La bella vecchiaia. Mentre Biden si ritira, Mattarella gira il mondo sotto la pioggia
È il “Granny Boom”: negli Stati Uniti sono quasi 11 milioni gli over 65 occupati. In Italia sono molti quelli in cerca di una nuova ricollocazione. Suggestioni faustiane sul futuro dei pensionati
C’è Joe Biden che incespica, cade, dimentica, sbaglia nomi e fatti, non ricorda più, forse ha l’Alzheimer, forse il Parkinson, chissà. C’è un presidente che non può più fare il presidente e a 82 anni non ancora compiuti getta la spugna. E poi c’è Sergio Mattarella, un presidente che a 83 anni fa ancora il presidente e molto di più. Passa giornate in lunghi viaggi aerei, è in Costa d’Avorio e in Ghana, poi in Brasile. A differenza di Biden non si lamenta per il jet lag, non denuncia stanchezza, non si copre con il tempo che passa e consuma. Anzi, dopo aver discusso con Lula eccolo in volo verso Parigi che scherza con “Gimbo” Tamberi, il portabandiera italiano alle Olimpiadi. E lì, assiste alla pomposa, bizzarra, francesissima cerimonia d’apertura, sotto la pioggia, zuppo come un pulcino perché Emmanuel Macron non ha pensato a una tettoia per tutti i capi di stato e l’ambasciata italiana non ha pensato di portare un ombrello. Eppure sappiamo cosa riserba la Parigi dei cieli bigi (lo diceva anche Giacomo Puccini). I capelli bianchi sempre a posto questa volta erano scompigliati dal vento e fradici d’acqua, ma il presidente che fa ancora il presidente stava in piedi dritto come un fuso, hombre vertical.
Il cardinale Ravasi cita un apologo arabo sulla differenza tra invecchiare e diventare vecchi. Rispetto e riverenza sociale in Omero
C’è vecchiaia e vecchiaia, c’è l’autunno e c’è il culmine della vita. La “buona vecchiaia” è, in Omero, una concessione divina non elargita a tutti che comporta rispetto e riverenza sociale, poiché la debilitazione fisica è compensata e controbilanciata dalle virtù dell’esperienza come saggezza ed eloquenza. In Cicerone la vecchiaia si sposa con la dignità, ma “il fardello della senescenza” non è incompatibile con una vita attiva, al contrario di quel che già allora era un luogo comune e che nei tempi in cui ci è dato vivere ha alimentato il culto della pensione. “La gioventù è un’ebbrezza senza vino, la vecchiaia se beve torna giovane”, sentenziava Johann Wolfgang Goethe e lui se ne intendeva. Aveva 82 anni nel 1831 quando pubblicò l’ultima definitiva stesura del “Faust”, il capolavoro al quale aveva lavorato per ben sessant’anni. Thomas Mann, che per tutta una vita ha dialogato letterariamente con “l’Olimpico” poeta, tra il 1936 e il 1939 mentre era in esilio in Svizzera scrisse “Carlotta a Weimar” prendendo spunto da un episodio vero: la visita nel 1816 di Charlotte Buff vedova Festner, ormai sessantenne, alla sorella Amalia che risiedeva a Weimar, dove il duca Carlo Augusto di Sassonia aveva nominato Goethe consigliere segreto. Charlotte era la Lotte della quale si era innamorato Wolfgang quando lui aveva 21 anni e lei 17, la fanciulla in fiore che gli aveva ispirato “I dolori del giovane Werther”. La visita diventa un evento mondano nella piccola città, ma Goethe fa il prezioso e solo dopo una lunga attesa piena di chiacchiere, sussurri, ammiccamenti invita la vecchia amica a una cena semi-ufficiale nella sua abitazione sul Frauenplan, a un tempo solenne e sontuosa.
Il Goethe che Charlotte si trova davanti è diventato pomposo, pieno della sua grandezza ampiamente tributatagli dai contemporanei in tutta l’Europa delle lettere, tanto che lei fa fatica lì per lì a paragonarlo al brillante poeta pieno di passione e di slancio ideale che aveva conosciuto, tanto meno a Werther, il protagonista del primo bestseller che incantò una generazione e tutte quelle seguenti. Ecco come Mann descrive il ben studiato ingresso in scena: “Goethe entrò con passo deciso e breve, lievemente ritmato, le spalle all’indietro, il ventre leggermente proteso. Indossava una marsina a doppio petto e calze di seta; sul petto, piuttosto in alto, scintillava una stella d’argento di fine lavoro e il fazzoletto da collo di batista bianco era trattenuto da una stella di ametista. I capelli ancora arricciati alle tempie, ma già radi sopra l’alta fronte convessa, erano tutti incipriati. Carlotta lo riconobbe e anche non lo riconobbe; l’una e l’altra cosa profondamente la scossero… Era lui e pur non era lui. Una simile fronte maestosa in passato non l’aveva – già la sua altezza era dovuta al ritrarsi dell’attaccatura pur sempre molto bella dei capelli; era in realtà il prodotto del tempo, come si diceva per darsi pace, senza però attingervi vera pace… Goethe aveva allora sessantasette anni… Nonostante l’andatura un po’ rigida, che ricordava del resto altre sue caratteristiche, il corpo appariva agile e giovanile sotto il panno lucido e finissimo della marsina nera e nel complesso nell’ultimo decennio l’aspetto generale s’era piuttosto avvicinato a quello della giovinezza… Entrando il padrone di casa aveva afferrato con la destra il braccio sinistro reumatizzato, ma dopo pochi passi l’aveva lasciato ricadere, rivolgendo ai presenti un inchino cortese e cerimonioso e avvicinandosi poi alle signore che più gli erano vicine. Ed ecco la voce – quella era rimasta proprio uguale, il sonoro tono baritonale con cui aveva letto e parlato lo smilzo giovanotto – e come sembrava strano risentirlo echeggiare, sia pur un pochino più strascicato e misurato – ma anche a quei tempi lontani vi era una traccia di sussiego!– in quella figura senile”. Dunque, ha messo su pancetta, si veste come un damerino, immerso nell’acqua di Colonia che predilige, però non è invecchiato.
Diventare vecchi e invecchiare sembrano sinonimi ma sono cose molto diverse, sottolinea il cardinale Gianfranco Ravasi su Avvenire citando un apologo arabo. “Santo cielo, quanto sei invecchiato!”, esclamò un famoso maestro davanti a un amico di gioventù. L’altro gli replicò: “Non si può fare a meno di diventare vecchi!”. “No, certo”, convenne il maestro. Ma aggiunse: “Tuttavia si deve evitare di invecchiare”. Il diventare vecchi “è un fenomeno naturale di fronte al quale si è sostanzialmente impotenti – sostiene ancora Ravasi – Per lo scrittore Giovanni Arpino ‘niente è più umano del diventare vecchi, niente più naturale. Bisogna, però, saperlo, accettarlo, sorreggerlo, senza cadere in giovanilismi sciocchi e pericolosi, senza pretendere di truccare le carte del gioco’. Il secondo verbo, invecchiare, evoca invece un deperimento interiore, uno spegnersi dell’anima, un appassirsi dei sentimenti, uno sfiorire della speranza. Questa situazione non coincide con l’età anagrafica, può colpire anche i giovani che si sentono improvvisamente stanchi e senza gusto nei confronti della vita”. Emilio Brentani, protagonista di “Senilità” di Italo Svevo, è un giovane vecchio. Al contrario, ci sono anziani che “nella vecchiaia danno ancora frutti e sono vegeti e rigogliosi come palma o cedro del Libano, piantati nella casa del Signore” (Salmo 92, 13-15).
Starnone in “Il vecchio al mare” parla di una “dissennatezza del vecchio” che in fondo dà un senso profondo all’esistenza stessa
A quei vecchi che danno ancora frutti ha dedicato il suo ultimo libro Domenico Starnone e lo ha intitolato “Il vecchio al mare”, con evidente e confessato richiamo al capolavoro di Ernest Hemingway. Il suo Nicola ha gli anni di Biden e di Mattarella anche se è uno scrittore e non assomiglia a nessuno dei due, così come non assomiglia a Santiago, il pescatore cubano che dopo 84 giorni senza risultati, uscito in mare da solo, cattura un marlin di oltre cinque metri che verrà azzannato dagli squali. Ma in quella sua lotta strenua e disperata c’è la metafora della quotidiana battaglia per la vita. Starnone parla di una “dissennatezza del vecchio” che in fondo dà un senso profondo per quanto retrospettivo all’esistenza stessa. Il suo ottantenne Nicola pieno di acciacchi, che al mattino guarda il mare seduto in un seggiolino tra le dune, alla fine decide di passare le sue giornate tra uno svolazzare di gonne, sete e taffetà nella “butik” di Evelina, bella donna sessantenne vitale e giovanile che lo porta a baciarla, e della sua commessa Lu, ragazza madre che viene dalle montagne, ama la canoa e sogna di scappare a Venezia per fare la bella vita.
Peccato che Nicola diffidi della tecnologia, altrimenti la sua “dissennatezza” lo avrebbe portato a scoprire che la “buona vecchiaia” omerica è entrata già in una nuova dimensione. Si parla ormai di un fenomeno chiamato Granny boom (il boom dei nonni): negli Stati Uniti sono quasi 11 milioni gli over 65 occupati. In Canada, Germania, Regno Unito, Giappone, Francia si stima che nel 2030 i lavoratori più anziani rappresenteranno mediamente il 25 per cento degli occupati. In Italia secondo l’ultimo rapporto Inapp (l’istituto di ricerca per le politiche pubbliche), ogni mille lavoratori con un’età compresa tra i 19 e i 39 anni ve ne sono 900 appartenenti alla fascia “adulti-anziani”. Mentre le imprese giapponesi stanno già provvedendo a licenziare i dipendenti più maturi e a riassumerli con contratti a orario ridotto o in diverse mansioni, in Italia molte figure professionali mancano (operai specializzati, addetti alla ristorazione e al settore turistico, per citarne alcuni) e nello stesso tempo le quote di personale over 55 in cerca di una nuova ricollocazione al lavoro sono ancora molto alte. La Società italiana di gerontologia e geriatria ci ricorda che un 75enne di oggi ha la forma fisica e cognitiva di un 55enne nel 1980, quindi di una persona ancora pienamente attiva, in grado di svolgere una vita lavorativa. Una nuova fascia di popolazione, per la quale è stato coniato il neologismo longennial, è pronta ad affrontare cambiamenti importanti con entusiasmo e con voglia di fare nuovi progetti. Se fino a qualche anno fa trovare un nuovo lavoro dopo i 50 anni era estremamente difficile, oggi i dati ci raccontano un’inversione di tendenza.
Sarà l’intelligenza artificiale a offrire una nuova frontiera alla vecchiaia? Il vecchio buono, il vecchio che non invecchia trova proprio qui il suo ancoraggio alla vita e al lavoro. Dalle belle lettere scendiamo a terra per entrare in una delle maggiori trasformazioni dei tempi in cui viviamo e scopriamo così una coppia dialettica, vecchiaia e innovazione, che sembrava il massimo della contraddizione, invece oggi possono stringere un’alleanza inaspettata. Si fa presto a dire ho lavorato 40 anni e non vedo l’ora di andare in pensione. E poi? Per i prossimi vent’anni che faccio? Mi godo lunghe vacanze, viaggio per il mondo (sempre che mi basti l’assegno Inps più i risparmi che ho accumulato in banca), vado al parco con i nipotini, porto a spasso il cane, gioco a briscola con gli amici, mi faccio un bicchierino la sera, per lo più da solo non in dolce compagnia. Basta a riempire il mio spazio-tempo? Basta a colmare il vuoto lasciato dal lavoro? Non basta. Ma oggi la tecnologia spalanca porte che prima erano chiuse a doppia mandata. E l’innovazione principe, il passepartout che ha in mano potenzialmente mille chiavi, è proprio l’intelligenza artificiale. Secondo un luogo comune, essa distrugge il lavoro, in realtà lo trasforma e produce nuovo lavoro e nuovi lavori.
L’intelligenza artificiale manca di competenza ma ne ha bisogno per funzionare al meglio. Chi ne ha di più dei cosiddetti “longennial”?
La parola chiave si chiama competenza. L’intelligenza artificiale non ce l’ha ma ne ha bisogno per funzionare al meglio. E chi possiede più competenza di una persona che ha impiegato 40 anni ad accumularla, assimilarla, trasformarla e accrescerla? I longennial rispetto ai lavoratori junior sono più affidabili ed esperti. Kence Anderson, che dirige alla Microsoft l’Autonomous AI, cioè la branca dell’intelligenza artificiale dove i sistemi sono abbastanza avanzati da agire con un limitato coinvolgimento umano, sostiene che occorre valorizzare quelli che vanno in pensione per incapsulare le loro competenze. L’analisi dei dati e le funzioni ripetitive fanno parte della prima generazione, adesso occorre la capacità di elaborare la materia prima, cioè le informazioni, i dati. Solo l’accumulo e l’interpretazione delle competenze può rendere l’IA sempre più accurata e in grado di funzionare in modo corretto.
Trasformare i pensionati in insegnanti digitali, perché no? Un campo non arato, ma dei cui frutti c’è gran bisogno. La buona vecchiaia è strettamente collegata al lavoro, al contributo attivo alla società. Siccome siamo partiti da Joe Biden, non si può non notare l’improvvisa inversione anagrafica. Adesso, di fronte agli elettori americani la parte del vecchio spetta a colui che aveva fatto dell’età il cavallo di battaglia per colpire il suo avversario. Donald Trump è nato il 16 giugno 1946, ha da poco compiuto 78 anni. A sfidarlo è Kamala Harris, una donna che il 20 ottobre prossimo compirà 60 anni. Bolso, grasso e grosso, con quei capelli arancioni anzi ormai diventati di un colore indefinibile, con quelle giacche troppo larghe e lunghe che non coprono la pinguedine, non ha certo un aplomb elegante. Anche lui è diventato vecchio. Ma non si può dire che sia invecchiato. Torna così l’apologo arabo, la distinzione profonda tra due falsi sinonimi.
Siamo scivolati troppo lontano dall’Olimpo? Nient’affatto. Politica, scienza e tecnica sono un trittico che ha sempre affascinato Goethe. Quando incontra Carlotta sta lavorando alla sua “Teoria dei colori”, tutto intento a polemizzare niente meno che con Isaac Newton: per lui i colori nascono nell’occhio di chi guarda e dal rapporto tra la luce e l’ombra, la poesia va a braccetto con la matematica. Intanto continua a immergersi nell’eterno femminino. Stringe una relazione a tutto campo con l’attrice e poetessa Marianne von Willemer nota con lo pseudonimo di Marianne Jung, più giovane di 25 anni, insieme alla quale scrive i versi più erotici del “Divano occidentale-orientale”. Dopo la morte della moglie ama Ulrike che ha ben 55 anni di meno. Intanto lima, scrive e riscrive il suo poema drammatico. E’ lui ad aver stipulato un patto con le forze sovrannaturali. E’ lui l’Ubermensch, l’Oltreuomo, il creativo che non segue rotte precostituite, e Friedrich Nietzsche lo dirà esplicitamente. E’ lui Faust, un Faust buono. Nella seconda parte dell’opera troviamo ancora passioni e seduzioni, ma più che l’amore è il potere ad attrarlo. Finché non si ritira vicino al mare. Goethe mette in scena Cura, l’ngoscia, una figura diabolica che acceca Faust per farlo cadere nello sconforto. Eppure il vecchio alchimista non molla, immagina un futuro radioso e laborioso, ricco di opere e di poesia. E sarà redento dall’amore. Secondo un altro dei suoi innumerevoli aforismi, per Goethe “essere giovani è un effetto della natura e dilegua come nebbia; rimanere giovani è molto di più, è un’arte di pochi”. Ebbene lui quell’arte l’ha conosciuta e praticata fino in fondo.