a Teodosio, chiamandolo addirittura suo “servo senza valore”, e pretendendo l’estradizione di Crisafio. Ma il fallito attentato non aveva avuto ulteriori conseguenze. Già una volta in precedenza le orde di Attila erano state fermate dalle possenti mura di Costantinopoli.
 

L’uccisione del capo dei nemici è una scelta politica, prima ancora che militare. “Continuazione della politica con altri mezzi”, direbbe von Clausewitz. Va al di là della “punizione”. Può servire a dissuadere, o allontanare, o dirigere altrove la guerra. O può inasprirla, magari ritorcersi contro chi lo fa. Suscita riprovazione. Ma meno dei massacri indiscriminati, di popolazione e combattenti insieme. Il punto però non è questo. È se coalizza altri contro di te. In tal caso avresti ottenuto come risultato proprio quello che il nemico stava cercando di fare. Non sappiamo dove porterà l’uccisione del leader politico di Hamas, Ismail Haniyeh. Non a Doha dove risiedeva (solo perché era più difficile?). Ma in Iran, dove si era recato per assistere alla cerimonia di insediamento del nuovo presidente riformista, Masoud Pezeshkian (il quale aveva fatto subito sapere di non voler allargare il conflitto in corso, ma ha le mani legate dalla promessa di vendetta dei duri). Si spera che in Israele abbiano valutato bene i pro e i contro.
 

C’è una discussione tra gli studiosi su cosa i romani pensassero di conseguire facendo assassinare Attila. Consentono sul fatto che, fossero riusciti a farlo ammazzare, avrebbero probabilmente anticipato di quattro anni quel che successe quando Attila morì di morte naturale nel 453: la disgregazione del suo impero e l’arretramento delle orde di unni che avevamo devastato mezza Europa. I romani, che si sarebbero trovati in difficoltà a confrontarsi con una confederazione di tribù, riuscirono a gestire una tribù nemica per volta, con un mix di iniziative diplomatiche e militari. Attila non aveva uno stato vero e proprio. Il suo era un terrore mobile, nomade. Razziavano, massacravano, catturavano schiavi e ostaggi, poi si ritiravano per godersi la preda. Funzionava finché non si fossero messi a litigare gli uni con gli altri. La sua potenza si reggeva su una confederazione di tribù, unni e di altre etnie. Era pericoloso nella misura in cui riusciva a tenerle insieme col suo carisma. L’idea era che, mentre l’impero romano poteva mantenersi anche senza un imperatore all’altezza, gli unni invece no. Il massimo successo diplomatico, prima del fallito attentato, i romani l’avevano ottenuto convincendo gli akatziri, tribù che controllava le sponde settentrionali del Mar Nero, a non unirsi ad Attila. Allo stesso fine mantenevano intensi contatti segreti con altre etnie e tribù.
 

La crisi tra unni e Costantinopoli aveva avuto il suo apice nel 447, quando un forte terremoto aveva fatto crollare parte delle mura di Costantinopoli. Si era diffuso il panico in città. Parte della popolazione era emigrata, i monaci avevano preso in considerazione l’idea di trasferirsi a Gerusalemme, l’imperatore stesso pensava di fuggire. Ma le mura erano state riparate in tempo record. Erano arrivati gli unni, ma poi avevano dovuto ripiegare verso la Tracia. Pare che infuriasse tra le loro file anche una micidiale epidemia.
 

La minaccia unna era in cima alle preoccupazioni. Il governo a Costantinopoli era diviso sul da farsi. C’erano i falchi e le colombe. La cosa curiosa è che alla testa dei falchi c’era il magister militum Zeno Isauro (di un’etnia anatolica che avrebbe avuto notevole influenza a corte), mentre a favore di soluzione negoziate con Attila, compreso pagargli un tributo per rabbonirlo, erano Crisafio e lo stesso imperatore Teodosio. Proprio quelli che avrebbero architettato l’assassinio di Attila. Come dire: meglio ammazzarne uno, il capo, sia pure con metodi non proprio ortodossi, che rischiare una guerra su larga scala, dagli esiti imprevedibili. Non ci fu, come prevedibile, alcuna estradizione. Anche perché Attila aveva chiesto che gli fosse consegnato anche Zeno. Ma questo non era possibile, perché i bellicosi Isauri erano il nerbo delle forze armate. C’era anche una complicazione religiosa: lo scisma con i nestoriani. La cosa assodata è che la decisione di ammazzare Attila non fu improvvisata, un colpo di testa azzardato, dettato dalla disperazione. Ne avevano discusso alla corte di Costantinopoli soppesando i pro e i contro.
 

Gli era andata bene. Dopo il fallito attentato, Attila si era volto a occidente, in coalizione con ostrogoti e burgundi. Fu fermato da Ezio nella battaglia dei Campi catalaunici (vicino a Châlons-en-Champagne). Ezio, nato nell’attuale Bulgaria, non era solo un abile generale ma anche un diplomatico coi fiocchi. Era riuscito a portare dalla sua i visigoti di Teodorico, gli alani e persino una parte dei burgundi. Prima aveva negoziato ed era riuscito ad accordarsi anche con lo stesso Attila. Ma l’Impero romano d’occidente era agli sgoccioli. Ezio fu ucciso pochi anni dopo, durante un banchetto a palazzo, a Ravenna, di sua propria mano, dall’imperatore Valentiniano III. Pare che stessero litigando sulla situazione finanziaria. Era questione di lotta interna per il potere. L’anno dopo fu il turno di Valentiniano: fu assassinato da due ex guardie del corpo di Ezio. Fa impressione che quasi tutti gli assassinii mirati e i rapimenti avvengano in questo periodo a tavola, a tradimento, dopo un invito ad un’occasione culinaria.
 

La tarda antichità imperiale vede un intensificarsi della diplomazia dell’assassinio mirato. Roma ricorre con sempre maggiore frequenza a operazioni clandestine, tipo il rapimento o l’assassinio di personalità nemiche, piuttosto che al negoziato. Anche questa è, a bene vedere, un’alternativa alla guerra. In molti casi le dinamiche dell’operazione, dell’individuazione del bersaglio e dell’agguato, assomigliano come una goccia d’acqua, mutate ambientazione e costumi, a quelle rappresentate in serie televisive israeliane di grande successo, come Fauda e Teheran. Andare a vedere per credere
 

Ci sono studiosi che associano il cambiamento di stile, di “modulo diplomatico” a una crescente insicurezza alle frontiere. Roma aveva subito anche in precedenza rovesci militari tremendi, come quando nell’anno 9, sotto Augusto, le legioni di Varo erano state annientate dai germani, riuniti sotto il comando di Arminio, nella foresta di Teutoburgo. Ma i germani, sia pure vittoriosi, non minacciavano di invadere l’Impero. Nel quarto secolo invece le situazione era mutata. L’imperatore Valente era stato sconfitto e ucciso dai goti nella battaglia di Adrianopoli. Gli unni erano arrivati dalle steppe dell’Asia centrale nel basso corso del Danubio. Poco dopo i vandali avrebbero occupato le ricche province del Nordafrica. Soprattutto era in ascesa la Persia, che era padrona del territorio che comprende l’odierno Iran e l’odierno Iraq. L’inoffensivo impero degli Arsacidi era stato rovesciato dalla famiglia, anch’essa iraniana, dei Sassanidi. Ed era diventato una superpotenza militare pari a Roma.
 

I parti erano la spina costante nel fianco dell’Impero romano. Le campagne contro i parti e i tentativi di invasione erano falliti uno dopo l’altro. Si ritiene che una delle ragioni per cui Costantino spostò la capitale sul Bosforo sia il poter meglio controllare la tensione al confine con la Persia. Giuliano ci aveva provato, ma gli era andata malissimo. Con il conflitto tra impero romano e Persia ha a che fare con l’assassinio del re dei lazi, Gubaze, nel 555. La Lazica, nel Caucaso, corrispondente all’odierna Georgia, era una cerniera tra i due imperi. Gubaze prima stava coi persiani. Poi era passato ai romani. Non è chiaro se l’uccisione fosse stata autorizzata da Costantinopoli, o fosse un’iniziativa personale del governatore romano dell’Armenia. Un’eccezione alla regola è che non ci siano pervenute notizie di tentativi di rapire o di assassinare i re della Persia sassanide. Potrebbe dipendere dal fatto che erano protetti da una rete formidabile di guardie del corpo. O dal fatto che i romani sapevano bene che c’erano procedure ben definite per la successione, e che quindi l’eliminazione del re non avrebbe destabilizzato il regno. La Persia era uno stato strutturato, anzi una superpotenza, non un’accozzaglia di bande, di movimenti e di “partiti di Dio”, o una confederazione instabile di tribù, a cui impedire di coagularsi.
 

Solo diversi decenni dopo il mio tour of duty da inviato nell’Iran della rivoluzione di Khomeini ero riuscito a visitare le meravigliose rovine di Persepoli. Ma più ancora mi avevano impressionato i bassorilievi scolpiti nella roccia nella vicina Naqsh-e Rostam, a marcare le tombe di quattro loro re. In uno si vede un personaggio abbigliato in stile romano, che si prostra sconfitto davanti a un sovrano persiano a cavallo. È l’imperatore Valeriano. L’Iran è sempre stato un osso duro. Solo gli arabi sarebbero riusciti a conquistarlo, portandogli l’islam. E poi anche i mongoli di Gengis Khan, che però avevano conquistato addirittura anche la Cina.
 

L’antichista e specialista delle frontiere dell’impero romano A. D. Lee elenca decine di episodi di assassinio mirato di leader nemici negli anni da metà 300 a metà 400. Un metodo che un volta era considerato “contrario ai valori romani” (il Senato repubblicano aveva sdegnosamente rifiutato la proposta di un subordinato di uccidere Pirro, che pure aveva invaso l’Italia) era divenuto non solo permissibile ma diffuso. C’è un lunghissimo elenco, concentrato in pochi decenni, di tranelli, tentativi di assassinio o di rapimento a danni di leader o capitribù stranieri. Compresi quelli con cui erano in corso trattative. Alcuni riusciti, altri finiti male. Disastroso, ad esempio, era stato, nel 374, l’assassinio del capo della tribù germanica dei quadi, Gabinio, nel medio corso del Danubio. Gabinio si era rivolto al locale comandante militare romano, Marcellino, per lamentare violazioni territoriali. Marcellino l’aveva invitato a cena per discuterne, e aveva dato ordine di ucciderlo. Ancora una volta galeotto fu  un festino gastronomico. I quadi insorsero devastando la Pannonia. Fu l’unico caso in cui un imperatore romano, Valentiniano, avrebbe dissociato le proprie responsabilità da quelle del suo comandante sul campo. Ma non risulta che l’abbia punito.
 

Di regola all’assassinio mirato si faceva ricorso per togliere di mezzo leader che erano stati capaci di trasformare federazioni di etnie e tribù instabili in confederazioni allargate, che rappresentavano una minaccia assai più grave e immanente. Quindi pericolosi non in sé ma per quanto avrebbero potuto raccogliere attorno a sé. Assassinii e diplomazia andavano di pari passo. Erano complementari all’altra faccia della diplomazia: l’esibizione ostentata, specie nel ricevere ambasciatori esteri, di fasti cerimoniali e di potenza militare, grandi parate. Non era più un espediente momentaneo, ma una forma permanente di realpolitik, diplomatica, uno “stile politico” nuovo. La diplomazia dell’assassinio riscuoteva ampio consenso nei gruppi dirigenti.
 

In verità lo facevano anche prima. Con un’operazione che combinava intelligence e diplomazia erano riusciti a togliere finalmente di mezzo il loro incubo da sempre, Annibale, ormai in fuga e in esilio ramingo, dopo la sconfitta di Zama, da un regno d’oriente ad un altro. Ecco come l’episodio ci viene raccontato nel Paragrafo 12, Libro 23 del De excellentibus ducibus exterarum di Cornelio Nepote: “Avvenne per caso che i rappresentanti di Prusia in Roma cenassero da Tito Quinzio Flaminino ex console; e che lì, fatta menzione di Annibale, uno di essi dicesse che lui si trovava nel regno di Prusia [in Bitinia, attuale Turchia]. Il giorno dopo Flaminino lo riferì al senato. I senatori, i quali ritenevano che non sarebbero mai stati liberi da insidie finché Annibale era vivo, mandarono ambasciatori in Bitinia, fra i quali Flaminino, che chiedessero al re che non tenesse con sé il loro grande nemico e che lo consegnasse a loro. Prusia non osò dire di no; però rifiutò questo: che non chiedessero che fosse fatto da lui ciò che era contrario alla legge dell’ospitalità; lo prendessero loro stessi, se potevano; essi avrebbero facilmente trovato il luogo in cui era. Annibale, infatti, si tratteneva in una sola località, in una fortezza che gli era stata data dal re in dono, e l’aveva costruita in modo che in ogni parte dell’edificio avesse uscite, evidentemente temendo che avvenisse di fatto ciò che accadde. Essendo arrivati gli ambasciatori dei romani là, e avendo già circondato la sua casa con una moltitudine, un ragazzo guardando dalla porta disse ad Annibale che più uomini del solito apparivano armati. Questi gli ordinò che facesse il giro di tutte le porte della fortezza e che gli riferisse rapidamente se fosse assediato allo stesso modo da ogni parte. Poiché lo schiavo (gli) aveva riferito in fretta che cosa ci fosse, e gli aveva rivelato che tutte le uscite erano state occupate, comprese che ciò non era avvenuto per caso, ma che lui era ricercato e che la vita a lui non dovesse essere conservata più a lungo. Per non perderla all’arbitrio altrui, memore delle passate virtù, trangugiò un veleno, che sempre era solito avere con sé”. Annibale aveva sempre disposto di un’intelligence formidabile. Quella volta non gli bastò.

Di più su questi argomenti: