Benedetta Pilato (Ansa)

Malattia americana

Su questa storia della società della performance c'è solo un grande equivoco

Ester Viola

Lavoro piccino e carino e straordinarie gratificazioni insieme non si sono mai visti. Eppure, tutti oggi si sentono in burnout e vittime della società della performance

Le malattie ce le abbiamo tutte, specialmente quelle americane. La riflessione-venuta-dalla-luna di oggi vede come protagonista la giovanissima atleta Pilato, nuotatrice. Le è mancato il podio per un centesimo qualche giorno fa, il curriculum dice che ha 19 anni e molta strada davanti. Dopo la gara si era autoproclamata contenta lo stesso – piange e sorride, è bellissima, le esce la speranza dagli occhi. È il mestiere degli sportivi, son caratteri d’acciaio, ne vorrei un po’ anch’io. Insomma succede che questo bel fatterello agonistico venga ripreso qualche giorno dopo, impastato ad usum e fatto diventare una bandierina contro la società della performance. Contro la società della performance? Ma chi? Una nuotatrice qualificata alle Olimpiadi? Una che la performance se l’è scelta al posto della giovinezza? Una che probabilmente lavora (nuota) otto ore al giorno da quando aveva otto anni e che la prossima volta vuole la medaglia?

È il nuovo MeToo dei social. Si moltiplicano i racconti di disperazione da eccesso di prestazione, vite bruciate dal burnout. Il mondo online si divide come sempre in chi dice “puveriell” e gli altri, i prosaici: “Che palle”. Ero distrutto, non vivevo più, il lavoro mi stava mangiando vivo, il mio corpo si ribellava. Questi sono i diari segreti che trovi sull’internet delle esperienze condivise, i forum dove si va a pigolare. Capisco che si debba aver rispetto per le stanchezze di tutti, ma qua la soglia del lamento è arrivata a fondali talmente bassi che ora burnout è pure se ricevi sedici email al giorno. Ho letto molta letteratura sul punto. Solo dottrina, certo, perché non c’è riconoscimento né scientifico né giudiziario delle malattie da eccesso di performance.

Ecco quindi una sintesi solo letteraria (tutto quel che abbiamo):
Il soggetto vive permanentemente in un sentimento di mancanza e di colpa. Poiché, da ultimo, fa concorrenza a se stesso, egli cerca di superare se stesso, finché non crolla. Subisce un collasso psichico, chiamato burnout. Il soggetto di prestazione si realizza fin nella morte. Autorealizzazione e autodistruzione, qui, coincidono. (Byung-Chul Han “La società della stanchezza”, nottetempo). 

Bello, coerano, ma inutile. Prendiamo invece l’abbecedario: Carriera è quando ti piace il tuo sé realizzato in certe condizioni professionali. Normalmente – ma è esperienza comune, fatto notorio – si fatica molto. Va distinto da:
Sfruttamento, e da lì te ne vai, te ne devi andare non per burnout, ma perché le ore di lavoro non sono proporzionate allo stipendio. A meno che non sia:
Importante gavetta. Cioè ti sta insegnando a lavorare qualcuno che è un talento eccezionale. Anche in quel caso, se interessa A), si rimane con in testa un piano preciso e molta resistenza alla fatica. Dopodiché:
Partita Iva. Sono le Olimpiadi private di molte persone che conosco. È una specialità, la Partita Iva, che richiede sacrifici notevoli. Se impari molto bene ad amministrare gli affari tuoi, è meglio del lavoro dipendente. Certo, ti deve piacere.

Su questa storia della società della performance americana c’è solo un grande equivoco. Che si riassume più o meno così. Lavoro piccino e carino e straordinarie gratificazioni: insieme non si sono mai visti. E proprio gli americani – mi pare – avevano il brevetto di questo fatto.

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