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Profumo d'antico. Paglieri e la mia infanzia
La madeleine di un sapone che mio padre non mi faceva usare e le pubblicità di “Carosello” che oggi finirebbero in tribunale. Felce Azzurra, prezzi popolari ma con un posizionamento alto-borghese, aspirazionale, che fra i 60 e i 70 significava anche un filo trasgressivo
Quando l’Ansa ha battuto la notizia della morte di Mario Paglieri, credo quarta generazione della celebre famiglia profumiera di Alessandria ma il sito dell’azienda si tiene molto sulle generali e in questi giorni nessuno risponde, mi sono resa conto di conoscere i suoi prodotti quasi esclusivamente per averne visto le pubblicità sui giornali e in televisione. Pur vissuta attraverso uno schermo, Paglieri è stata una costante della mia infanzia: ricordo l’immagine di una donna molto sexy sdraiata fra le bolle in una enorme coppa da champagne e la faccia di Alberto Lupo con le basette lunghissime che usavano allora, i “favoriti” secondo un’espressione ottocentesca desueta da allora, ma tuttora inalterata. In casa nostra, il prodotto più celebre dei Paglieri, il bagnoschiuma Felce Azzurra, non doveva entrare perché per mio padre esisteva solo il sapone di Aleppo, una specie di sampietrino duro e molto puro di un colore verde dorato che è all’origine della storia del sapone e che adesso fa la gioia dei vegani e dei boho-chic, ma che nei Settanta era una scelta eccentrica almeno quanto lo era lui con i sandali da frate sotto i pantaloni di gabardine e la scacchiera da viaggio ripiegata nel borsone nero da medico dei film d’anteguerra che si portava appresso ovunque.
Ho scoperto la fragranza della Felce Azzurra poche settimane fa, mentre correvo appresso a mio nipote sulla costa ionica. Per gentilezza e, sospetto, dietro precise indicazioni di mia figlia, i miei ospiti avevano poggiato sul ripiano del lavandino del bagno che mi era stato assegnato, ancora chiusi ma garbatamente scartati, tutti i prodotti da bagno naturali che uso di solito e che sono senza dubbio un derivato inconscio di quel sapone oleoso che non faceva schiuma, tanto meno profumava, e che avevo il permesso di alternare solo al sapone di Marsiglia che ne è un derivato, di una marca che mia madre ordinava in una certa drogheria di corso Magenta, a Milano: mio padre lo riteneva inarrivabile anche come dentifricio, ma mi ero impuntata e si era dovuto rassegnare. Benché tutti i prodotti che usavamo dovessero superare il suo controllo – mi sembra ancora di vederlo mentre alza sulla fronte gli occhiali scuri che gli proteggono i grandi occhi verdi e acquosi da miope per leggere le diciture in corpo otto delle confezioni – alla fine mi aveva concesso un approvvigionamento costante di “pasta dentifricia”, che in quegli anni era conservata in tubetti di foglio metallico e che quando inevitabilmente si rompevano per le troppe spremiture, ti tagliavano le dita. Niente Durban’s, si intende, del tutto esclusi i sapori di fragola e di menta che già allora spopolavano anche a scuola, esibiti nei bagni durante la ricreazione; da noi avevano diritto di ingresso solo marche farmaceutiche, le stesse che oggi si trovano al supermercato, ma che in quegli anni era impensabile trovassero posto fra gli scaffali delle prime insegne della grande distribuzione, che erano occupati esclusivamente dai marchi promossi su Carosello e sulle riviste a grande tiratura: il detersivo Ava “come lava” dell’olandesina, il suo rivale Omo “credevo che la mia camicia fosse bianca finché non ho visto la tua”, il bagnoschiuma Vidal al pino, verdissimo di coloranti, e ovviamente Felce Azzurra, nel bottiglione di plastica scanalato come una colonna dorica e che resiste alla concorrenza delle linee di prodotti per il bagno popolari di questi anni: i Tesori d’Oriente, le molte declinazioni di Dove, l’infinita gamma Roberts.
Dice il sito che la fragranza di Felce Azzurra venne creata nel 1923, benché il laboratorio di Lodovico Paglieri fosse stato fondato già nel 1876 in quella provincia del basso Piemonte da secoli ricca di orafi e cappellai e, in tutta evidenza, anche di profumieri in concorrenza per assicurarsi le patenti della Real Casa Savoia: sfogliate una rivista qualsiasi di quegli anni, anche raffinata come “Cose - Chiacchiere, Originalità, Sport, Eleganza”, (allora sulla stampa andavano gli acronimi, vedi il celebre “Lidel - Letture, Illustrazioni, Disegni, Eleganze, Lavoro” fondato da Lydia De Liguoro) e vi troverete la pubblicità della “Lavanda Alpi superiore a tutte le altre acque”, anche lei di Alessandria, e di altri laboratori locali oggi scomparsi. L’ebbe vinta Felce Azzurra, “un sempreverde che simboleggia il mistero, una nuance che richiama serenità e pulizia”, e il grande successo la portò a replicarsi via via in saponette, talco, deodorante a prezzi popolari ma con un posizionamento alto-borghese, aspirazionale, che fra i Sessanta e i Settanta significava anche un filo trasgressivo, il delitto Casati avete presente, il comune senso del pudore con Alberto Sordi, quella roba lì, con tutti i suoi sottintesi e un baluginio di tette.
Dunque, ecco i Caroselli con le coppe di champagne, i boa di struzzo trascinati fra gli scogli e perfino qualche serio scivolone (“per una donna con i fiocchi, un bagno con i fiocchi”, rappresentata plasticamente da una ragazza avvolta nella carta stagnola e stretta da una gala arricciata) che allora era solo espressione di cattivo gusto mentre oggi configurerebbe una denuncia per sessismo.
Dopo aver fatto un giretto su YouTube e fra gli archivi dei collezionisti di manifesti per verificare il souvenir della coppa e del “cocktail da bagno” con Alberto Lupo e la ragazza nuda fra le bolle, inizio a capire perché il sito della Paglieri sia così scarno di informazioni e perché lo scorso anno, per la “limited edition” del centenario, l’ufficio marketing abbia scelto un’immagine di Gino Boccasile degli anni Cinquanta, ma non una delle sue donne slanciate e discinte e che naturalmente nella storia dell’azienda non manca, avvolta in un velo di chiffon semi-trasparente e circonfusa di fiori, ma una bimbetta, nuda ma abbastanza pudica, che si incipria le ascelle col talco.
Delle memorie raccontabili nel Terzo millennio, è rimasto il Quartetto Cetra, che interpretò i Caroselli Paglieri per un breve periodo negli anni Sessanta (“il talco Felce Azzurra, l’amico per la pelle. Non tenere la tua pelle in cassaforte” e, non vi lascio indovinare perché tanto lo sapete, c’è una ragazza avvolta in un asciugamano che esce da una cassaforte mentre il Quartetto Cetra che la libera è vestita di tutto punto), mentre è scomparso dalla memoria ufficiale lo stesso Alberto Lupo, il contraltare di Mina nelle “Parole, parole” ideate come sigla di chiusura del varietà “Teatro dieci”, con la sua voce calda che faceva sognare le signore del sabato sera davanti alla tv e del supermercato il lunedì pomeriggio, dove si faceva la spesa di scatolame e dei primi surgelati per la settimana (il merluzzo abbattuto già sui pescherecci era garanzia di igiene, dunque consentito anche a casa nostra), rifornendosi invece per le minuzie e gli alimenti freschi nei negozi sotto casa.
Tutte profumavano di borotalco Roberts, tranne me. Io sapevo di bucato delle suore; odore non cattivo, ma che richiamava il convitto
Per tornare alla visita ionica dell’altra settimana, quando mi sono diretta con i miei prodotti austeri e privi di appeal verso la doccia e vi ho trovato, in un angolo, il bottiglione azzurro del Felce Azzurra, non ho resistito. Credo di averne usata la quantità che cinquant’anni abbondanti di privazione meritavano. Sì, lo so che nei quattro decenni dai quali ho raggiunto l’indipendenza economica nessuno mi avrebbe impedito di acquistarlo, tre euro e trentotto centesimi si possono pure spendere per un prodotto che magari non ci piace e poi lasciarlo lì fino alla scadenza, siamo figli della società dei consumi non per caso e anche se ci facciamo un vanto di riciclare tutte le confezioni dividendole per materiale, l’involucro esteriore di carta di lì, il sacchetto di plastica di là, le parti metalliche dipende dalla regione. Eppure, non mi è mai passato per la testa, pavlovianamente, che avrei potuto comprare tutta la gamma dei prodotti Paglieri, ormai leggo che producono anche il profumante per lo stiro. Vedi i condizionamenti famigliari fino a quando possono durare: non dovevo usare Felce Azzurra a sei anni, non l’ho usato fino a sessanta. Per farla breve, sono uscita dalla doccia olezzante di tutte le essenze elencate nel sito, la celebre “formula segreta con più di cento ingredienti provenienti da tutto il mondo” che includono la rosa, il pino, il patchouli, e che per via di una normativa europea anti-allergeni severissima ormai sono quasi esclusivamente di sintesi, e mi sono sentita un fiore anche io. In cinque minuti, avevo saldato il conto di un’infanzia di oli di Aleppo e sentori di Marsiglia che, oggi posso dirlo, erano una fonte costante di imbarazzo.
Tutti abbiamo la nostra madeleine, e nulla è più persistente della memoria olfattiva che, come scrivono le riviste femminili nel numero dedicato ai profumi, cioè sotto Natale, è anche la meno celebrata. La mia madeleine ha l’odore pungente del sapone di Marsiglia, che peraltro è ormai impossibile trovare nella formula certificata da Colbert alla metà del Seicento per evitare che i saponai immettessero nella mistura grassi animali, il celebre sego che nei romanzi di Conrad serve per alimentare le lampade ma che è meno stabile dell’olio d’oliva. Comunque, rieccomi lì nella mia madeleine sciolta non nel tè ma nell’acqua del bagno dopo la giornata trascorsa al mare, pronta per uscire con l’abitino punto smock ricamato a Firenze e i codini col fiocco bianco. Quasi tutte le sere, d’estate, con le amichette e le mamme in gruppo si usciva dopo pranzo per il gelato sul lungomare di Santa Margherita, l’inarrivabile pinguino della Gelateria Centrale che resiste con l’insegna azzurra e lo stesso bancone di allora, unico e indomito baluardo di un’epoca naufragata fra le boutique di stracci made in China e le rivendite di pizzette. Tutte profumavano di borotalco Roberts, tranne me. Io sapevo di bucato delle suore; quell’odore non cattivo, per carità, ma che richiamava i corridoi dei convitti tirati a lucido con la liscivia, quell’antichissima miscela di carbonato e perborato di sodio di cui i millennial hanno scoperto l’esistenza vedendo al cinema “La favorita” di Yorgos Lanthimos, quando Emma Stone si brucia le mani per colpa delle altre cameriere invidiose. Emanavo l’odore delle lenzuola di un certo asilo di via Erba che avevo odiato e mi vergognavo da morire, ma la consegna era chiara: niente additivi, niente profumi chimici, il talco per carità che ostruisce i pori, per non dire le saponette profumate “da cameriere” (eravamo tutti scorrettissimi, mica solo Alberto Lupo e le ragazze col fiocco sotto il seno) che allora occupavano, come peraltro facevano da un secolo, le quarte pagine delle riviste e che, ça va sans dire, anche loro in casa nostra non si potevano leggere.
Camay “con vero profumo francese”. Eravamo leader nei cosmetici già allora, ma per la massa lo “chic” ancora arrivava da Parigi
Le sbirciavo di nascosto quando accompagnavo la mamma dal parrucchiere: Lux, Camay “con vero profumo francese” e la boccetta di cristallo fotografata accanto. Già allora eravamo leader mondiali nella produzione di profumi e soprattutto di cosmetici, ma per la massa la “roba buona”, lo “chic”, arrivava ancora da Parigi. Non è un caso che Umberto Eco avesse dedicato a Camay, il profumo “per le donne di classe”, un passaggio significativo del suo saggio “La struttura assente”. Nella mappa mitologica e molto ignorante del lusso negli anni a cavallo fra la contestazione e il consumo sfrenato e dimentico degli Ottanta, Camay, storico prodotto della Procter&Gamble ceduto a Unilever una decina di anni fa perché gli scarsi volumi non lo rendevano più profittevole per una multinazionale concentrata sui detersivi, non era solo un prodotto per l’igiene diverso dagli altri per via del suo profumo, ma un modello di comportamento. Il tramite qualificante per una vita migliore, nella quale si sarebbero frequentate aste di dipinti, balli o eleganti cocktail (sempre loro, in ogni salsa e anche in salsa vera e propria, che era stata inventata pochi anni prima negli Stati Uniti). Oggi che tutti usano saponi liquidi, la classica saponetta Camay, “quel pizzico di fascino in più”, è diventata una rarità. Ha un lettering elegantissimo, è prodotto di importazione e costa uno sproposito. Mi sa che lo ordino su Amazon negli Stati Uniti.