George Semanko, responsabile della sezione lettere morte dell’ufficio postale di Minneapolis, sepolto dalla corrispondenza di Natale del 1956 (foto Getty) 

Le strade cieche

L'invenzione dei numeri civici e dei francobolli, e gli uffici delle “lettere morte”. Storia di come siamo diventati rintracciabili

Massimiano Bucchi

Patti Lyle Collins, leggendaria impiegata americana, a metà ’800 era capace di decodificare quasi mille indirizzi al giorno. In aree rurali della West Virginia, i residenti hanno resistito fieramente fino a pochi anni fa all’assegnazione dei nomi alle strade

“A mia sorella Jean, in una strada chiusa lungo il Canongate, Edimburgo. Ha una gamba di legno”. Alla fine dell’Ottocento, nel Regno Unito e non solo, era ancora comune per il servizio postale ricevere lettere con un indirizzo di questo tipo. “Da consegnare alla ragazza con gli occhiali che si prende cura di due neonati”. La cosa incredibile è che nella maggioranza dei casi questa corrispondenza veniva comunque consegnata correttamente al destinatario. A occuparsene era un ufficio dedicato della Royal Mail, il cosiddetto “Dead Letter Office” (letteralmente “ufficio delle lettere morte”). Qui, una schiera di “impiegati ciechi” (così detti, appunto, per l’impossibilità del postino di comprendere l’indirizzo) lavoravano come una sorta di detective nel tentativo di decifrare l’effettivo destinatario. Per riuscirci, studiavano mappe ed elenchi di fattorie e negozi. “Una tecnica utile consisteva nel pronunciare l’indirizzo ad alta voce, come fa un bambino quando impara a leggere (in questo modo si scoprì che una lettera indirizzata a un certo Mr. Owl O’Neill in realtà era destinata a Rowland Hill)”. Negli Stati Uniti un Dead Letter Office aprì i battenti nel 1825 e ben presto gli impiegati si trovarono a gestire quasi sette milioni di lettere all’anno con indirizzi sbagliati, inesistenti o incomprensibili. Nell’ufficio lavorarono figure leggendarie come Patti Lyle Collins, un’impiegata capace di decodificare quasi mille indirizzi al giorno. Proveniente da una famiglia benestante che le aveva consentito di viaggiare per il mondo, rimasta vedova con figli e la madre anziana, trovò ideale l’impiego nell’Ufficio lettere morte. Oltre a conoscere perfettamente uffici postali e località in tutti gli Stati Uniti, nel caso di lettere dall’estero riusciva a riconoscere la provenienza dalla grafia e così decifrava più facilmente gli indirizzi scritti da stranieri. In un articolo che le fu dedicato nel 1893 sulla rivista Ladies Home Journal si citava con ammirazione il caso in cui la Collins riuscì a recapitare con successo una lettera indirizzata “East Maryland Street 3133” (senza indicazione di città), sapendo che una via con quel nome esisteva in molte città, ma solo a Indianapolis contava oltre tremila numeri civici. 

 

L’innovazione asburgica: “I numeri civici esistono non per aiutare i cittadini a trovare la strada, ma per aiutare il governo a trovare i cittadini”

  
Ecco, appunto, i numeri civici. Una delle ragioni alla base della montagna colossale di “lettere morte” era la confusione nella toponomastica e la scarsa familiarità delle persone con i numeri civici. Ma per comprendere una delle più grandi rivoluzioni nella storia della comunicazione bisogna tornare indietro di circa un secolo, come fa Deirdre Mask nel suo The Address Book: What Street Addresses Reveal About Identity, Race, Wealth, and Power (trad. it. Le vie che orientano. Storia, identità e potere dietro ai nomi delle strade, Bollati Boringhieri). La studiosa americana fa infatti risalire l’introduzione dei numeri civici nell’Impero asburgico, a partire dal 1770, alla necessità di disporre di un esercito più numeroso. Gli uomini giovani e forti non mancavano certo, ma il problema era riuscire a trovarli. I proprietari terrieri se li tenevano stretti, spedendo magari a combattere i meno resistenti. “Nel marzo 1770 la sovrana Maria Teresa emanò l’ordine. Più di 1.700 funzionari e ufficiali si sparpagliarono per tutto l’Impero. Appena entravano in un villaggio, un pittore professionista tracciava un numero su ciascun muro, con una pittura nera e densa a base di olio e ossa bollite. Su moduli prestampati, gli scrivani registravano tutti gli uomini e la loro abilità al servizio. In pieno inverno, gli emissari dell’imperatrice scarpinarono da un villaggio all’altro, da una città all’altra, mentre la pioggia faceva sbiadire l’inchiostro a buon mercato. Alla fine contarono più di sette milioni di ‘anime’ e numerarono un milione e 100.399 case in tutto. In ritardo e dopo aver speso più del previsto, gli addetti alla numerazione rispedirono a Vienna una tale quantità di rotoli di pergamena che a palazzo non si sapeva dove metterli”. Secondo lo storico austriaco Anton Tantner, considerato tra i massimi esperti dell’argomento, “sebbene poi si siano rivelati determinanti per l’orientamento e la consegna della posta, i numeri civici in realtà furono progettati per rendere le persone più facilmente tassabili, imprigionabili e sorvegliabili […] I numeri civici esistono non per aiutare i cittadini a trovare la strada, ma per aiutare il governo a trovare i cittadini”. Più o meno nello stesso periodo si registrano iniziative simili, seppur meno sistematiche, a Parigi, Londra e Manhattan (dove gli inglesi usavano la numerazione delle abitazioni per controllare gli indipendentisti). Un’innovazione, come si usa dire oggi, “disruptive” che fece perdere il posto di lavoro ai valletti che non sapevano leggere parole e numeri per consegnare un messaggio. Le strade si alleggerirono di ingombranti insegne esposte per segnalare il tipo di attività (come un drago per una farmacia o un pan di zucchero per una bottega di alimentari), spesso pericolanti o rischiose per l’incolumità dei passanti.

   

Un’assegnazione spesso arbitraria e caotica. L’ammirazione di Mark Twain per Berlino era sconfinata, salvo che per la numerazione civica

   
Ma l’assegnazione dei numeri agli edifici era spesso arbitraria e caotica. Alla fine dell’Ottocento, l’ammirazione dello scrittore americano Mark Twain per la città di Berlino (“la meglio governata al mondo”) era sconfinata, salvo che per la sua numerazione civica. “In un primo momento si è piuttosto portati a pensare che, in realtà, l’abbia fatto un idiota; ma in tutta questa faccenda c’è troppa varietà, in proposito; e un idiota non sarebbe mai riuscito a pensare a così tanti modi per riuscire a fare confusione e a diffondere la blasfemia”. Lo stupore di Twain era legato anche al fatto che in alcuni grandi centri americani si era adottato da tempo il cosiddetto “sistema Philadelphia”. Nel 1790, in occasione del primo censimento della popolazione statunitense, Clement Biddle, un colonnello che aveva combattuto nella Guerra d’indipendenza, amico di George Washington, propose di separare numeri pari e dispari, posizionandoli sui due lati di una strada. “Uno straniero”, disse Biddle illustrando il nuovo sistema, “potrà ora trovare ogni abitazione di cui sia nota la via e il numero civico”.

   
Ancora oggi restano in uso sistemi di numerazione diversi, anche in Italia. A Firenze le abitazioni private hanno i numeri in nero e le attività commerciali in rosso. A Venezia la città è divisa in sestieri, all’interno dei quali i numeri sono assegnati senza distinzione di lato tra pari e dispari. Nelle città giapponesi si utilizza un sistema completamente diverso, con tre numeri che identificano distretto, blocco e numero abitazione e pochissime strade principali con un nome. Chi ha visitato Tokyo prima dell’avvento di Google Maps ricorda come fosse abituale ricevere (via fax o email) un’accurata mappa disegnata a mano dell’indirizzo a cui ci si doveva recare per un appuntamento. In alcune aree rurali della West Virginia, i residenti hanno resistito fieramente fino a pochi anni fa all’assegnazione di numeri civici e perfino di nomi alle strade della loro zona. “Alcuni incaricati [della numerazione] sono stati accolti da uomini in quad con tanto di fucili a pallettoni. Un funzionario pubblico si è imbattuto in un tale con un machete infilato nella tasca posteriore dei pantaloni. Quanto ci teneva, a quell’indirizzo?”. E gli uffici delle lettere morte non sono affatto scomparsi: quello britannico vede ogni giorno impegnati trecento impiegati postali in un hangar di Belfast.

 
Per renderci definitivamente rintracciabili, comunque, oltre ai numeri civici mancavano ancora due ingredienti. Al primo provvide un personaggio molto peculiare. Rowland Hill, nato nel 1797, aveva preso in mano e rinnovato un istituto fondato dal padre, trasformandola in una scuola innovativa basata sull’influenza morale degli insegnanti anziché sulle punizioni, in cui lo sport e la scienza giocavano un ruolo centrale. Il suo interesse per la riforma del sistema postale viene talvolta fatto risalire a quando assistette alla scena commovente di una ragazza costretta a rifiutare la lettera del suo fidanzato in quanto incapace di pagare la tariffa. All’epoca, infatti, a pagare il costo della spedizione era il destinatario al momento della ricezione. Un sistema costoso, poco pratico (il postino doveva tornare più volte in caso di assenza del destinatario) e incline ad incentivare le frodi (ad esempio, un segno convenuto sulla busta era sufficiente a comunicare il messaggio chiave al destinatario, che rifiutava poi di pagare la lettera). Sfidando lo scetticismo dei vertici governativi, nel 1840 Hill propose una soluzione semplice e drastica: una tariffa fissa da un penny, uguale per spedire ovunque nel paese, pagata però dal mittente. E di lì a breve la completò con un’invenzione ancor più geniale: una sorta di timbro postale adesivo, ovvero il francobollo, lungimirante esempio di comunicazione prepagata un secolo e mezzo prima delle ricariche telefoniche. Per l’immagine sul francobollo fu fatto un concorso, ma nessuna delle oltre duemila proposte ricevute fu ritenuta soddisfacente. Alla fine per il primo francobollo “Penny Black”, introdotto nel maggio 1840, si scelse un semplice profilo della Regina Vittoria realizzato in modo da non essere facilmente contraffatto. Fu un successo straordinario e inaspettato: in un solo anno il numero di lettere spedite nel Regno Unito raddoppiò. La riforma di Hill trasformò la Royal Mail in una macchina di spettacolare efficienza. Nel centro di Londra i postini arrivarono a consegnare la posta per ben dodici volte al giorno: “Si poteva scrivere per invitare un amico a cena il mattino e ricevere la risposta in tempo per ordinare una bistecca in più”. Ma non c’era ancora abbastanza ordine nella toponomastica e nella numerazione dei civici, e le “lettere morte” continuavano a ingolfare gli uffici postali. Nel 1857 lo stesso Hill suddivise Londra in otto distretti, assegnando un codice a ciascuno. Ma fu solo oltre un secolo dopo che Robert Moon, un impiegato delle poste di Philadelphia (ancora Philadelphia!) riuscì, dopo averlo proposto inutilmente per quasi vent’anni, a far introdurre il cosiddetto “Zip code” (Zoning improvement plan, piano per migliorare la suddivisione in zone). Il Cap (Codice di avviamento postale) a cinque cifre (le prime due indicano la provincia, le altre il comune) arrivò da noi nel 1967, in un’Italia che oggi pare davvero lontanissima, sommersa dalla corrispondenza (in dieci anni le spedizioni erano aumentate di oltre due miliardi). Si stima che nei soli Stati Uniti questo sistema consenta un risparmio di nove miliardi di dollari annui nella gestione dei servizi postali.

   
Alcuni indirizzi e numeri civici sono divenuti celebri, perfino sinonimi di ruoli e figure, come il 10 di Downing Street a Londra, residenza ufficiale del Primo Ministro Britannico; l’11 di Wall Street, sede della Borsa di New York; il 3 di Abbey Road, gli studi londinesi della Emi dove furono registrati gli album dei Beatles e di altri artisti tra cui i Pink Floyd. Altri numeri civici sono stati immortalati da opere di fantasia, come il 132 di Boulevard Richard-Lenoir a Parigi (abitazione del Commissario Maigret nei romanzi di Simenon) e il 221b di Baker Street a Londra, residenza di Sherlock Holmes nelle opere di Conan Doyle e oggi meta turistica, sede dello Sherlock Holmes Museum (civico, peraltro, inesistente nel 1887, all’epoca in cui Conan Doyle creò il detective, giacché Baker Street non arrivava oltre il 200). Il cantautore Francesco Guccini intitolò uno dei suoi album più noti con l’indirizzo e il numero civico della sua residenza bolognese, “Via Paolo Fabbri 43”. Ma solo alle più grandi celebrità è dato farsi raggiungere dalla posta anche da chi ignora completamente non solo il numero civico, a cui abitano ma perfino la città di residenza: nel 1953 il fisico Albert Einstein ricevette regolarmente una lettera su cui era scritto solo “Einstein. Usa”.