l'editoriale dell'elefantino
Le donne afghane e la foto che manca nel nostro mondo gaio
Nel 1968 fu il pugno chiuso di Tommie Smith e John Carlos. A Parigi la storia si è ripetuta come farsa. Alla rifugiata che ha indossato una maglia con su scritto “liberate le donne afghane” erano dovuti gli applausi dello sport olimpico, altro che espulsione
Il mondo forse è migliorato da quel 16 ottobre del 1968, è più gaio, battaglie e ideali sono meno ingombranti, le guerre fioriscono ma la pace come aspirazione universale le sovrasta, i tribunali internazionali discernono tra bene e male, le controffensive devono essere difensive, le armi sì, gliele diamo ma a certe condizioni, l’eguaglianza trionfa fino alla stucchevolezza woke eccetera. Ma l’atleta rifugiata che ha indossato una maglia con su scritto “liberate le donne afghane” è stata espulsa, e aveva perso la gara, mentre Tommie Smith e John Carlos, i velocisti neri vincitori dei 200 metri piani alzarono quel giorno sul podio, a inno americano in corso, due braccia diverse inguantate di nero e a pugno chiuso (l’oro il destro, il bronzo il sinistro: perché avevano guanti spaiati); i due ebbero il privilegio di una foto che fece storia, e nessuno ricorda la burocrazia sportiva e le sue fisime malevolenti.
Erano splendidi, truci, maschi minacciosi, velocisti di grido, godevano della solidarietà dell’australiano bianco (argento) che indossò una spilla contro il segregazionismo degli afroamericani, subirono minacce di rappresaglia ma vinsero alla grande la loro guerra d’immagine per trasformare le Olimpiadi di Città del Messico in una tribuna della libertà.
Qui, con tutto il rispetto per il Settebello italiano di pallanuoto che ha protestato contro l’ingiustizia arbitrale mettendosi di culo davanti alla giuria, e con tutta la tolleranza per le discoteche sulla Senna e le ultime cene bacchiche, diciamolo, la storia si è ripetuta alla grande come farsa. Alla rifugiata erano dovuti gli applausi dello sport olimpico, una stretta di mano e un abbraccio corale, altro che espulsione.
Le donne afghane sono le segregate del mondo allegro e noncurante. Di nuovo schiave dopo la rotta di Kabul e la carneficina delle speranze occidentali durate per i vent’anni del sacrificio militare contro i predoni della libertà che avevano custodito e protetto i bombardieri delle Due Torri, ora sono sole, completamente sole, e metterle su una maglietta non fa gadget olimpico, fa espulsione e disdoro come da regolamento. Non si esporta la democrazia, non si fa la guerra per la libertà, roba da bushiani dementi, e se manifesti la passione, la via crucis delle musulmane costrette all’orrore meriti una punizione ideologica severa. I giudici decoubertiniani meriterebbero invece un bel tuffo nella Senna, dove è più scura e melmosa, dove, come ha ricordato Crippa qui, Maigret recuperava i cadaveri degli assassinati.
Siamo diventati gioviali e condiscendenti, e a noi vecchi testimoni dell’altro mondo non resta che la nostalgia per un atto di forza simbolico sacrosanto. Se pieghi un ginocchio in campo c’è un Trump che ti condanna per mancato patriottismo, se indossi una maglietta per chi non può più andare a scuola, vivere a volto scoperto, sentire musica e avere diritti in famiglia e nella società, pena lapidazione, allora sii punito. Hanno fatto tante polemiche inutili contro le Olimpiadi-Macroniadi, tanto per allenare la faziosità, ma la foto in bianco e nero che cambia le cose, la famosa percezione delle cose, che innalza un bisogno di umanità e lo inguanta e celebra al cospetto di un inno di battaglia nazionale, quello manca nel nostro mondo gaio. E francamente non mi sembra un caso.
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