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Fenomenologia del turismo (e dell'overtourism): numeri, problemi, prospettive

Antonio Preiti

Il turismo ci infastidisce, non sappiamo come gestirlo e l'impressione è che di anno in anno aumenti sempre di più, tanto che abbiamo sentito il bisogno di creare una nuova parola, in neolingua, per identificare quel fenomeno che ha sostituito il servizio con il mito dell'autenticità. Ricordate: non c'è posto nel mondo dove non ci sia stato ancora nessuno

Follia direte voi; follia, dico io: cercare oggi, nel secolo XXI, un posto sconosciuto, dove non sia stato ancora nessuno. Eppure, follia che Lawrence Osborne, autore e giornalista del New Yorker, ha affrontato, cercando un luogo che non ha ancora visto il suo primo turista. Ha esaminato tutti i posti “inviolati”, e alla fine è arrivato alla conclusione che sì, c’è un posto sulla terra dove probabilmente non si è mai visto un turista: è nella Papua Nuova Guinea, tra l’Indonesia e l’Australia, se così si può dire di un’isola, e ha deciso di andarci. Sappiamo che lo spirito di ricercare l’incontaminato è anglosassone (da Margaret Mead in poi) e quello della cultura è tedesco (da Goethe in giù) e sappiamo che l’esplorazione è un’avventura culturale. Così il nostro Lawrence ha pensato di arrivare in Papua scalando, se così si può dire, fisicamente e intellettualmente, dai luoghi più artificiali fino a dove l’artificio è minore, o non (ancora) dominante.
 

Non poteva che cominciare da Dubai, invenzione artificiosa allo stato puro, espressione di una volontà di potenza: costruisco quello che la natura (e la storia) non mi hanno dato; per proseguire con l’India, la cui cultura è stata conquistata e incorporata dagli stili di vita occidentali (c’è bisogno dei Beatles o bastano i corsi di yoga dappertutto?); prosegue per la Thailandia che ha “industrializzato” le sue attitudini (cura del corpo, sanità, estetica); si ferma in Indonesia a Bali, destinazione misteriosa e ancestrale, dove però gli “artigiani” sono spesso impiegati pubblici, cioè figuranti. Finalmente arriva in Papua, qualche mese e 250 pagine dopo. E lì effettivamente, tra traversie e malintesi, scopre che…
 

Follia di un uomo, di un giornalista, di uno scrittore, direte voi. Follia comune, dico io, se solo cambiamo un po’ l’intensità e lo spirito calvinista di Osborne. Non siamo noi tutti contro il “turismo di massa”? Non siamo noi tutti alla ricerca dell’“autenticità”? Non cerchiamo noi tutti posti “non turistici”? Cossiga avrebbe detto: “Turisti sono sempre gli altri”. Ed eccoci alla follia vera: pensare che in una civiltà di massa, dove l’istruzione è di massa (per fortuna); la sanità è di massa (ancora per fortuna); i consumi sono di massa (ancora e ancora per fortuna), come fa il turismo a non essere “di massa”? Nel turismo la “grande trasformazione” è il passaggio da una domanda e offerta di pochi (pochi i viaggiatori, pochi gli alberghi) a una domanda e un’offerta di molti, moltissimi, se non di tutti: oltre la metà della popolazione in occidente fa vacanze e anche l’offerta si è dilatata all’infinito, basta mettere su una piattaforma il proprio appartamento e, d’emblée, si fa offerta turistica.
 

Quindi l’overtourism (la parola passepartout onnipresente sui media) è ineluttabile? Saremo sommersi, come dicono gli apocalittici, dai turisti (sempre gli altri, ovviamente) o abbiamo vie d’uscita? Vediamo prima di tutto la semantica di questo nuovo “verbo”: dire overtourism è gratificante (già pronunciarlo crea autostima); indefinibile (esattamente cos’è?); inagibile (se pur fosse vero, che si fa? si chiudono gli ingressi; si porta il ticket dalla furbata dei 5 euro ai 50 o ai 500 euro?). L’overtourism si manifesta quando sia residenti che visitatori percepiscono un afflusso eccessivo di turisti, al punto da compromettere la qualità della vita dei primi come dei secondi. Ma qual è il livello eccessivo? Non c’è un indicatore condiviso, anche perché dal punto di vista statistico l’impresa è improba: i raffronti oggettivi sono il numero dei turisti con la popolazione (intensità del turismo) e con il territorio (estensione del turismo), ma questi due indicatori variano di giorno a giorno, anzi di ora in ora; perciò, una qualunque media non significa nulla: si può calcolare la media ogni ora? Impresa improba, appunto.
 

Bastassero i parametri oggettivi, avremo difficoltà di calcolo, ma calcolare sarebbe tuttavia possibile; però ci sono anche i parametri soggettivi, sicché per una persona c’è overtourism quando non riesce a camminare a piedi e per un altro appena vede visi sconosciuti. Basta? Non basta, perché c’è anche una interpretazione, diciamo un bias da considerare: per qualcuno il turismo è male e per altri è bene. La formula dell’overtourism sarebbe perciò: fattori soggettivi più fattori oggettivi più fattori interpretativi. Sentite un brivido? Ecco, quel brivido è anche mio.
 

Personalmente amo le statistiche e il buon senso, e soprattutto la loro combinazione. Direi che quando su base giornaliera la popolazione ospite supera quella ospitante, tendenzialmente siamo in una situazione di overtourism. In uno studio condotto sui comuni del Veneto (v. Sociometrica) il calcolo dell’indice di Tourism Exposure (combinazione normalizzata dei due indici) supera la soglia dello 0,5 su 1,0 solo in due comuni, a Venezia e Lazise, nel resto dei comuni l’indicatore è al di sotto. Qualcuno potrebbe dire che bisogna abbassarlo allo 0,4; insomma, ritorniamo all’interpretazione…
 

Lasciamo da parte statistiche, indicatori e calcoli per concentrarci sulla realtà dell’offerta alberghiera. Prendiamo le città accusate di overtourism: Roma, Venezia e Firenze. Dal 2014 al 2023 Roma è passata da 54 mila camere alberghiere a 59 mila, solo 5 mila in più in dieci anni; lo stesso a Venezia, dove le camere sono passate da 15 mila a 16 mila, davvero un’inezia, e a Firenze, addirittura, le camere sono diminuite, da 14 mila a 13 mila! Al netto del fenomeno dell’escursionismo (persone che visitano una città e pernottano in un’altra), ci si chiede dove dormano queste persone che determinano l’overtourism. Inevitabilmente negli appartamenti privati, che nella neolingua sono “affitti brevi”.
 

Quali caratteristiche hanno gli affitti brevi? Possono spuntare (e scomparire) in una notte, basta che il proprietario decida di inserire l’appartamento (o cancellarlo) in una delle piattaforme digitali (airbnb, booking); fanno un’attività pubblica, ma non hanno bisogno di licenza, perché i poteri pubblici nazionali (finora) non lo hanno deciso, e perciò sono tecnicamente “ingovernabili”; non creano impresa, perché un albergo è un’impresa, ma affittare un appartamento è ancora impresa? Cambiano la dislocazione dei residenti per inerzia, senza che nessun potere democratico l’abbia deciso.
 

E poi c’è la questione del glamour. Lo so, Osborne ne sarebbe inorridito, ma è una pietra miliare dell’immaginario turistico, non possiamo non considerarla. Vi dice qualcosa “Grand Budapest Hotel”, il film di Wes Anderson con Bill Murray e Tilda Swinton? Certo non darebbe suggestioni un eventuale “Grand Budapest Apartment”. Vi dice qualcosa Bohumil Hrabal e le sue narrazioni del gran mondo dell’hotellerie in Ho servito il re d’Inghilterra? Avrebbe la stessa postura se avesse servito in un appartamento in affitto breve? Sempre che lì ci sia il servizio, esattamente la cosa che non c’è.
 

Il servizio nel mondo dell’ospitalità è una cosa sottaciuta: chi ne conosce il valore, non ha il coraggio di dirlo. Perché il servizio fa pensare al servire, e il servire è indicibile. Lo è perché non se ne conosce la vera natura, che non è servire qualcuno, ma servire qualcosa. È rendere possibile un rito, attuare un ideale di perfezione. Pensiamo al ristorante, alla cena formale: cos’altro è, se non un rito e, in generale – a pensarci bene – cos’è il turismo se non una performance art? Ci aiuta James Hillman a dirlo: la qualità è un’approssimazione a un ideale. Tende alla perfezione. Con il suo tendere alla perfezione, la qualità rievoca all’anima la bellezza ideale; in quanto gesto estetico, un buon servizio dà, a chi lo compie e a chi lo riceve, il piacere della bellezza dell’esecuzione, aggiungendo valore a un evento che altrimenti sarebbe soltanto una transazione.
 

La “nouvelle vague” del pensiero dell’autentico ha sostituito il servizio con l’autenticità: si dice di non volere la gentilezza organizzata (il servizio) ma quella vera, originale, spontanea, e dovrebbe essere peculiare alla relazione ospitante/ospite, come se l’ospite in quanto tale si aspetti una gentilezza istintiva dell’ospitante. Follia? Questa sì, perché la gentilezza è un’attitudine dell’anima che prescinde dal rapporto ospite/ospitante e si può manifestare sempre, talvolta o mai; ma cercarla proprio in quella relazione suona un po’ ipocrita e forse peggio.
 

Guardiamo alla storia del turismo italiano, alle ragioni del successo clamoroso di Rimini negli anni 70, quando la città inventa il “turismo democratico”, cioè finalmente anche gli operai della Fiat, per la prima volta nella storia del mondo – sì, perché questo non c’era certo in Francia o in Inghilterra – conquistano il diritto anche loro (come i signori) al rito, al sedersi sulla sdraio o al ristorante e essere serviti, non come rivalsa dei penultimi rispetto agli ultimi (questa è più una cosa di questi nostri anni), ma anche loro potevano per qualche giorno prendere parte a quella perfezione dei gesti, a quella dolce vita. Qualcosa come la perfezione del vestito della sposa, venerata anche (e soprattutto) nelle classi più umili come momento in cui tutti hanno diritto alla bellezza del gesto, al mondo come dovrebbe essere. Per tutti, almeno una volta nella vita.
 

Se il servizio è derubricato, ma non dimenticato, e tuttavia sempre osservato, l’immaginario turistico si deve comunque nutrire della percezione di rarità, se non di unicità dei posti che visitiamo o che vorremmo visitare. Chi vorrebbe andare in un posto percepito come mediocre, uguale, indistinto?  Nessuno. Anzi, oggi c’è di più: bisogna che i posti siano “instagrammabili”: la foto è la testimonianza da comunicare al mondo intero, che noi ci siamo, che meritiamo il posto dove siamo, o forse anche che il posto merita noi. Aiuta a capire il fenomeno di psiche collettiva la Piramide di Maslow, con in basso i bisogni fisiologici e poi via via in alto i bisogni di stima e di autorealizzazione. La motivazione turistica dimora in quelle zone apicali, sia che propendiate per il servizio come tendenza alla perfezione, sia per l’autenticità, o ancora per Instagram.
 

Avete l’impressione che siamo dentro un circolo vizioso il cui esito fatale è l’overtourism permanente e ineluttabile, altro che le ricerche di Osborne? L’inerzia può portare lì, ma il governo dei fenomeni, supportato da un buon pensiero specifico, ci suggerisce altre strade migliori. Partiamo dal considerare che il turismo è un fenomeno dettato da milioni di micro-decisioni personali che sfuggono completamente a ogni “piano turistico”, il totem che ci accompagna da vent’anni.
 

Allora su cosa si può lavorare? Dal lato dell’offerta sul governo e il contenimento della variabile fuori controllo degli affitti brevi (tramite concessione di licenze). Lavorare sulla logistica e, in generale, su come approntare la “macchina” dell’ospitalità, perché l’overtourism è spesso un problema di gestione. Un grande evento, ben organizzato, accresce la desiderabilità di una città, mentre un piccolo evento, mal pensato, può mettere a soqquadro la vita di un borgo. Lavorare perciò sul lato “nascosto” del fenomeno: logistica, crescita disciplinata dell’ospitalità, trasporti pubblici, organizzazione degli accessi. Quando la “macchina” funziona l’overtourism non si manifesta: c’è solo una città in festa. La chiave è la capacità di carico di una città, ma questa dipende da come è organizzata.
 

Sul lato della domanda bisogna lavorare sull’informazione (il vero dio di questi anni) e sulla promozione (la vera inerzia che bisogna cambiare). Abbiamo una teoria, quella di Thaler e Sunstein; un nome, Spinta gentile (o meglio Nudge); un esecutore di prim’ordine, Obama, che l’ha impiegata per migliorare i comportamenti degli americani nella previdenza, nella sanità e nel risparmio. Come può funzionare nel turismo? Indirizzando le scelte comportamentali (cosa vedere, dove andare, cosa privilegiare) attraverso l’informazione oggi dominata dai big player digitali, i quali ovviamente mirano al clickbait (proporre le cose più note per attrarre più click), ma che può radicalmente cambiare se si adottano nelle città gli assistenti virtuali sostenuti dall’intelligenza artificiale e informazione indipendente. Si può fare promozione su ciò che è meno noto, ma non di minor valore, al “second best” che attende di salire lo scalino.
 

Ritorniamo al nostro Lawrence, che ha fatto migliaia di chilometri per trovare un luogo senza un turista: l’esperienza gli ha permesso di scrivere un libro stupendo. A noi, senza i necessari talenti letterari, resta di ripercorrere la sua strada a ritroso, con una variante: costruire un’offerta turistica, che sia equilibrata (conservare l’autentico non nella forma arcadica e impossibile, ma offrendo servizi e prodotti di qualità, quella che evoca la perfezione – ricordate? ). Considerando che ogni cosa: un luogo, un panorama, un ristorante, un albergo è pur sempre un mezzo per far felici le persone, e non un fine.

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